E così anche la scuola ticinese ha fatto il check up per verificare il suo stato generale di salute. C’è voluto molto impegno per costringerla a recarsi dal medico e darsi una controllatina: addirittura una mozione parlamentare. Però alla fine, un paio di anni fa, la vecchia signora s’è convinta ed è andata dal dottore. E qualche giorno fa lo staff che l’ha analizzata ha presentato anamnesi, diagnosi e prognosi. Oddio, il paziente sta benino, almeno a sentire chi l’ha visitato. Qualche acciacco qua e là, ma nulla di che allarmarsi – eppoi neanche tutti gli esami convergono. Alla sua età ci si sarebbe potuti aspettare ben altro. Insomma, la scuola sta abbastanza bene, soprattutto se si considera che non ha più vent’anni… È la para-scuola, invece, che scricchiola. In particolare, i medici hanno rilevato importanti insufficienze a livello di mensa e di doposcuola.
Certo che il quadro odierno fa un po’ sorridere: i fondatori della scuola pubblica e obbligatoria erano stati confrontati con l’impellenza di convincere le famiglie a mandare i loro pargoli a scuola – ed è da lì, perlopiù, ch’è nato l’attuale calendario scolastico, attento alle esigenze dell’alpeggio e della transumanza. Non era stato così facile persuadere i genitori dell’epoca, soprattutto quelli delle regioni più periferiche, che imparare a leggere, scrivere e far di conto poteva essere un bell’investimento per il futuro. In qualche caso, per convincerli, s’era dovuto far ricorso alle minacce e alla polizia. Oggi, invece, quelle medesime famiglie – fatte le debite proporzioni – hanno cambiato prospettiva: i figli a casa li vogliono il meno possibile. Eppure, a ben guardare, ci sono dei punti in comune tra quei tempi e l’oggi. Agli albori della scuola pubblica c’era chi strillava perché l’obbligo di frequenza avrebbe tolto braccia importanti al lavoro nei campi, nelle stalle e sugli alpi. Ma lo Stato aveva deciso, pur accettando qualche compromesso. A quasi duecento anni di distanza sono i medesimi gruppi sociali a premere affinché si moltiplichino mense e doposcuola, così che i loro rampolli non siano più d’impedimento al migliore sviluppo economico.
Addirittura, dal rapporto sulla ricerca si deduce che già oltre dieci anni fa non erano «unicamente i genitori appartenenti alla classe sociale inferiore ad auspicare l’estensione dei servizi di mensa e doposcuola, ma che tale richiesta [era] condivisa anche da famiglie di origine medio-superiore». Ci mancherebbe. Sarà anche poco politicamente e sessualmente corretto, ma non sono certamente i genitori delle classi più disagiate – che sono statisticamente tanti – a vagheggiare la doppia occupazione per realizzarsi. Invece molte coppie sono costrette a lavorare come forsennate e, di conseguenza, a trovare una sistemazione per i figli durante gli orari di lavoro, affinché qualcuno possa permettersi l’esatto contrario. Altrimenti detto: provi lei, gentile lettrice ed egregio lettore, a tirare la fine del mese con un’unica occupazione, coi salari che girano e con qualche figlio a carico.
Il bello, tuttavia, deve ancora arrivare. Non ci si scordi che l’anno scolastico dura soltanto 36 settimane e mezza (sic). Ne restano una quindicina da coprire. Per intanto ci si arrabatta tra colonie varie e parenti che, in Spagna, in Portogallo o in Croazia, possano occuparsi dei figli dei camerieri e degli aiuto-cucina durante la lunga estate ticinese. Ma prima o poi la para-scuola dovrà cominciare a preoccuparsi anche di tutte quelle settimane di inoperosità scolastica. Per intanto solo alcuni comuni sono costretti a inventarsi spazi “sociali” durante le chiusure della scuola. Ma verrà il tempo in cui anche i ceti fiscalmente più attrattivi riterranno un loro diritto la settimana sciistica o le ferie estive senza figli tra i piedi. Cosa c’entri poi la scuola con la para-scuola è ancor tutto da stabilire. Per intanto è un diversivo emergente; e mentre là fuori il mondo continua a cambiare, la scuola resta avvinghiata alle sue strutture secolari.