Ma è una scuola o un “asilo”?

Qualche anno fa il vecchio e indimenticabile Asilo ha cambiato nome, diventando Scuola dell’infanzia. In verità non era la prima volta: da Casa dei bambini era passato a Scuola materna, ma tutti noi persistiamo a chiamarlo Asilo. Se me ne occupo in questa rubrica è perché anche questa gloriosa istituzione – che dà lustro al Ticino scolastico, forte di una tradizione che affonda le sue radici lontano nel tempo – comincia a dar segni di qualche ineluttabile confusione. L’asilo, molto più che i gradi scolastici successivi, è un cocktail di educazione, insegnamento e sorveglianza. Anche se sui codici non lo si scrive mai, la scuola dell’infanzia e la scuola elementare ricoprono anche un fondamentale ruolo di custodia dei frugoletti, per far sì che i loro genitori possano occuparsi d’altro e mandare avanti la famiglia.
Si tratta di un compito assolutamente gradito, oltre che utile all’intero Paese, poiché in caso contrario molte famiglie si troverebbero in difficoltà, non potendo conciliare turni di lavoro e esigenza di accudire i pargoli. D’altra parte la stessa Legge specifica che “…la scuola dell’infanzia e la scuola elementare favoriscono il processo di socializzazione del bambino, sviluppando le sue facoltà motorie, affettive e cognitive”: scuola in tutti i sensi, quindi, anche se forse sarebbe il caso di cominciare a pensare a qualche correttivo, soprattutto dopo che il successo massiccio della votazione del 18 febbraio 2001 ha fatto prosperare le richieste sul fronte del sociale. Ad esempio: come si sa, la scuola dell’infanzia può accogliere bambini dai 3 ai 6 anni di età. È pure vero che, di regola, poco più della metà dei bambini di tre anni la frequenta: in parte per scelta delle famiglie, in parte per mancanza di spazi.
È così che già nell’aprile del 2001 la parlamentare Monica Duca Widmer aveva chiesto una modifica della Legge per sostenere l’ammissione del maggior numero possibile di bambini di tre anni, modifica che il Parlamento non ha accettato, invitando però i Comuni a darsi da fare per accogliere nei propri asili il maggior numero possibile di treenni. Al di là delle indubbie ricadute sul piano della socializzazione e delle acquisizioni – la vita di gruppo porta sempre a imparare – è comunque utile chiedersi fino a che punto questa (nuova) esigenza faccia parte dei compiti del Dipartimento dell’Educazione. Personalmente non ne sono tanto convinto, anche perché la convivenza in uno stesso gruppo di allievi di età così diverse pone da sempre irrisolti problemi. Oltre a ciò, noi sappiamo che i bimbi di tre anni iscritti all’asilo hanno una frequenza molto parziale, spesso limitata a qualche ora e a qualche mattina, e che non necessariamente usufruiscono dell’insegnamento riservato ai loro compagni più grandicelli.
Che vi sia poi una certa promiscuità nel definire ruoli di sorveglianza e ruoli educativi è dato dalla grande differenza che intercorre tra asili dotati di mensa e asili che ne sono sprovvisti. A parte le disparità salariali tra maestre che mangiano coi loro allievi e colleghe che se ne vanno a casa loro (per intenderci: chi lavora oltre un’ora in più al giorno percepisce tre e una cicca), non è chiaro il senso stesso della refezione: perché la legge afferma che “…la refezione è parte integrante dell’attività educativa e, quindi, il docente titolare ne è responsabile”. Ciò potrebbe significare che gli istituti senza refezione sono meno educativi degli altri. D’altra parte pochi anni fa anche l’asilo si è dotato del mercoledì pomeriggio di vacanza, come le altre scuole, e addirittura di programmi scolastici che stabiliscono i principi generali dell’impostazione pedagogica, i criteri organizzativi generali, le aree educative e i relativi obiettivi. Ma allora: è una Scuola o è un Asilo?
Come detto, la scelta toponomastica è stata precisa e cosciente. Ora è giunto il momento di rimettere al Dipartimento della Socialità tutto ciò che con la scuola non ha niente a che fare, erodendo però energie e soldi.

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