La scuola pubblica secondo i candidati onorevoli

La scuola è tra i temi assai frequentati dalle centinaia di candidati al Consiglio di Stato e al Gran Consiglio che cercano il loro spazio al sole, sognando una poltrona. Il malcapitato cittadino ed elettore che intende farsi un’idea dei venti che potrebbero spirare sul nostro futuro politico ha le sue belle gatte da pelare. Per riuscire a leggere tutto quel che passa il convento in queste settimane si dovrebbe come minimo prendere un congedo a tempo parziale. Tra quotidiani e settimanali, siti internet, radio e televisioni è tutto un brulicare di proclami, prese di posizione, auspici, proposte a raggio più o meno ampio. Oddio, per quel poco che sono riuscito a leggere – che è tanto in termini di tempo, ma poco rispetto all’inchiostro versato – non c’è molto che possa scatenare salti di gioia: si sa, la quantità è nemica della qualità, e anche in questo caso non si sfugge alla regola. Per lo più si rimasticano argomenti noti. Quasi nessuno afferma che «è tutto sbagliato e tutto da rifare», ma in tanti propongono le loro pozioni per migliorare una situazione che, in fondo, non è poi tanto male, soprattutto se la si paragona con altre realtà scolastiche a noi vicine: quando si dice la fortuna dell’Italia a un tiro di schioppo.
Ci sono naturalmente quelli che puntano sul potenziamento di mense e altri servizi para-scolastici, così come altri insistono sul primato della scuola pubblica, senza peraltro azzardare una spiegazione concreta al significato più alto e politicamente qualificato del concetto. Altri ancora, e sono veramente tanti, battono il chiodo sulla necessità che la scuola sia più attenta alle esigenze del mondo del lavoro. Ha scritto ad esempio il candidato della Lega Lorenzo Quadri: «La scuola non potrà esimersi da un riorientamento nell’ottica di quelle che sono le richieste del mercato del lavoro. È evidente che le professioni “d’ufficio” sono sature. Mancano risorse nell’artigianato, nell’edilizia, nel sociosanitario. Altra misura necessaria: si metta il numero chiuso alle formazioni “letterarie” ed “artistiche” prive di sbocchi professionali». Come detto, Quadri non è il solo a patrocinare un modello di scuola che si chini sui bisogni immediati del mondo del lavoro, argomento che, almeno in parte, è in buona compagnia con il para-scuola, ma senza scordare i tanti che vedrebbero di buon occhio un maggiore coinvolgimento dei genitori nelle scelte della scuola: alla faccia del buon detto dialettale secondo cui sarebbe meglio che il ciambellaio si limitasse a far bene il suo mestiere…
Va da sé che quella non è l’idea di scuola che aveva il Franscini e che il Parlamento del 1990 aveva ancorato alla Legge. Ha scritto di recente Corrado Augias (La Repubblica del 19 marzo): «Edmondo De Amicis è giustamente ricordato per aver scritto Cuore (1886). La grande intuizione [era che] che per rimediare ad un’unificazione nazionale riuscita solo in parte, bisognava puntare sulla scuola. Una classe è un microcosmo dove coesistono i tipi e le situazioni più diverse, un’inesauribile fonte narrativa. La scena in cui il preside presenta alla classe il nuovo alunno arrivato “Dalle Calabrie” è piena di un significato reale per il momento in cui venne scritta; metaforico se si pensa agli immigrati di oggi. Tra le funzioni della scuola pubblica c’è non solo la trasmissione di alcune nozioni ma la costruzione di un’identità. Non si tratta di ‘inculcare’ (com’è stato detto per malizia o per ignoranza della lingua) ma di rendere consapevoli, partecipi». Di questo grande progetto politico, purtroppo, si legge poco in questa campagna elettorale, al di là dei vaghi richiami alla difesa della scuola pubblica. La scuola, però, deve rinunciare alla gestione giustapposta e conflittuale di milioni di interessi privati per ridiventare una questione pubblica: anche perché la cultura non è una banale mercanzia (Meirieu, 1997) e gli Uomini non solo insulsi ingranaggi del mondo economico.

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