Neanche il tempo di archiviare le vacanze di carnevale e già le scuole saranno nuovamente chiuse per Pasqua. Beh, che c’è di strano? Da sempre Pasqua cade quaranta giorni dopo il martedì grasso. Ne consegue che tra le due chiusure vi sono sempre poco più di cinque settimane di scuola. Il fatto è che, quest’anno, a fine marzo si saranno già esaurite le quattro vacanze canoniche, tanto che il periodo che ci porterà al 20 giugno – ultimo giorno di scuola – sarà il più lungo dell’anno scolastico, seppur con un mese di maggio costellato di ponti infrasettimanali a distanza ravvicinata. E questo perché le vacanze scolastiche sono intimamente avvinghiate alle festività religiose. Se le prime due – autunnali e di Natale – sembrano coincidere con l’esigenza di creare dei regolari momenti di pausa, le prossime due dipendono invece dagli astri. Quando, come quest’anno, la domenica successiva al primo plenilunio successivo all’equinozio di primavera, che determina il giorno di Pasqua, cade troppo presto, allora avremo le vacanze di carnevale a ridosso di quelle di Natale.
Il meno che si possa dire è che un siffatto calendario scolastico è poco comprensibile e altrettanto inefficace, almeno dal punto di vista di una logica ripartizione tra i tempi del lavoro e quelli del riposo. Sarebbe quantomeno curioso sapere perché mai le vacanze scolastiche debbano dipendere dai cicli lunari e dalle orbite solari; se non fosse che, con ogni probabilità, si tratta unicamente di una scelta di comodo, per non scompaginare la tradizione. Il risultato, rispetto all’anno scolastico, è che al posto di avere cinque periodi di scuola di durata più o meno equivalente – diciamo attorno alle sette o otto settimane l’uno – quest’anno ne avremo uno cortissimo (quattro settimane da Natale a carnevale) e uno lunghissimo (quasi dodici settimane da Pasqua a fine anno: per la gioia di chi, dopo il 20 giugno, dovrà affrontare anche gli esami). Ma non terrebbe nemmeno la motivazione di un presunto rispetto nei confronti della Cristianità e dei suoi eventi religiosi. A questo proposito, anzi, la Chiesa è addirittura più duttile del nostro Dipartimento, se solo si pensa che quest’anno San Giuseppe non sarà festeggiato – come tradizione vuole – il 19 marzo, ma il sabato precedente (che non sarà tuttavia un giorno festivo). E cosa festeggeranno i ticinesi il 1° maggio? L’Ascensione al Cielo di Gesù o la più popolare festa dei Lavoratori? Probabilmente in molti non si cureranno né dell’una, né dell’altra: sarà solo il primo giorno di un lungo ponte. In buona sostanza, il terzo comandamento rischia di essere l’unico a fare il pieno di consensi e obbedienza: basta che sia festa, non importa perché.
Nel XXI secolo sarebbe forse opportuno chinarsi sui tempi della scuola, calendario scolastico compreso. Se in passato vi era un maggiore sincronismo tra mondo della scuola e mondo del lavoro, oggi non è più così. Non occorrono grandi doti divinatorie per ipotizzare che un nuovo calendario scolastico che mettesse addirittura in dubbio le date «sacre» di apertura e di chiusura – inizio settembre e metà giugno – non avrebbe la benché minima possibilità di nascere. Ma ci si potrebbe legittimamente attendere almeno una miglior ripartizione delle pause all’interno di quest’arco temporale, non fosse che per giustificare la necessità di interrompere a scadenze regolari le trentasei settimane e mezza della scuola ticinese, frutto anch’esse della consuetudine. Ciò non risponderebbe alle esigenze di un mondo del lavoro sempre più anarcoide e compulsivo, ma rappresenterebbe un segnale di coerenza verso chi intende piegare sempre più la scuola alle esigenze del marcato, dettandone i contenuti, i tempi e i compiti. Poi si potrebbe ricominciare a parlare seriamente delle finalità fondatrici della scuola, perché più il tempo scorre, più è difficile capire dove si situi il confine tra educare e istruire da una parte, e assumere sempre più compiti di baby sitting dall’altra: tra doposcuola, refezioni, colonie e nidi dell’infanzia il quadro si fa sempre più confuso.