E così anche quest’anno è arrivato San Silvestro, nel senso scolastico del termine. A differenza di tutti i nostri colleghi d’Oltralpe, che hanno già festeggiato il Capodanno da diverso tempo, noi ce la prendiamo comoda come sempre, un po’ perché siamo levantini, un po’ perché in estate da noi l’afa è insopportabile e un po’ perché i nostri ritmi agricoli d’inizio ’900 erano quelli che erano – e più o meno son rimasti quelli che sono, alpeggi a parte. In ogni modo da domani migliaia di bimbi, ragazzi e adolescenti sciameranno attorno a insegnanti d’ogni età, sesso ed umore, in attesa che, al più tardi entro lunedì, l’anno scolastico (ri)prenda il suo corso normale.
Per i prof cantonali sarà un Capodanno dal gusto amarognolo: nelle ultime settimane si è parlato di sciopero (dello zelo), come risposta un tantino biliosa al verdetto popolare dello scorso 16 maggio, quando la proposta governativa di aumentare di un’ora il fardello settimanale dei docenti era stata accettata, malgrado l’ampia campagna predisposta dai promotori dei referendum. Dal canto suo il Ministro del nostro «Dipartimento Mente Sana in Corpo Sano» ha dichiarato che secondo lui il 90% degli insegnanti ticinesi è assolutamente in gamba, mentre il 10% non è (più) al suo posto. Non credo che si tratti di un dato fornito dall’Ufficio Cantonale di Statistica – che ha già i suoi bei problemi con lo staff della direttrice – né del dipartimentale Ufficio Studi e Ricerche. Ma il livello del dibattito è da quelle parti: di qua i docenti che si autoproclamano impegnati e martiri, di là il mondo politico che fa i suoi distinguo un po’ infidi.
Il bello è che hanno ragione tutti – e in tal caso le percentuali possono mutare nell’uno come nell’altro campo della singolar tenzone – perché ognuno si rapporta ad obiettivi della scuola pubblica che sono soggettivi e, conseguentemente, molto personali. Se solo si arrivasse ad accordarsi sul senso da dare alle finalità della scuola, così come sono state fissate dal Parlamento quasi quindici anni fa, allora sarebbe forse possibile stabilire chi assolve il suo mandato e chi no – agendo poi con la necessaria consequenzialità. Invece no: si perseguono traguardi del tutto personali e adattati ai propri ghiribizzi, pretendendo pure di fare le statistiche. Lo stesso discorso soggiace alla definizione del profilo dell’insegnante. Più o meno ciclicamente si torna a parlare della vocazione dell’insegnante, per suggerire che chi non è unto dello spirito di Rousseau (o di Pestalozzi o della più nostrana Boschetti-Alberti, vedete un po’ voi…) non è al suo posto. Gran balla, questa della chiamata divina, che nessuno si sogna di evocare per i medici – certamente non tutti sedotti dalle sirene ippocratiche – o per gli avvocati, per non parlare dei politici. Come c’è il libero professionista ispirato dai soldi o dal potere, ci sarà pure l’insegnante ammaliato dalle vacanze o dal posto sicuro. Nell’uno come nell’altro caso, l’ispirazione primigenia non si configura, di per sé, come corpo di reato.
Ma ancora una volta, per stabilire chi è al suo posto e chi non lo è, sarebbe opportuno specificare quali sono i precisi compiti di chi in quel posto è stato messo a dimora. Durante la campagna in vista della votazione del 18 febbraio 2001 (quella sul finanziamento pubblico della scuola privata) si erano pressoché sprecate le tirate sulle finalità laiche e democratiche della scuola pubblica e obbligatoria, anche se qualche eccesso aveva portato il filosofo Franco Zambelloni a chiedersi se si votava per le mense o per la difesa di un programma repubblicano. A poco più di tre anni da quello storico voto spiace che di Scuola si parli solo per questioni tutto sommato marginali e che il dibattito tragga linfa unicamente da questioni sindacali: andiamo pure avanti così – tutti insieme irresponsabilmente – per favorire l’apertura dei nuovi Supermarket dell’Istruzione – al di là di ogni contratto collettivo di lavoro e alla faccia d’ogni parvenza di un progetto serio di Scuola per il Paese. I nuovi epigoni del liberismo a tutti i costi, intanto, gongolano.