Secondo l’editore locarnese Armando Dadò, che ha risposto a un mio articolo di fine aprile dove lo tiravo in ballo, «è pericoloso metter becco nella scuola». Ha scritto che avrei contestato «in qualche modo l’intrusione nel mondo scolastico da parte di un uomo della strada che conosce quel che conosce». Tale reazione mi ha fatto riflettere. Il mio scritto, lo ammetto, era diretto, senza troppi giri di parole. Mi aspettavo una risposta senza tanti complimenti; invece ha usato grande cortesia. Dadò, anche se si schermisce, è quel che si dice un opinion leader, almeno per il nostro Cantone. È purtroppo vero, come scrive, che tra le dichiarazioni della scuola, spesso tronfie e sempre rassicuranti, e la realtà ci sono differenze abissali. Io, nondimeno, non sono La Scuola. Credo che non vi siano altri importanti settori della società, come la scuola, sui quali tutti si sentano legittimati a dire e, soprattutto, a scrivere tutto quel che viene loro in mente. Le rubriche dei lettori pullulano di ricette semplici e prodigiose. Sembra di scimmiottare il «Bar Sport», i cui avventori son tutti dei Mourinho. In tempi recenti, ma con una certa costanza, si leggono a ogni piè sospinto anche le ricette di qualche «addetto ai lavori», magari formato da quel DFA tanto criticato: salvo poi che il pezzo di carta ottenuto a Locarno legittima a sputar sentenze.
Se vogliamo che la scuola resti un’Istituzione, occorre che lo Stato si assuma fino in fondo le sue responsabilità e rinunci a gestire la pletora di richieste formative che proviene dai politecnici e dalle università, dai più disparati settori dell’economia e della finanza, dalle diverse lobby che esercitano il loro potere in modo tanto o poco occulto: la famigerata scuola supermarket. Non è più possibile, in altre parole, tentare di rispondere a mille interessi giustapposti senza ritrovarsi con un sistema formativo inefficace e, nel contempo, inutilmente selettivo. Ad esempio, non è sufficiente scrivere in una legge che «La scuola media obbligatoria ha lo scopo di assicurare all’allievo una valida formazione morale, culturale e civica di base e la possibilità di scelte e di orientamenti scolastici in conformità delle sue attitudini e dei suoi interessi»: mica bazzecole. Però bisogna essere conseguenti e fare tutto il possibile affinché si possa centrare questo obiettivo con tutti gli allievi e non solo con chi è nato con la camicia. Sennò restano solo le chiacchiere. Un esempio: i programmi scolastici della scuola dell’obbligo, così stipati da rasentare l’insolenza. Franco Zambelloni ha parlato di recente di una serata pubblica promossa da «SOS Scuola» sulla necessità di «sfrondare i programmi attuali per evitare un enciclopedismo farraginoso che alla fine ha come effetto una superficiale informazione generica, presto dimenticata, senza che le competenze di base e i fondamenti di una buona cultura siano davvero acquisiti». Ha scritto di condividere «pienamente questa proposta, che tra l’altro ha alle spalle una tradizione gloriosa: il motto delle scuole gesuitiche – che per secoli furono eccellenti – era, appunto, “non multa, sed multum”: non molte cose, ma poche e bene». Zambelloni resterà del tutto inascoltato, perché altri interessi hanno la prevalenza, in un mondo in cui tutti sono autorizzati a proporre ricette straordinariamente incisive. Parlando della crisi dell’Europa Gian Arturo Ferrari, sul Corriere della Sera di qualche giorno fa (L’orchestra senza musica, 12.05.2012), ha annotato: «l’Europa, nel suo tentativo di comprendere tutto e tutti, di allungarsi su ogni remoto angolo del globo terrestre, ha finito per perdere il senso del proprio baricentro, della propria ragion d’essere»: un po’ come la scuola dell’obbligo, che rischia di ritrovarsi anch’essa come un’orchestra senza musica.