A fine agosto il consiglio del pubblico della CORSI ha stigmatizzato un’intervista a Roger Etter mandata in onda dalla nostra TSI, ritenendo «fuori luogo, anche dal profilo etico ed educativo, la diffusione di questo servizio». A «La Regione» il rimprovero è andato di traverso, tanto che – per zampetta della sua formichina – ha paragonato il consiglio del pubblico al MinCulPop di totalitaria memoria. Scrive: «siamo ormai al giornalismo ‘pedagogico’, caldeggiato in particolare dalle dittature», mentre «il giornalismo [deve] anche e soprattutto informare». Öh, la pèpa: se «La Regione» ha ragione, devo aver perso qualche puntata.
Non ho visto l’intervista a Etter, ma sono rimasto sconcertato da quel «siamo ormai» che la formichina ha usato per enfatizzare la sua improvvisa avversione a un giornalismo, televisivo o meno, che ogni tanto dovrebbe ricordare la sua funzione di servizio pubblico o i suoi impegni etici (ovviamente al di là delle più prosaiche occorrenze di audience e/o di tiratura: francamente, un bel dilemma). Senz’altro non da oggi, si dice che una delle difficoltà della scuola a tener dietro ai suoi obiettivi risieda proprio nella «cattiva maestra televisione», come la definì Karl Popper. Perché la TV educa, che lo si voglia o no, così come educano tutti i mezzi di comunicazione di massa. E allora come si fa a paventare un rigurgito di dittatura davanti a un legittimo diritto espresso da un organo costitutivo della CORSI? Oppure si ritiene che il Consiglio del pubblico si sia improvvisamente tramutato in un’ammucchiata di bacchettoni, che tramano il colpo di stato e, all’occorrenza, potrebbero tramutare Nostra Signora di Comano in un servile portaborse del potere? La prospettiva fa almeno abbozzare un sorriso.
Non si capisce, insomma, perché mai un giornalismo ‘pedagogico’ dovrebbe finire al rogo, sbertucciato peggio della spazzatura che imperversa in ordine sparso su un po’ tutti i canali televisivi e le tante testate. Tanto più che un’azienda di servizio pubblico, come la SSR, ha «il compito di produrre e distribuire programmi radiofonici e televisivi su tutto il territorio della Confederazione» con il preciso mandato di «tutelare e promuovere i valori culturali del Paese e contribuire alla formazione dell’opinione e dello svago del pubblico». Oppure si ritiene che scopi del genere non siano (più) educativi, nell’accezione più neutra del termine?
È chiaro che, per assurdo, il problema non si porrebbe se solo ogni telespettatore fosse autonomamente in grado di farsi un’opinione critica e consapevole di ciò che gli viene propinato o di ciò che preferisce farsi rifilare. Ma sappiamo che non è così. Benché i programmi scolastici contemplino da qualche decennio anche l’educazione ai mass media, in concreto si tratta di un’istruzione che non passa, che stenta a entrare nella «cassetta degli attrezzi» che ogni cittadino dovrebbe avere a disposizione per leggere il mondo. Il guaio è che, con la crescita quantitativa dell’offerta televisiva e massmediatica in generale, sono pure prosperati gli ambiti di cui la scuola ha creduto di doversi occupare e quelli che le sono stati affibbiati: col risultato che la scuola annaspa ed è sempre più insistentemente chiamata a operare delle scelte radicali, per andare al cuore delle essenzialità e di ciò che è in grado di fare bene. Perché nella realtà dei fatti la ressa pasticciona dei programmi televisivi – che accosta sul medesimo scaffale l’informazione e il reality show, l’approfondimento giornalistico e il quiz cretino, il capolavoro cinematografico e il telefilm insulso – ha finito col favorire lo zapping e il pensiero a singhiozzo.
Nell’universale marasma, quindi, un giornalismo ‘pedagogico’ – che non è sinonimo di ‘censorio’ o ‘dispotico’ – potrebbe contribuire al vasto progetto di educazione che è proprio di ogni Paese civile. Non si vede per quale astruso motivo la scuola (pubblica) e la televisione (pubblica) dovrebbero essere tradizionalmente «l’un contro l’altra armate». Perché la libertà di stampa è un po’ come la libertà d’insegnamento: dovrebbe terminare laddove inizia la libertà dell’altro. Almeno nel settore pubblico.