Il filosofo Franco Zambelloni si è soffermato recentemente sulla caduta libera del «senso civico» nella nostra società («il caffè», 2.5.2010). Senza entrare nel merito delle «tante cause che hanno concorso al deterioramento del civismo, perché sono tutte note», Zambelloni osserva che il «prevalere dei diritti e la dimenticanza dei doveri ha fatto eclissare la figura del cittadino. In sua sostituzione è emersa la figura dell’utente. Non è un cambiamento da poco: per un cittadino lo Stato è fonte di diritti e doveri al contempo; per un utente, lo Stato è solo un dispensatore di servizi che ciascuno ha il diritto di pretendere». Una conclusione cinica, ma che riflette bene una realtà sconsolante. Anche nella scuola, purtroppo, si sente sempre più spesso parlare di allievi-utenti, così come con altrettanta pervicacia si sta trasformando la scuola in un grande magazzino ove, accanto ai tradizionali prodotti del settore – leggere, scrivere, far di conto… – è facile trovare nuovi gadget acchiappa-clienti: dalle refezioni ai doposcuola, oltre a una vasta gamma di prodotti adatti alle più svariate educazioni (sessuale, ecologica, alimentare, stradale, ambientale); e poi lingue di ogni origine e spendibilità, curricoli informatici, concimi per una crescita rigogliosa dell’intelligenza emotiva, e via elencando. Ha scritto Philippe Meirieu: «La scuola non è un servizio, ma un’istituzione. Cos’è un servizio? È un organismo che “rende delle prestazioni” a un insieme di persone. La Posta è un servizio, così come l’amministrazione della rete stradale. Ora, in una repubblica devono esistere almeno tre organismi che sfuggono alla logica del servizio: la giustizia, l’esercito e l’educazione. Queste sono delle istituzioni. (…) L’educazione, nel periodo della scolarità obbligatoria – vale a dire nel momento cruciale in cui lo Stato decide di scolarizzare tutti i bambini e di garantire loro un’uguale istruzione – deve obbedire a valori specifici. Essa non ha la vocazione di essere il campo chiuso della concorrenza sociale. Chiedere alla scuola di soddisfare l’ambizione individuale di ognuno, significa condannarsi alla scuola-supermercato» (L’école ou la guerre civile, 1997).
Certamente la logica della scuola-emporio è stata favorita, negli ultimi 30/40 anni, da una presuntuosa voglia di onnipotente tuttologia, che ha fatto credere a molti di essere in grado di muoversi sui fronti più disparati. Così la scuola ha sacrificato sull’altare delle discipline in apparenza meglio spendibili una gran quantità di materie “inutili”, quali la storia, le arti, la speculazione intellettuale: insegnamenti senza i quali è assai difficile costruire il senso civico. Per riprendere l’articolo di Zambelloni, «il senso civico ha una precisa radice culturale: l’appartenenza a una comunità. Solo quando si ha una chiara coscienza di appartenere ad un gruppo sociale se ne condividono le regole, le si rispetta e si vuole che siano rispettate». Ma c’è di più. Stando a numerosi studi, alcuni dei quali assai noti, sembrerebbe che anche nei campi più tradizionali – come insegnare a leggere e scrivere – la scuola odierna non sia più così in gamba. E allora, posti di fronte a necessità di educazione e apprendimento sempre più complesse e numerose, si dovrà prima o poi ripensare al ruolo e alla formazione degli insegnanti, ai quali non si può attribuire integralmente il decadimento attuale. A partire dalla seconda metà degli anni ’80 si è scelto di terziarizzare la loro formazione: non è però chiaro, parafrasando Edgar Morin, se i maestri di oggi siano “ben pieni o ben fatti”. Le nuove generazioni di insegnanti, in ogni caso, non sembrano più efficaci e professionali di quelle precedenti. Quella del docente è rimasta nei secoli una professione strutturalmente imbalsamata: lo si diventa una volta per tutte e, salvo rari colpi di fortuna, non vi sono possibilità di carriera e di differenziazione dei ruoli: un caso forse unico nel panorama delle professioni del XXI secolo.