Come si sa, il passato anno scolastico è stato caratterizzato da un’impennata di atti di bullismo e di violenza d’ogni genere che hanno occupato le cronache praticamente dal primo all’ultimo giorno di scuola: si è trattato, a ben vedere, del logico prolungamento di una serie che cresce a ritmo esponenziale, ciò che ha indotto un susseguirsi di prese di posizione tra le più dissimili, spesso con qualche punto in comune. Uno tra tutti: la corsa frenetica a trovare al più presto qualche rimedio. Dopo l’assurda morte di Damiano Tamagni a Locarno, il Governo ha reagito istituendo il «Gruppo Operativo Giovani-Violenza-Educazione», composto da una dozzina di persone in rappresentanza dei più disparati ambiti che hanno a che fare con l’universo giovanile. Già in giugno il gruppo aveva stilato un suo rapporto, proponendo al pubblico dibattito una trentina di misure, per lo più di tipo repressivo. Posto che occorre in ogni modo escogitare in fretta i giusti rimedi per fermare il fenomeno, stupisce l’assenza di ogni minima misura di tipo educativo, almeno sul medio termine. È chiaro che l’emergenza chiama a gran voce qualche modifica sul grado di responsabilità dei singoli, siano essi genitori, giovani più o meno maggiorenni, magistrati o poliziotti. Ma non credo che sia possibile rinunciare all’insostituibile ruolo dell’educazione e della scuola.
Nell’ultimo decennio molti istituti scolastici hanno dedicato innumerevoli progetti al problema della violenza. Ad esempio, da noi è circolata una mostra interattiva che ha avuto un grande successo: «Conflitti, litigi e altre rotture», rivolta essenzialmente a ragazze e ragazzi dagli 11 ai 16 anni, ma che ha fatto tappa anche in molte scuole elementari. Il suo ideatore, il pedagogista Daniele Novara, ha tenuto conferenze da Airolo a Pedrinate; la sua mostra è stata acquistata dal Cantone e ha fatto tappa in tantissimi istituti, ma non ha inciso sul fenomeno del bullismo, della violenza giovanile, dell’alcolismo precoce (poi ammetto che manca la controprova: magari senza queste attività saremmo alla guerra civile). Eppure il progetto era forte e aveva saputo cogliere con un certo anticipo gli estremi di un fenomeno ancora in embrione. Come mai tante energie e tanti sforzi sono serviti a così poco?
Gli è che nell’ultimo quarantennio anche le scienze dell’educazione – una nebulosa che sarà opportuno ridefinire con una certa urgenza – hanno un po’ perso la bussola. È facile imbattersi in progetti che tendono purtroppo a separare l’educazione dall’istruzione. L’educazione civica – o educazione alla cittadinanza, per usare una definizione più alla moda – non è un insegnamento che può essere trattato come una qualsiasi disciplina scolastica. Più ancora che l’italiano o la matematica (o lo studio del violino), la civile convivenza dev’essere praticata con rigore e, soprattutto, coerenza. Non ci si può limitare a raccontare e declamare tutto ciò che sembra giusto, cristianamente o laicamente: perché fin lì siamo tutti d’accordo con quasi tutti i dieci comandamenti. Però, come in tutte le umane cose, tra il dire e il fare c’è sempre di mezzo qualche intoppo. La tolleranza – per esemplificare – non la si impara «in teoria», ma la si deve vivere sulla propria pelle. E non c’è nulla di peggio che fare i giochini didattici sull’altruismo, l’integrazione e le regole della civile convivenza – ergo: parlarne e magari fare anche i test – per concludere poco e riappacificarsi ipocritamente con la propria coscienza. Meglio sarebbe se le classi costruissero queste attitudini mentre stanno imparando qualche essenzialità: come parlare, scrivere e leggere in buon italiano; come risolvere problemi; come apprezzare il bello della natura, del cosmo e dell’arte. Forse è giunto il tempo di ritrovare la grande valenza della pedagogia del rigore e della serenità, in antitesi a tutte le scorciatoie educative di questo strano tempo, che sovreccita i suoi figli sin dalla più tenera età e poi li cura col Ritanil.