Mi sa tanto che la vicenda di Monte Carasso terrà banco ancora per un po’, finendo per superare in rinomanza, invero un tantino folcloristica, anche lo tsunami d’inizio anno. Certo che ci vogliono una buona dose di sfrontatezza e una furberia decisamente fuori del comune per escogitare il ticket scolastico comunale. Cinquemila franchetti da offrire a quattro famiglie disposte ad iscrivere i loro figli in una scuola diversa da quella di Monte Carasso non sono bruscolini, né per il Comune, né per la famiglia. Poi c’è di mezzo il disprezzo verso un verdetto popolare che quattro anni fa aveva fatto polpette di certe mene liberiste, di cui il Gran Consiglio s’era fatto corifeo. Certo che se tutte le famiglie si fossero presentate al cospetto del capodicastero per riscuotere il bel gruzzolo, Morisoli sarebbe stato seppellito da una sonora risata.
Nella vicenda stupisce tuttavia la reazione per lo meno un po’ fiacca del nostro Dipartimento, che da una parte declama la probabile mancanza della base legale, e dall’altra s’affretta a suggerire soluzioni alla buona con i comuni limitrofi: come se fosse normale e auspicabile che tra confinanti ci si desse una mano per tenere i contingenti delle classi di scuola elementare entro i limiti più elevati fissati dalle leggi. Insomma: sarà vero, come ho ribadito più volte, che il numero di allievi per classe non è un assioma incontrovertibile, attorno a cui ruotano il successo e l’insuccesso della scuola. Ma è altrettanto vero che il Parlamento ha fissato limiti precisi – minimo 13, massimo 25 –, e se li si vogliono confutare lo si deve fare a palazzo delle Orsoline: sennò la protesta diventa una furberia e nulla più.
Che poi – come scrivono un po’ tutti – l’idea di Morisoli fosse quella di pagare la retta ad un istituto privato ciellino, è solo un complemento di sfacciataggine e di disprezzo nei confronti di una decisione popolare, che si era soprattutto manifestata in opposizione alle scuole confessionali. Per contro, agevolare e dare l’imbeccata per trovare soluzioni intercomunali sembra un modo elegante per aggirare la legge: di fatto se risiedo a Monte Carasso e lì pago le tasse non vedo un motivo serio perché mio figlio debba frequentare la scuola elementare a Sementina, e magari costruirsi lì il suo giro di amicizie. E allora quello stesso Dipartimento, sempre così lesto a sopprimere sezioni di scuola dell’infanzia o elementare non appena vengono a mancare un paio di allievi, farebbe bene ad essere altrettanto sbrigativo con quei comuni che non vogliono aumentare le loro sezioni quando il paio d’allievi supera la fatidica soglia fissata dal Parlamento.
A meno che dietro questa svicolata non ci sia dell’altro: ad esempio un primo passo verso la liberalizzazione dell’iscrizione scolastica, in palese contrasto con quella norma di legge che impone la frequenza nel comune di residenza – e che, lo ricordo di transenna, fissa a 600 franchi l’importo da pagare quando, per oggettive ragioni, la frequenza nel comune di domicilio non è realizzabile. D’altra parte è noto che nel cassetto dei sogni del direttore del DECS ce n’è uno che auspica il riscatto da parte del Cantone delle gloriose scuole comunali, un po’ perché, secondo Gendotti, i Comuni, a parte le nomine, non hanno competenze di gran rilievo; e un altro po’ perché, sempre secondo lui, ciò permetterebbe di evitare squilibri tra istituti di categoria A (ricchi) e di categoria Z (poveri).
È subito evidente che la qualità di un istituto non la si può misurare sulla base dei fondi a disposizione – ma questo è ovviamente un altro discorso. Se però cominciano i cedimenti verso quei comuni che non intendono rispettare le leggi dello Stato, allora il futuro si farà sempre più fosco: da Monte Carasso potrebbe partire l’esempio per altri comuni e, perché no?, per singole famiglie. Ad esempio, uno potrebbe iscrivere i suoi pargoli in quell’istituto che è lì a un tiro di schioppo e dove non ci sono quasi stranieri, oppure in quell’altro dove insegna l’amica di mia moglie, che dicono ch’è così brava…