Con un’argomentazione un po’ ardita, Saverio Snider, sul Corriere di venerdì scorso, insinua il dubbio che l’ignoranza dilagante scaturisca dai dettami della moderna pedagogia, che si occuperebbe per lo più del “come” insegnare, facendosene un bel baffo del “cosa”. Nel suo pezzullo Snider scrive che, ai suoi tempi, aveva avuto un vecchio professore «… che faceva splendide ed avvincenti lezioni senza troppo interagire con i suoi allievi, senza far uso di proiettori e controproiettori, senza far ricorso agli artifici esplicativi dei “lucidi”»: a occhio e croce doveva essere una specie di Vittorio Gassman dell’insegnamento. Quel docente aveva la sua ricetta, che Snider sembra elevare al rango di assioma: «In primo luogo la capacità d’insegnamento non può essere data per via d’apprendimento teorico: questo ci può essere d’aiuto, ma essenzialmente la valenza del suo esercizio concreto è un dono che uno ha o non ha, dunque che non si può imparare più di quel tanto sui libri. In secondo luogo chi sa cento, se insegna bene, riesce a trasmettere ottanta o settanta; per converso, chi sa solo cinquanta, pur insegnando bene, trasmette alla fine solo trenta o venti». E conclude, tra lo sconsolato e l’ironico: «Sinceramente non mi sembra fuori posto quel suo elementare ragionamento, o almeno non ho trovato argomenti atti a contraddirlo».
Tutti, negli scaffali della nostra memoria, conserviamo un insegnante come quello, ma, nel contempo, serbiamo docenti che ci fanno ancora sghignazzare o incavolare a distanza di anni. Già in questa semplice constatazione c’è un elemento per contraddire l’assunto del vecchio professore di Snider: ogni Paese ha bisogno di un numero elevato di insegnanti e se la scuola dovesse far capo solo ai maestri formati all’Actors’ studio (o alla più nostrana Scuola Dimitri) potrebbe tranquillamente passare dalle aule agli stadi, per contenere contemporaneamente tutti gli allievi. È impensabile pretendere che nella scuola vi siano solo maestri baciati dalla vocazione, colti e motivati, così come ci sono provetti chirurghi e squartatori, avvocati di grido e azzeccagarbugli, falegnami valenti e maldestri praticoni, giornalisti che sanno scrivere e altri che cadono nelle trappole tese dalla paronomasia, proprio come i concorrenti dei quiz televisivi…
Anche tra i pedagogisti, dunque, ci sono i buoni e i cattivi, come dappertutto. Ma non sono certamente le scienze dell’educazione le uniche cause del degrado attuale, dove – come annota giustamente Snider – è purtroppo facile confondere il cardinal Borromeo con Brissago, o Petrarca con Leopardi, per finire dritti dritti a un improbabile premio Nobel a Dante. Ma la pedagogia non è solo l’arte di “insegnare a insegnare”, mentre si occupa – o dovrebbe occuparsi – anche del cosa e delle condizioni in cui. Come ci sono giornalisti rabberciati o riciclati, così ci sono pedagogisti un po’ ignoranti, che tenderanno a privilegiare l’ormai trito e ritrito “saper fare”, magari costruito sul vuoto assolutamente pneumatico, al “sapere” e basta. Affermare però che le due facce non appartengano alla stessa medaglia sembra francamente illegittimo.
Senza poi scordare qualche minuzia di una certa importanza. Jules Ferry, che è un po’ lo Stefano Franscini della Francia repubblicana, nella seconda metà dell’800 si lasciava andare a propositi un po’ sessantottini, affermando ad esempio che «… i nuovi metodi che hanno preso piede negli ultimi tempi consistono nell’evitare di somministrare regole rigide al ragazzo, ma di fargliele scoprire. Esse si propongono primariamente di eccitare e risvegliare la sua spontaneità, per vigilare e indirizzare un normale sviluppo, al posto di imprigionarlo in regole precostituite di cui non capisce nulla». Poi non sono sicuramente i pedagogisti – per natura piuttosto classicisti – ad aver esiliato le discipline umanistiche nel ghetto in cui si trovano attualmente. Il primato delle lingue straniere e delle scienze naturali ed esatte sembra piuttosto il prodotto dell’imperante neo-liberismo globalizzato e globalizzante, di cui non si può certo accusare i pedagogisti. Perché, insomma, non si può imparare a insegnare?