Il caso dei bambini ecuadoriani nel Gambarogno

In questi giorni soleggiati di metà ottobre, ha fatto un certo rumore lo scontro tra il direttore del Dipartimento dell’Educazione, della Cultura e dello Sport, Manuele Bertoli (Socialista), e quello del Dipartimento delle Istituzioni, Norman Gobbi (Lega), in merito alla scolarizzazione di due bambini di origine ecuadoriana nelle scuole del comune di Gambarogno. Ne hanno riferito un po’ tutti, a partire da La Regione Ticino che nell’edizione del 16 ottobre ha lanciato il caso in prima pagina, con un duro commento del direttore Matteo Caratti e una cronaca nelle pagine interne (Ecuadoregni: Bertoli vs Gobbi). Ha scritto Caratti, sotto il titolo «Dalla civiltà all’inciviltà…»:

È vergognoso che un rappresentante del governo cantonale intervenga, oltretutto invadendo campi altrui, su un esecutivo comunale per dire di non scolarizzare due ragazzini ecuadoregni che dovrebbero frequentare l’asilo e le elementari, perché hanno la maledetta pecca di non essere ufficialmente domiciliati.

Quale sarà il prossimo passo di un cantone che non è nemmeno più capace di accogliere le carovane di zingari, come avveniva anche solo fino a pochi anni fa? Nemmeno gli zingari rossocrociati? Non dare l’opportunità a un bimbo figlio di migranti di imparare, di istruirsi, di incontrare altre culture, di capire cosa significa vivere qui da noi, porta semplicemente all’esclusione.

Nessun ponte, raus, giù anche la saracinesca della scuola, buttiamoli in strada. È il verbo dei nuovi movimenti populisti: qui (solo) i nostri, fuori gli altri. E già che ci siamo fuori anche i bambini, che vanno invece tutelati più di tutti senza né se e né ma.

Per affermarlo è giusto rifarsi alle convenzioni internazionali. Parlano chiarissimo. Ma, guardiamoci dentro, basterebbe anche una minima dose di buon senso e – osiamo? si può ancora? – di cuore. Quei bambini non hanno colpa alcuna (e a dire il vero nemmeno i loro genitori che si arrabattano come possono per stare a galla).

Noi abbiamo invece il dovere di accoglierli! Dalla civiltà all’inciviltà, signori, il passo è breve.

Non servono leggi, regolamenti o trattati, che la Svizzera ha sottoscritto ormai da decenni, per capire che la decisione del comune di Gambarogno è corretta. Lo sarebbe stata anche solo appellandosi all’etica, laica o cristiana che sia, che non è acquetta.

Fa bene, quindi, La Regione a non mollare l’osso, riprendendo il tema sull’edizione del 18 ottobre, con un articolo in cronaca – Sono bene integrati e contenti – e un lucido editoriale del direttore Matteo Caratti (La panna montata della paura).

Lo stesso quotidiano, inoltre, rende un omaggio sacrosanto a Eros Nessi, vicesindaco del comune di Gambarogno e responsabile del dicastero Educazione. Nella sua rubrica del sabato, dedicata al meglio e al peggio della settimana, La Regione lo mette in Alto, con un semplice commento.Untitled

Eros Nessi, oltre che un amico (lo dico per evitare malintesi), è pure stato il mio ispettore per una quindicina di anni, e sta continuando in quell’attività come ha sempre fatto, con impegno e competenza; ma, più di tutto, con un rispetto altissimo dei diritti delle persone, diritti che valgono sempre più di ogni campagna elettorale.


Per una rapida panoramica della vertenza, ecco il servizio mandato in onda il 16 ottobre dal «Quotidiano», su RSI LA1: Bimbi ecuadoregni, scontro Bertoli-Gobbi, con le dichiarazioni dei due consiglieri di stato.

5 commenti su “Il caso dei bambini ecuadoriani nel Gambarogno”

  1. Caro Graziano chiaramente concordo con te sul senso di colpa. Nel mio intervento volevo solo dire che i dirigenti scolastici devono assolutamente difendere i diritti dei bambini e dei ragazzi. Sono convinto che lo si faccia spesso senza clamore.

  2. Ci mancherebbe … durante la guerra in Yugoslavia arrivò a Stabio in modo semi clandestino una famiglia con due ragazzi (10 e 12 anni). In qualità di direttore li accolsi a scuola ed ebbi una discussione con il Municipio, che fu informato della cosa. Ai municipali dissi che io come rappresentante della scuola cominciavo a prendere quei bambini, e che non stava a me vedere se erano in “regola”. Questo compito lo fa l’ufficio stranieri. I due ragazzi frequentarono così la nostra scuola per alcuni mesi. La cosa finì perché alla famiglia fu negato il permesso di rimanere e dovette ripartire.
    Come giustamente riportato dai giornali esiste anche in Svizzera per fortuna il diritto fondamentale di andare a scuola per tutti i bambini in età di scuola obbligatoria, e noi rappresentanti e garanti dell’istituzione scolastica lo dobbiamo far rispettare se è il caso anche contro altre istituzioni o uffici cantonali.

