«Le attività che il bambino esegue spontaneamente, come il disegnare e il dipingere, possono diventare momenti educativi rilevanti, sia in rapporto all’espressione dei sentimenti, sia ai fini dello sviluppo intellettuale»: è con una simile dichiarazione d’intenti che si apre il capitolo dei programmi della nostra scuola elementare dedicato al disegno – o, per usare l’esuberante denominazione ufficiale, alle attività grafiche e pittoriche. Sarebbe inutile, in questa sede, elencare tutti i benefici che si possono ricavare dalla pratica del disegno o tutti gli ambiti in cui la rappresentazione grafica adempierebbe la miglior funzione comunicativa; i programmi, in ogni modo e a questo proposito, sono esaustivi al limite dell’ampollosità.
Eppure, anche in questo caso, tra il dire e il fare c’è di mezzo almeno un po’ d’ignavia, perché sfugge a pochi il fatto che, nella scuola elementare, non si impara a disegnare, mentre tutto è lasciato alla mercé del più colpevole spontaneismo, così che siamo sicuramente in tanti ad aver disegnato molto, e piacevolmente, quando frequentavamo l’asilo, mentre le nostri doti artistiche si sono ben presto ridimensionate al contatto con la scuola elementare, quando ci siamo accorti che un «bel» disegno serviva più che altro al maestro per farci tirare l’ora della ricreazione dopo l’esercizio di aritmetica, in modo che non disturbassimo: una disciplina tappabuchi, per farla breve, un’attività da svolgere senza scocciare, sciaguratamente senza nulla imparare.
È in un contesto simile che è stato presentato a inizio mese il volume «Disegnatori si nasce e si diventa», un’interessante proposta scaturita dalla collaborazione tra due insegnanti dell’alta scuola pedagogica ticinese: Dario Bianchi, artista pittore e docente di educazione visiva, e Michele Mainardi, professore di scienze dell’educazione. Già le prime righe del libro – una citazione di Edgar Degas – la dicono lunga sugli intenti degli autori: «Ciò che io faccio è il risultato della mia riflessione e del mio studio sui grandi maestri: io non so niente di ispirazione o di spontaneismo». Ecco allora un percorso che si dipana tra piattaforma concettuale e critica riflessione pedagogica, contro «… i più strenui difensori dell’arte come rituale magico», ma con una precisa scelta di campo a favore dell’insegnamento autentico del disegno, affinché l’intervento rigoroso e competente della scuola riesca ad assumere «… un ruolo centrale nel delicato processo di salvaguardia delle facoltà grafiche infantili». Coerentemente, il cammino tracciato da Bianchi e Mainardi – 130 pagine edite dall’Alta Scuola Pedagogica in collaborazione con il Centro Didattico Cantonale – si conclude con il resoconto di un’esperienza reale e con un articolato esempio.
Non credo proprio che gli stessi autori ritengano che il disegno debba assumere un ruolo preminente durante la scuola obbligatoria. Non si tratta, in effetti, di stabilire se le «attività grafiche e pittoriche» debbano concretizzarsi come disciplina di serie A, B o Z. Ma imparare a comunicare attraverso il segno grafico è una competenza in più, che può riservare piacevoli soddisfazioni anche a chi, da grande, non sogna di essere un nuovo Picasso. Tenuto conto della cattedra da cui parte il discorso, c’è solo da augurarsi che i maestri che usciranno dall’ASP nei prossimi anni sappiano approfittare di questi segreti dell’arte: perché imparare a disegnare è un diritto, che non porta necessariamente al Louvre, così come la scrittura non trasforma ogni allievo in autore di best seller. E perché andando avanti di questo passo, fra non molto si dovrà intonare il de profundis per una disciplina storica.