Gli educatori che, trenta e passa anni fa, se la prendevano con la TV, rea di indurre le menti alla pigrizia e di innescare lo spappolamento dei cervelli, oggi sono serviti di barba e capelli. E pensare che fino a una cert’epoca – diciamo fino a metà degli anni ’70 – la televisione era addirittura pedagogica. Basti menzionare un’emissione come «Non è mai troppo tardi», andata in onda sulla RAI dal 1960 al 1968 e condotta dal leggendario Maestro Alberto Manzi, l’autore di «Orzowei», che contribuì al recupero di molti adulti analfabeti. Anche la nostranissima TSI mandava in onda film con l’avvertenza «La visione è riservata ai soli telespettatori adulti», e capitava che il giorno dopo – mannaggia! – il compagno di banco il film l’aveva visto, nonostante l’avviso un po’ bacchettone: chissà che immagini pruriginose m’erano scappate. Tutto sommato, però, la TV era un fatto collettivo. Anche lasciando perdere le puntate di «Lascia o raddoppia», quando le famiglie andavano al bar a seguire le disfide “intellettuali” del Marianini, non si può dimenticare che il televisore occupava uno spazio di tutto prestigio nel salotto buono di casa, fosse pure l’ampia cucina o il più borghese tinello. Ergo, c’era un doppio controllo sulla fruizione televisiva dei pargoli: l’una istituzionale, perché la TV era comunque «di Stato»; l’altra genitoriale, pur con l’ampio arco dottrinale del caso. A parte una breve e recente parentesi, durante la quale si fece a gara per ospitare in casa un’innumerevole schiera di televisori, ognuno dotato di immancabile telecomando – ah, le tecnologie moderne! – oggi a regnare è il computer indissolubilmente allacciato al www, con le sue facilitazioni e il suo sguardo sul mondo intero.
Secondo un recente studio del Dipartimento Scienze Aziendali e Sociali della SUPSI [Lara Zgraggen e Michele Mainardi, Minori in Internet, 2012] il 92% degli allievi di scuola elementare e il 98% degli allievi di scuola media usa internet. Circa un quinto dei primi e quasi la metà dei secondi va in rete giornalmente, in media da una a due ore. Un gran numero di loro il PC l’ha in camera (49% e 66%), ma il controllo dei genitori è a corrente alternata. «Sussiste un legame diretto tra l’assenza dei genitori e la fruizione della Rete», scrivono i ricercatori. «I minori che sono a casa da soli durante le pause dei pasti principali tendono a utilizzare in modo più frequente la Rete rispetto ai compagni che godono della presenza di almeno un familiare». Par di capire che, in presenza dei genitori, l’accesso sia consentito, ma a orari determinati: alla faccia delle guerre sante contro la TV di quei tempi che sembrano così lontani. Vien da chiedersi fino a che punto l’educazione sia ancora una scelta consapevole degli adulti. In quelle centinaia e centinaia di ore passate a portata di clic i nostri ragazzi dicono di giocare, cercare e scaricare musica e filmati, chattare, partecipare ai social network (in particolare Facebook: ma non bisognerebbe avere tredici anni per accedervi?), cercare informazioni, girovagare per YouTube. Annotava Jean-Jacques Rousseau a metà ’700: «Rendete il vostro allievo attento ai fenomeni della natura, e lo renderete ben presto curioso; ma, per alimentare la sua curiosità, non vi affrettate mai a sodisfarla. […] Ch’egli non sappia nulla perché glielo avete detto voi, ma perché l’ha compreso da sé […]. Se mai sostituirete nel suo spirito l’autorità alla ragione, egli non ragionerà più; non sarà più che il giocattolo dell’opinione degli altri» (Emilio o dell’educazione, 1762, Libro II). Insomma, tutto il contrario rispetto al World Wide Web. Sorvolando sui pericoli più noti della rete – la pornografia, la comunicazione con sconosciuti non necessariamente bene intenzionati, le esperienze inaspettate e spiacevoli – resta tutt’intera la delega dell’educazione dei propri figli ad attori sconosciuti, dei quali non si conoscono le finalità: che, di primo acchito, non sembrano mirare a sviluppare la conoscenza e lo spirito critico. Appunto: giocattoli dell’opinione altrui. E, più di tutto, consumatori.