Ancora pochi anni fa c’era chi si scandalizzava se un ragazzetto non sapeva dove si trovasse l’Adula o se non aveva nessuna idea di cosa fossero il patto di Torre o il giuramento del Grütli. Oggi se ne parla ancora in alcune aule scolastiche, ma sembra evidente che la storia e la geografia – per non parlare di altre discipline ancor più “inutili”, quali la filosofia o la musica – non appartengono più al gotha della cultura scolastica, soppiantate dalle lingue due e tre, nonché dalle scienze più o meno esatte. Che poi i nostri giovani non brillino per le loro straordinarie competenze in questi ambiti poco importa. La vecchia storia e l’ancor più vetusta geografia sono state scalzate da tematiche ben più urgenti ed emergenti, legate in particolare all’accresciuta ampiezza del mondo, alla rapidità e alla complessità dei rapporti sociali e ai profondi cambiamenti socio-culturali intervenuti anche a livello locale, messi in evidenza dalla presenza in tanti comuni di una percentuale elevata di persone di altre lingue, altre religioni, altri usi e costumi. Ecco allora che, a partire da qualche parola magica, come integrazione e accoglienz, ci si è lanciati in decine di proposte didattiche che dovrebbero mettere le nuove generazioni in grado di conoscere gli altri, di capirli e di rispettarli. Anche in questo caso il fatto che di risultati non se ne vedano molti sembra non destare troppe preoccupazioni.
Intanto fuori dalle aule scolastiche non si sta certo con le mani in mano. L’educazione dipende sempre più dallo spettacolo offerto dalla quotidianità e amplificato dai mass media, apparentemente senza un obiettivo preciso, ma con un miscuglio caotico di intrattenimento, informazione e stimolo al consumo, dentro un sistema di valori banali e frivoli. In tale contesto i due sistemi educativi – quello scolastico e quello della comunità nel suo insieme – si ignorano reciprocamente, anche se il primo non se lo potrebbe permettere. E allora, che fare? Ha scritto il pedagogista Philippe Meirieu: «Tra gli elementi determinanti [di tale situazione], occorre sicuramente confermare la scomparsa del consenso su ciò che conviene insegnare. Un tempo era scontato che accanto all’educazione familiare, che funzionava largamente per imitazione, la Scuola doveva trasmettere ‘le belle cose ereditate dalla storia degli uomini’. Ma sappiamo bene che tale evidenza è andata in frantumi. L’idea stessa che sia necessario insegnare ‘il bello’ non trova più consensi: l’utile l’ha rimpiazzato massicciamente. Ridotta dall’utilitarismo contemporaneo al rango di ‘competenze funzionali’, la cultura scolastica si dissolve così in una moltitudine di savoir-faire senz’altra legittimità che una pertinenza inevitabilmente provvisoria, incerta e, dunque, perfettamente discutibile» (Le maître, serviteur public, 2008).
Analogamente è sotto gli occhi di tutti che la frammentazione dell’insegnamento da un lato e, dall’altro, la socializzazione-educazione trattata in termini universalistici e separata dalle discipline, quasi si trattasse essa stessa d’una materia di studio autonoma, ha portato alla diffusa ignoranza d’oggigiorno e al dileggio reiterato di chi non è come noi e non la pensa come noi. Osserva ancora Meirieu: «È impossibile ‘educare-socializzare’ sul nulla. La socializzazione si realizza a partire dagli apprendimenti scolastici e per il loro tramite». Insomma: la sopravvivenza della scuola con le finalità definite dalla sua specifica legge deve passare per forza di cose attraverso il recupero della sua missione culturale, una missione al servizio della democrazia. È un problema politico, dei politici, ma anche degli uffici dipartimentali, dell’alta scuola pedagogica e di tutti i cittadini che hanno a cuore il nostro futuro. Forse l’attuale periodo che vede per lo meno un po’ in affanno i meno-statisti e i fanatici del mercato che sistema ogni cosa potrebbe contribuire a rilanciare, attraverso la pedagogia, una scuola più attenta ai suoi obiettivi fondamentali. Da che parte vogliamo cominciare?