    1. Caro Marco, caro direttore, buona giornata.
      Ho la netta impressione che le emozioni, il senso di colpa latente in noi e condizionato dal benessere della nostra società, ci porti fuori strada. A mio avviso non si tratta piu’ di rispettare il diritto fondamentale di andare a scuola, anche se oltre questo diritto ci sono molti altri diritti da rispettare. Bene se i bambini possono frequentare la scuola. Meno bene se le loro situazioni famigliari restano quelle che sono. Se niente cambia alla situazione di clandestinità, o alla situazione di essere ….arrivato in Svizzera. Ritornando all’esempio dei due ragazzi arrivati a Stabio dall’Yugoslavia, per loro la cosa, il trauma, non finì quando fu negato alle famiglie il permesso di rimanere, “grazie alla decisione dell’ufficio stranieri”. Si è solo ripetuto lo sbaglio fatto nel 1942/3 (?) accogliendo nella pacifica e comoda Svizzera i bambini malnutriti e bisognosi della Polonia. E dopo aver loro mostrato come è bella la vita in Svizzera, rimandati a morire a casa loro. Per me il problema non è se questi due bambini possono o non possono frequentare la scuola. Ma trovare soluzioni che altri bambini in futuro non siano confrontati con queste realtà e responsabilità, delegate per ultimo e comodità di coscienza ad un ufficio (stranieri o di Polizia).

      1. Graziano Carnielli pone degli interrogativi interessanti, e lo ringrazio. Di transenna osservo che il nostro «Sistema scuola» non è più adeguato al funzionamento attuale della società (vedi, per cominciare, ritmi giornalieri e annuali fermi più o meno alla realtà dell’800 e di buona parte del ’900). A ciò s’aggiunga che negli ultimi anni è cresciuta la confusione attorno alle finalità della scuola pubblica, non solo obbligatoria, che sta diventando sempre più utilitaristica, tanto che per sopperire a obiettivi tradizionali che si sono sfilacciati nel tempo c’è chi auspica nuove discipline: un esempio su tutti l’educazione civica. Una scuola siffatta, quindi, diventa vieppiù luogo di esclusione, sebbene fino a oggi la scuola elementare riesca ancora, bene o male, a resistere. Ma fino a quando?
        A ciò si aggiunga il peso sempre più gravoso delle funzioni di custodia degli allievi, che sta spostando gli obiettivi tradizionali – educare attraverso il lavoro di imparare – sempre più sul versante dell’impegno sociale: così la scuola, quella che si svolge in aula con l’insegnante, è sempre più stretta tra una mensa, un doposcuola e una colonia.
        Detto questo, il diritto di ogni bambino o ragazzo a frequentare la scuola non può essere affrontato col paraocchi del buonismo «ideologico» e/o di facciata. Negli oltre cinque lustri alla direzione delle scuole comunali di Locarno mi sono confrontato con casi tra loro molto diversi e non sempre sorretti da buone intenzioni, da una parte (ente pubblico) o dall’altra (genitori o chi per essi). Ricordo un figlio di stagionali che avevo scolarizzato benché, teoricamente, l’entrata in Svizzera non fosse concessa. Questo ragazzino, però, rientrava quattro mesi all’anno al paese d’origine con la famiglia, così che la frequenza scolastica s’interrompeva. Scoprimmo poi che il capofamiglia era stagionale da molti anni, ma per nulla al mondo avrebbe scambiato il permesso annuale coi mesi di vacanza al sole. Si dovrebbe poi dire che la scolarizzazione sul lungo periodo veniva spesso usata, a colpi di ricorsi, proprio per poter restare da noi contro il parere dell’autorità che doveva esprimersi sulla richiesta d’asilo. O ancora c’era la nonna che chiedeva qualche settimana di frequenza scolastica perché la nipote, durante le vacanze di un altro cantone, era ospite da lei e si annoiava…
        Tuttavia, che io ricordi, è la prima volta che si scatena una simile polemica a livello mediatico per risolvere un caso che, fino a ieri, era normale amministrazione. È questo che deve far paura.

  3. Leggo per la prima volta la vostra”NEWSLETTER” complimenti ! Non sono un Ticinese DOC, risiedo da più di un anno nel Ticino. Seguo “ancora” con interesse le diverse informazioni più o meno esatte …. che la stampa ticinese sforna ogni giorno, ad uso e consumo del propio orientamento, credo, politico. Cerco di assimilarmi, capire qualche cosa nel piccolo mondo di provincia dove vivo !
    Noto che la stampa ticinese in genere, è molto attenta e pronta nel pubblicare informazioni dove c’è uno scontro di idee, una diversità di opinioni, meglio se condizionate dal colore o responsabilità politiche. Con l’unico risultato di alimentare sempre più reazioni negative e populiste fra i lettori, nascondere così la verità.
    Il caso dei bambini ecuadoriani nel Gambarogno. Dimostrare solo una grande buona volontà per i bambini, dimenticando i vari perchè, la realtà della situazione, le famiglie … questa sì è povera “etica”, vera ambiguità morale. Perchè ci sono queste situazioni nel nostro paese, a quando il prossimo confronto etico-morale con noi stessi ? Perchè queste situazioni ?
    Un cordiale saluto.

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