«I direttori di scuola del Canton Zurigo – riportava qualche giorno fa il Corriere – non dovranno più obbligatoriamente essere titolari di un diploma di insegnamento», a seguito di una modifica di legge approvata dal Gran Consiglio. «Secondo l’associazione dei docenti – aggiungeva la nota – si tratta di una decisione “dannosa” per la qualità della scuola pubblica. “È incomprensibile che una scuola sia diretta da una persona che non conosce in alcun modo il lavoro con una classe”, ha scritto l’associazione». C’è da immaginare che se il nostro parlamento dovesse mettersi in testa di istituire una norma del genere scoppierebbe un putiferio. Eppure c’è da credere che la novità nata ai bordi della Limmat non resterà senza seguaci. A ben pensarci non è l’unica contraddizione che lambisce i sistemi scolastici odierni. Vi sono infatti anche incoerenze di segno contrario, che nessuno si sogna di mettere sotto il microscopio. Prendiamo i direttori delle nostre scuole. Tra comunali e cantonali, e restando al solo settore obbligatorio, ce n’è in giro un’ottantina, ai quali si aggiungono vice-direttori e ispettori. Quasi tutti hanno un passato di insegnanti, che è di frequente l’unico requisito specifico richiesto a livello di concorsi. Di solito ci si addormenta una sera maestri o professori e ci si risveglia il giorno appresso direttori. Ora non è che il direttore sia il capo dei maestri o quello che sgrida gli studenti più riottosi. Basta dare un’occhiata anche distratta agli articoli di legge che definiscono le incombenze dei dirigenti scolastici per rendersi conto che i loro compiti sono molteplici e sconfinano in ambiti ben distanti dai loro curricoli formativi. A ciò si aggiunga, di transenna, che la formazione continua degli insegnanti è per lo più una dichiarazione d’intenti, senza che vi siano obblighi specifici, se non di natura etica: un valore, quest’ultimo, piuttosto in disuso. Così può capitare che si diventi direttore (o ispettore) con una formazione fermatasi qualche lustro prima – e senza considerare che dirigere le scuole di Lugano o di Brissago non è proprio la stessa cosa. Ciò nonostante questo non è un aspetto che scandalizza.
Il vero problema, a ben guardare, non sta tanto nel titolo che è richiesto per accedere alla funzione dirigenziale, quanto nel cercare di definire quali competenze devono essere messe in gioco per governare un istituto scolastico o per fare l’insegnante. Prendiamo un esempio. Nel gennaio del 2009 l’Ufficio delle scuole comunali del DECS aveva lanciato la consultazione sul «Profilo professionale di riferimento per i docenti delle scuole comunali», una descrizione accurata delle competenze e dei comportamenti attesi dai docenti: una sessantina di abilità suddivise in sette aree. Per intanto la complessa operazione non è ancora sfociata in un documento formale, che funga da norma di riferimento per la formazione dei docenti, per la loro valutazione e per le decisioni in materia di formazione continua. Un esercizio analogo, però, non è manco stato avviato per descrivere le caratteristiche essenziali degli insegnanti di altri ordini di scuola, dei direttori o degli ispettori. Così si continua a navigare a vista. La scuola magistrale – oggi dipartimento della SUPSI – ha le sue idee in materia, così come le hanno gli uffici dipartimentali, i sindacati, le associazioni di categoria, i politici e quelli che scrivono ai giornali: un bel guazzabuglio, che certo non concorre a circoscrivere con un minimo di precisione e di consenso chi debba fare cosa all’interno di quell’importante e invadente settore della vita di molti cittadini che si chiama Scuola. Non può dunque stupire se sempre più spesso le decisioni che contano hanno il vago profumo dell’estemporaneità, come certe recenti risoluzioni del nostro parlamento in materia di insegnamento speciale o di HarmoS: siamo ormai alla professionalità di chi non arrossisce neanche quando le spara grosse.