Non so se ci avete fatto caso, ma durante le cosiddette vacanze dei Morti ha fatto capolino il Natale. A dire il vero le nostre città e borgate sono ancora sonnacchiose e non hanno ancora tolto dalle scansie le stelle luminose e gli addobbi colorati e i babbi natale da piazzare su vie e piazze, per ricordare ai nativi e agli occasionali turisti che è in arrivo il tempo del “sentiamoci più buoni e generosi”. Però il Natale ha cominciato a rivelarsi, in tutto il suo luccichio e in tutti i suoi ammiccamenti, nei grandi magazzini: quelli che già c’erano l’anno scorso e quelli che si stanno ampliando a dismisura o che spuntano come funghi, in barba all’economia catastrofica che ci descrivono le solite cassandre. Non servono immense doti di chiaroveggenza per immaginare quale sarà il seguito: ai primi di gennaio, assieme ai botti del Capodanno, scoppierà il Carnevale e nel giro di poco più d’un mese saremo invasi da coniglietti e uova colorate, per poi affrettarci verso la bella stagione, coi suoi scenari da favola – in riva ai mari più remoti e in cima a vette mozzafiato – e con l’inevitabile corollario di pinne e ciambelle, piccozze e scarponcini e creme solari.
Il bello è che la scuola e i rari intellettuali che intervengono a scadenze regolari sui media non si stancano, da ormai oltre quarant’anni, di scandalizzarsi e di denunciare questa inarrestabile corsa al consumo idiota. Ricordo – e come me certamente molti altri – i miei primi anni di insegnamento, all’inizio dei ’70: per Natale c’era chi concepiva i presepi anticonformisti, coi palestinesi o con gli indio del Mato Grosso; si usavano materiali alternativi al posto delle stucchevoli statuette e s’immaginava che, attraverso uno spirito critico istintivo e una dose smisurata di creatività, avremmo plasmato dei cittadini più attenti e consapevoli. Risultato? Zero al cubo: a qualche decennio di distanza la situazione è lì tutta da vedere. Ed è senz’altro peggiore. L’americanizzazione della vecchia Europa continua imperterrita e tra qualche anno ci ritroveremo anche noi con una popolazione credulona e incline a prestar fede ai miracoli, agli oroscopi e ai fondi di caffè per risolvere i problemi quotidiani. Un bel fallimento, non c’è che dire.
Forse è anche per questi motivi che molti della mia generazione si sono ritirati nel privato, travolti dalla strapotenza dei media – attenti all’audience anche quando dichiarano il contrario – e dalla disinvoltura della classe politica, che, un po’ in tutt’Europa, si è troppo in fretta arresa alla filosofia pseudo-democratica della political correctness, ai cedimenti nei confronti dell’inglese (con quell’inflessione sempre più sguaiatamente yankee) e al liberismo smodato. Un esempio: vi sembra che in Svizzera ci si sia mossi con determinazione, dopo aver preso atto che le competenze linguistiche dei nostri quindicenni fanno acqua? No, la Conferenza dei Direttori dei Dipartimenti dell’Educazione è andata avanti con la sua politica di diffusione dell’inglese – una sorta di harakiri – e ora viene a dirci che occorre armonizzare i programmi di studio dell’intero Paese per “garantire e sviluppare la qualità della formazione in Svizzera”. Lascio indovinare al lettore quali saranno gli ambiti degni di armonizzazione.
Forse la scuola dovrebbe essere capace di trarre qualche insegnamento da ciò che è successo in questi ultimi decenni di rincorsa dell’ignoranza e della fiacca. Forse è giunto il momento di insegnare ai nostri allievi a porsi le giuste domande, piuttosto che vomitare risposte masticate da altri. Forse, come ha scritto di recente la scrittrice Paola Mastrocola, “… se la scuola volesse fare la scuola e basta, potrebbe puntare tutto sul suo specifico, che poi sarebbe il suo valore culturale: il fatto che la scuola ti formi culturalmente e basta non sarebbe già molto? Vorrebbe dire che ti fa leggere dei bellissimi libri, tanto per dirne una”. Invece la scuola, almeno finora, si è conformata.