Cosa si cela per davvero dietro tutto il gran discutere attorno alla politica delle lingue e del plurilinguismo? Il Dipartimento Federale dell’Interno ha presentato l’avamprogetto della “Legge federale sulle lingue nazionali e la comprensione tra le comunità linguistiche”; dal canto suo, il nostro Dipartimento dell’Istruzione e della Cultura ha messo in consultazione le sue proposte di modifica della politica d’insegnamento delle lingue.
Gli oggetti del contendere sembrerebbero essenzialmente due: difendere le lingue nazionali come elemento che, nelle mire di Berna, dovrebbe rafforzare la comprensione tra le diverse regioni linguistiche, e dar via libera all’inglese, che oggi sta diventando un po’ come il latino ai tempi di Carlo Codiga. Non si tratta, oggettivamente, di un soggetto semplice e, manifestamente, gli appigli per tirare l’acqua al proprio mulino non mancano, tanto da portare il Consigliere di Stato Gabriele Gendotti a rilevare che “la preoccupazione del Dipartimento non è quella di accontentare tutti, ma di permettere al maggior numero di giovani di approfittare di un insegnamento che renda meno problematico il loro primo approccio con la realtà che li accoglie una volta lasciata la scuola”. Tutto il dibattito soffre però di una tara che è fonte di qualche abbaglio.
Per prima cosa, non si può fingere che con la conoscenza, oltre all’italiano, di una seconda lingua nazionale, sia possibile essere capiti indifferentemente a Losanna o a Frauenfeld. Per regola costituzionale, in tutta la Svizzera tedesca si insegna il francese come lingua obbligatoria a partire dai 9/10 anni; specularmente, la medesima regola è osservata in Romandia. Come nei romanzi appena un po’ avvincenti, però, anche qui la trama non è così lineare. Se avete già tentato di chiacchierare in francese con un basilese normale o in tedesco con uno di Le Locle, capirete cosa intendo (e senza scordare che è nondimeno imprudente attaccar bottone in tedesco con uno di Brüttisellen, che ribatterà con un impeccabile Schwitzertütsch, la sua vera lingua madre). Questo perché romandi e svizzerotedeschi non vivono in riserve indiane da proteggere e non hanno quindi bisogno di investire più di tanto per l’apprendimento della lingua confinante – ecco perché Zurigo ha già saltato il fosso, soppiantando anche de iure il francese a favore dell’inglese.
Da noi, per forza di cose, sono obbligatorie entrambe le lingue nazionali (con buona pace del rumantsch), e con i ritocchi proposti dal DIC, entro la quarta media ogni allievo ticinese dominerà l’italiano e sarà provvisto di una bastevole capacità comunicativa per trarsi d’impaccio a Lione come a Colonia o a Birmingham – e ovviamente anche a Gurtnellen e a Chavornay.
Sarà poi vero? Già oggi il francese e il tedesco sono pezzi d’artiglieria assai precisi, puntati contro un gran numero di allievi delle medie. Molti di loro non riusciranno a conquistare i livelli che permetterebbero realmente di ampliare le proprie scelte di vita al termine della scuola media, proprio perché falcidiati da tali micidiali munizioni. Fra un anno o due, c’è da contarci!, la nuova arma lascerà sul campo di battaglia altri caduti, e il divario tra chi potrà proseguire gli studi e chi ne sarà impedito, si dilaterà oltre i livelli che già oggi sono inquietanti.
Nel contempo gli universitari ticinesi che frequenteranno gli atenei svizzerotedeschi e i giovani impiegati degli istituti bancari spediti a impratichirsi oltre Gottardo, andranno avanti imperterriti a subire lo Schwitzertütsch per poter scampare. Ma – soprattutto – tutti noi continueremo a coltivare l’incomprensione e la xenofobia latente: perché quel percorso di guerra che è oggi la scuola media persisterà senza titubanze nell’annientare i ragazzi più svantaggiati, ma non avrà insegnato la Storia neanche ai più capaci (o ai più scaltri). Forse la coesione nazionale ne uscirebbe davvero consolidata, se appena ci rendessimo conto dell’importanza di conoscere la nostra storia, le nostre culture, le nostre mentalità: che non sono, di per sé, vincenti o perdenti, neanche a quel livello economico che si nasconde surrettiziamente tra le pieghe del dibattito sulle lingue.