Scrive Barbara Palombelli sull’ultimo numero del Corriere della Sera Magazine: «Mamme in lotta contro i compiti a casa. Troppi, soprattutto nel fine settimana». Pare che una circolare ministeriale che risale al maggio del ’69 – in pratica siamo poco dopo il big bang – imponga che «… bisogna lasciare spazio anche allo sport, ai concerti, alla musica e al teatro». Aggiungerei: e al diritto di annoiarsi. Eppure i compiti – come li si chiama usualmente, senza avvertire il bisogno di indicare il luogo in cui vanno svolti – fanno parte del DNA della scuola, come le note, la cartella, l’astuccio e le vacanze scolastiche. Nella migliore delle ipotesi, per molti genitori l’insegnante che non dà compiti è un mollaccione. Sarà il medesimo che largheggerà nelle note e che si farà dare del tu dagli allievi: insomma, un poco di buono, uno inaffidabile, un sessantottino.
Gli ispettori di scuola elementare fingono ormai da anni di mettere un po’ d’ordine nel capitolo «Compiti a domicilio», tanto che i genitori dovrebbero ricevere, a inizio anno, una circolare informativa che fissa alcune regole e cerca di indorare la pillola. Tra le tante amenità, per lo più disattese da una miriade di maestri, la circolare statuisce che «Durante le vacanze scolastiche e i fine-settimana non vengono assegnati compiti a domicilio». Difficile sapere quanti genitori ricevono concretamente la circolare e la leggono, così come nessuno si è mai sognato di verificare in che misura i docenti rispettano queste semplici regole onestamente fissate dagli ispettori. D’altra parte, come detto, sono spesso i genitori medesimi che pretendono i compiti e che, quando l’insegnante, più accorto di loro, spiega che a scuola già si lavora tutto il giorno, se li inventano ispirandosi ai loro ricordi d’infanzia. Però si può malignare che difficilmente il maestro che trascorre le vacanze a Sharm el Sheikh porterà con sé un plico di quaderni da correggere…
Se alle elementari si fa almeno finta di non assegnare compiti a domicilio, dalla scuola media in poi questa pratica dopolavoristica diventa la regola, e ha indubbie conseguenze sul rendimento (pardon, sulla riuscita scolastica sancita dalle note). Il preadolescente passa a scuola ben oltre trenta ore alla settimana; se vuole evitare situazioni imbarazzanti dovrà fare i conti con qualche mezz’ora giornaliera di esercizi da svolgere a casa. In certi periodi dell’anno i doveri scrosciano con accanimento: è quando la scuola si prepara a valutare, con le comunicazioni (i giudizi!) o le note, e sente imperioso il bisogno di somministrare i famosi test, che danno un alone di scientificità a queste misurazioni scandite dal calendario. È solitamente prima di una vacanza che la scuola smette di insegnare e dà le note (agli allievi, beninteso!, non a se stessa), quando cioè tutti cominciano a dar segni di stanchezza – che è riconosciuta agli insegnanti ma non ai fruitori principali del loro lavoro. E, d’altronde, tout va bien, Madame la marquise: i compiti a casa mettono in pace la coscienza di docenti e genitori e – come si dice dalla notte dei tempi – chi non studia porta la brenta. Di che lamentarsi, dunque?
Eppure io continuo a credere che i compiti a domicilio – durante gli anni della scolarità obbligatoria – siano null’altro che una stupida consuetudine, che può addirittura sfociare nel folclore. Ci sarebbero senz’altro delle attività intelligenti da svolgere a casa, come leggere un bel libro; guardare un film da discutere criticamente insieme, in un secondo tempo; approfondire un tema d’attualità ragionando coi genitori e cercando le informazioni nel grande mare dei media. Viceversa i compiti a domicilio non sono quasi mai così arguti, ma hanno il pregio di tenere occupati i nostri figli, che non hanno così il tempo di farsi venire troppi grilli per la testa. Mentre il vero problema è un altro: in fondo i compiti sono solo una delle tante sfaccettature della scuola dell’obbligo, sempre in bilico tra un modello progressista, in teoria e sulla carta, e un grado spinto di conservatorismo, nella realtà quotidiana.