Quando s’avvicinava la fine dell’anno scolastico, il maestro cavava dall’armadio una scatola di cartone zeppa di poesie. Era il segnale che, entro metà giugno, sarebbe arrivato l’«esaminatore» e che noi allievi avremmo dovuto recitare una poesia a memoria davanti a lui, ai nostri compagni e ai nostri genitori. Un anno mi capitò Palazzeschi: «Clof, clop, cloch, / cloffete / cloppete / clocchette, / chchch… / È giù, / nel cortile, / la povera / fontana / malata; / che spasimo! / sentirla / tossire». Da studiare, un supplizio. Altri compagni erano stati più fortunati: «La nebbia a gl’irti colli / Piovigginando sale, / E sotto il maestrale / Urla e biancheggia il mar», oppure qualche verso del Pascoli: «Nella Torre il silenzio era già alto. / Sussurravano i pioppi del Rio Salto. / I cavalli normanni alle lor poste / frangean la biada con rumor di croste».
Era un rito durato tre anni, e non saprei nemmeno dire se questa sfilata poetica fosse appannaggio della nostra classe e del nostro anziano maestro, oppure se fosse una delle tante incallite consuetudini di quella scuola dei primi anni ’60. Quella era l’esibizione di fine anno, che ritrovava forse un senso nelle decine di poesie mandate a memoria nei mesi precedenti. Facile che il sabato ce ne dettasse una, ovviamente da saper recitare il lunedì mattina: «I cipressi che a Bólgheri alti e schietti / Van da San Guido in duplice filar, / Quasi in corsa giganti giovinetti / Mi balzarono incontro e mi guardar». Qualche volta, invece, si allontanava dai sentieri della poesia; allora si arrivava al sadismo mnemonico: «Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi…». La scuola elementare, insomma, si serviva della poesia per allenare lo studio a memoria. Qualche anno più tardi, al ginnasio, cominciammo a scomporle, le poesie, per ‘penetrarle’: così invece di mandare i versi a memoria, dovevamo restituire le interpretazioni preconfezionate. A dirla tutta, quel disfarle per coglierne il senso era francamente di una noia mortale e astrusa, che a molti ha fatto odiare Pascoli e Carducci, Foscolo e Leopardi. E, naturalmente, Dante e Manzoni.
Poi venne il ’68, che giustamente fece strage di tali pratiche, anche se in modo sbrigativo e senza guardar tanto per il sottile. Ma assieme alle pratiche si è perso per strada anche un patrimonio culturale che, sin lì, si trasmetteva di generazione in generazione. Sopravvissero per un po’ alcuni poeti più recenti: Ungaretti, Quasimodo, Saba, … Poi più nulla, o poco più. Da troppi anni la scuola dell’obbligo si è sbarazzata della poesia – naturalmente al di là delle immancabili «lodevoli eccezioni», che pure esisteranno. Le rare volte che fa capolino, la poesia è al servizio di qualche tema (l’autunno, la pace, …) ed è facile che, in seguito, gli scolari stessi siano invitati a verseggiare per conto loro, illudendoli che per scrivere anche solo una poesiola basti un po’ di creatività (eccola, la parolina magica). Anche da qui, forse, sono nati quei tantissimi «poeti» che – come ha scritto recentemente Saverio Snider – trascorrono «le loro serate […] a scrivere (andando a capo ogni tanto) pensierini ricchi di saggezza e di luoghi comuni».
Non so se, a tanti anni di distanza, sarebbe ancora possibile restituire la poesia alla scuola. Certamente, se lo si facesse, si dovrebbe inventare un nuovo approccio, partendo dalla musicalità, dalle figure retoriche, da questo stupendo gioco con le parole, le emozioni, i sentimenti. Credo che sia possibile accostarsi a «Il sabato del villaggio» senza far torto ai propri allievi o allo stesso Leopardi, lasciando invece definitivamente alle spalle il bisogno di usare quei versi come strumenti di tortura pedagogica. Anche perché le crudeltà selettive non sono state annientate con l’abbandono della poesia: hanno solo cambiato aria. Ma non si sa se qualcuno ne ha tratto un guadagno.