Propongo oggi un articolo che avevo pensato per la prima puntata del 2015 di «Fuori dall’aula». Poi, invece, mi sono accorto che la mia rubrica sul Corriere del Ticino sarà in congedo ancora fino a febbraio: attendere ancora un mese mi avrebbe fatto correre il rischio di firmare un articolo sorpassato da altri interventi sostanziali. Così eccolo qua, col suo solito taglio e il suo tradizionale metraggio.
«La scuola che verrà». Detto così sembra il titolo di una canzonetta da notte di San Silvestro. Invece è un ambizioso progetto del nostro Dipartimento dell’educazione, una sorta di manifesto per la scuola dell’obbligo del futuro prossimo. Ha scritto il ministro Bertoli nella prefazione: «Con questo progetto vogliamo migliorare il quadro entro cui avviene l’apprendimento degli allievi, affinché tutti loro possano imparare meglio e costruire un sapere più solido. È quanto si attendono i genitori, è l’obiettivo professionale di tutti gli insegnanti e deve poter diventare il fine ultimo dell’intera nostra comunità, che nella formazione dei suoi giovani si gioca un bel pezzo del proprio futuro». Effettivamente le poco più di 40 pagine del documento tratteggiano diversi cambiamenti sui quali gioverebbe aprire un dibattito schietto e rigoroso, senza le censure, i vincoli, le minacce e i pregiudizi che caratterizzano quasi sempre questi ammirevoli tentativi.
Ma non sarà così. Nei pochi giorni tra la presentazione del dossier e le vacanze natalizie si sono subito levate voci tra l’allarmato e lo sdegnato. Il Movimento della scuola, ad esempio, si è già messo di traverso: «In certe riforme troppi scienziati dell’educazione», titolava questo giornale. E mentre il direttore del Corriere invitava alla prudenza, il mondo imprenditoriale liquidava la pendenza in poche righe: secondo Silvio Tarchini si tratta dell’«ennesimo abbassamento della selettività della scuola. L’abolizione dei livelli porterà ad ulteriori difficoltà nel momento del passaggio nel mondo del lavoro»; gli ha fatto eco Fabio Regazzi: «Ritengo fondamentale ristabilire la meritocrazia, cosa però difficilmente raggiungibile con la soppressione di valutazioni e licenze». Voilà, il dibattito è servito. Tanti gattopardi, di sinistra e di destra, dentro la scuola o meno, sono ai blocchi di partenza. Gongolanti.
Personalmente vedrei con piacere una discussione a tutto campo sulla scuola che verrà, o che ognuno vorrebbe che venisse. Non mi spaventano le griglie orarie flessibili, la generalizzazione di una pedagogia differenziata (ma non c’era già?), o la collaborazione – tangibile! – tra docenti. Se c’è qualcosa che mi infastidisce, semmai, è che il gruppo di lavoro che ha tratteggiato la scuola di dopodomani è stato sin troppo prodigo di dettagli, o non ha saputo mollare del tutto il freno a mano. Qua e là si intuiscono soluzioni prêt-à-porter a problemi importanti e delicati, e questo non è un bene. La visione dipartimentale è ora in consultazione: chi volesse saperne di più o dire cosa ne pensa non ha che da digitare www.lascuolacheverra.ch.
Certo che l’entrata in campo non è stata delle più felici. Il Dipartimento che lancia un dibattito di tali dimensioni a pochi mesi dalle elezioni e in maniera del tutto inattesa – anche perché i più manco sapevano che c’era un gruppo di lavoro che sognava creando incubi – suscita qualche sospetto. Per il paese che vanta una delle prime facoltà di scienze della comunicazione non è un buon biglietto da visita. Detto questo è giusto ricordare che la scuola che verrà non è degli insegnanti, dei partiti, degli psicologi o dei funzionari; e non è nemmeno dei sindacati, delle associazioni magistrali e padronali, delle assemblee dei genitori. Non deve rispondere a interessi corporativi, finanziari, confessionali, ideologici, razziali o di genere. «La scuola che verrà» non è una canzonetta, ma la scuola dello Stato. Cioè di tutti.
Il testo sulla “Scuola che verrà” tenta di formalizzare una serie di fenomeni educativi mettendo la proverbiale mano di vernice su une realtà che controlliamo ancora assai male. Oggi, anno 2015, non sappiamo ancora con sicurezza come il piccolo dell’uomo impara e ancor meno sappiamo come insegnare con efficienza a questo soggetto. Per contro abbiamo una serie di principi educativi che perlomeno assicurano un certo legame sociale. Anche se quest’ultimo comincia a sgretolarsi…
Il testo in questione presenta comunque una lacuna importante, lacuna peraltro non solo specifica al progetto ticinese, ma generale ai progetti della scuola moderna occidentale. Constato con relativo stupore che non viene fatto alcun cenno alla ricerca, alla necessità di garantire l’accesso alla ricerca agli insegnanti. Non si tratta di promuovere una ricerca accademica con la coccarda del ricercatore insigne, bensì di creare degli spazi di “ragionamento” dove gli insegnanti possano interrogare le realtà epistemologiche e sociali nelle quali devono operare. Il clima attuale è orientato alla tecnicità dell’insegnamento, con il rilevante pericolo di sacrificare il gesto intellettuale sull’altare delle “performance”.
Confinare la ricerca alle aule degli atenei e ai laboratori non è una buona soluzione, tanto più che l’aula scolastica è un laboratorio infinito, dove si concentrano i fenomeni epistemologici più straordinari!