Ancora a proposito del linguaggio utilizzato per informare docenti e famiglie sugli indirizzi e gli orientamenti della scuola ticinese
Da una decina d’anni a questa parte è sbarcata anche nel Canton Ticino la Scuola delle competenze e, con essa, si è elettrizzato il pedagogichese, una lingua per descrivere la scuola, che in questo stesso sito Fabio Camponovo (Quando il pedagogichese offusca la scuola), citando Machiavelli, giudica «ripiena di clausole ample, o di parole ampullose e magnifiche».
Difficile dargli torto.
Già nel 2015 Lauro Tognola, direttore del liceo di Locarno da poco in pensione, aveva sparato a zero sul linguaggio del neonato Piano di studio. Io stesso, allora, avevo avuto occasione di annotare che Tognola spara ad alzo zero sul Piano di studio della scuola dell’obbligo, di recente pubblicazione. Lo giudica linguisticamente nauseante, pesante, ripetitivo e zeppo di ovvietà. E cita qualche passaggio un poco astruso: la rendicontazione sociale dei risultati della produttività dell’azione scolastica o la pietra angolare intorno a cui si sviluppa la proposta curricolare, tanto per dirne un paio.
Può darsi – aveva replicato il consigliere di stato Manuele Bertoli – che il linguaggio possa qua e là apparire ostico, ma il piano di studio non è un bestseller, bensì uno strumento di lavoro per i docenti. Già.
Si è chiesto il sociologo Philippe Perrenoud: Perché la scuola è “invasa dalle competenze” quasi in tutti i paesi, sviluppati e meno sviluppati? Senza dubbio perché alcune organizzazioni internazionali, a cominciare dall’OCSE, ne hanno fatto una bandiera, e perché c’è una forma di contagio. Un paese che non si preoccupasse di accentuare lo sviluppo delle competenze potrebbe sembrare fuori moda.
I nuovi programmi, ha rilevato Gianni Ghisla (Scuola: l’equivoco delle competenze), prevedevano in origine oltre 4’500 (quattromilacinquecento!) obiettivi cosiddetti di valutazione (…). Una scuola piegata alla strumentalizzazione della conoscenza, poiché competenza è sinonimo di capacità, di fruibilità e applicabilità in situazione, di spendibilità sul mercato del lavoro. E questa è l’ombra dell’efficientismo pianificato, dell’azzeramento di tutto quanto nella scuola è semplicemente culturale, affettivo, casuale, magari anche contemplativo.
Si potrebbe aggiungere che gran parte di ciò che si fa a scuola – insegnare dei linguaggi, delle conoscenze e, secondo la moda del momento, addirittura delle competenze – si svolge in realtà in un contesto artificioso com’è quello dell’aula scolastica, che rimane da decenni sempre uguale a sé stessa. Siamo lontani anni luce da una scuola dell’esperienza e di una differenziazione concreta delle diversità che ogni allievo porta con sé all’entrata nella scuola: differenze culturali e psicologiche, perché non si nasce né si cresce tutti allo stesso ritmo e nello stesso posto.
A ciò si aggiunga che nella scuola dell’infanzia e in quella elementare gli insegnanti sono per lo più generalisti, mentre, nella scuola media, vige la rigorosa separazione tra le materie. Nei primi sette anni della scuola dell’obbligo, dunque, ci sono le maestre e i maestri che, già da prima della “rivoluzione delle competenze”, affrontano progetti didattici interdisciplinari. Nella scuola media, invece, perdura la tradizione delle professoresse e dei professori che si rinchiudono nella loro materia: una scelta che, al momento dell’istituzione della Scuola media, si era uniformata al vecchio ginnasio. Così sembra contraddittorio che il medesimo governo che ripropone a oltranza la frammentazione disciplinare della sua scuola media venga oggi a proporre modelli che comportano la collaborazione tra le discipline e i loro insegnanti, non certo famosi per la capacità di lavorare in équipe.
Osserva Fabio Camponovo, nel testo già citato, che il Piano di studi della scuola dell’obbligo ticinese rimane di difficile decifrazione per qualsiasi genitore voglia capire che cosa studia, e che cosa impara, il proprio figlio a scuola. Aggiungerei che la comprensione del documento è ostica anche per i docenti.
Ciliegina sulla torta. Da qualche settimana circola un opuscolo informativo denominato Piano di studio della scuola dell’obbligo ticinese: come quell’altro, insomma. È un libretto di una sessantina di pagine, coloratissimo e arioso, scritto in buon italiano, senza funambolismi gergali. Sintetizza il Piano originale, ma non si capisce bene né a chi è destinato, né perché si sta muovendo come i bigini durante gli “espe” degli anni analogici del ginnasio d’antan: sottocoperta, nessuna conferenza stampa, neanche un approfondimento del Quotidiano della nostra RSI.
Qualche maligno mormora che sia stato concepito come testo informativo per le famiglie (mica tutte, neh?!, perché sessanta pagine sono comunque tante, e quel po’ di pedagogichese è pur rimasto). Spiega l’opuscolo, per smussare il tema delle competenze, che in pratica le conoscenze vengono impiegate in una situazione concreta, reale o realistica, utilizzando risorse individuali e considerando valori personali o condivisi.
Ma non è quel che la scuola dovrebbe fare da sempre?
Scritto per Naufraghi/e
La citazione di Philippe Perrenoud è tratta da: PERRENOUD PHILIPPE, Quand l’école prétend préparer à la vie – Développer des compétences ou enseigner d’autres savoirs?, 2011: Paris, ESF Éditeur