Verso fine aprile qualche mezzo di comunicazione ha dato notizia di una nuova consultazione promossa dal nostro dipartimento dell’educazione. Si sa che il tasso di bocciature nei primi anni del liceo è altissimo. Circa un terzo degli studenti ripete un anno, per lo più il primo; ma c’è chi di bocciature ne inanella anche un paio o tre, ciò che genera una lunga serie di dispiaceri: personali, familiari e pure statali, visto che questa tendenza ha dei costi non solo emotivi e psicologici. Che fare?, devono essersi chiesti ai piani alti del dipartimento. Semplice: basterebbe che durante i primi tre anni del percorso liceale non si possa bocciare più di una volta. «La misura» ha annotato il Corriere, «si prefigge un effetto deterrente verso quegli studenti che optano per il liceo pur non essendo pienamente convinti della loro scelta». Ma va? Credo che dietro il presunto tentennamento degli studenti si annidino ben altre cause. E, d’altra parte, fino a oggi per poter frequentare il liceo occorre ottenere la famosa media del 4.65, senza la quale le porte del paradiso restano praticamente sprangate.
Ma qualcosa non quadra, se solo si pensa che i due gradi scolastici, scuola media e liceo, appartengono al medesimo Stato e soggiacciono allo stesso Dipartimento. Ai docenti della media si chiede un bachelor come titolo di partenza, a quei del liceo un master. Poi, nel primo come nel secondo caso, ci vuole l’abilitazione all’insegnamento, conferita dal DFA della SUPSI dopo regolare percorso formativo. C’è da supporre che è negli spazi dell’ex convento locarnese che i docenti impareranno tutto sulla valutazione di allievi e studenti, affinché la nota scolastica assomigli almeno vagamente a una misurazione rigorosa. Probabilmente, però, non è così, sennò non si capirebbe come mai un giudizio favorevole al termine della scuola dell’obbligo possa trasformarsi in un pollice verso nell’immediato futuro, un giudizio quasi senza appello, se solo la proposta dipartimentale fosse accolta nei termini descritti dalle scarne informazioni sin qui fornite.
Il liceo nacque a Lugano a metà dell’800 con l’intento di plasmare una nuova classe dirigente capace, preparata e soprattutto laica. Con la nascita della scuola media il liceo aggiunse un quarto anno di studio, al posto della precedente 5ª ginnasio, e istituì nuove sedi a Locarno, Bellinzona e Mendrisio, restando però saldamente ancorato al diploma di maturità, chiave di accesso pressoché vincolante per l’accesso alle università e ai politecnici. Come avevo osservato un paio d’anni fa, negli anni il liceo «è diventato una scuola multifunzionale, un coperchio buono per tante pentole. Oggi non s’iscrivono solo i giovani che hanno in testa le sale operatorie, le aule giudiziarie, i piani alti della finanza e dell’economia, i misteri della filologia, della cosmologia o della genetica. No, il liceo serve anche per fare il maestro, tanto per dire». In tempi complicati, mutevoli e convulsi come questi, dover scegliere il proprio futuro a quindici anni diventa ben più di un salto nel vuoto. Si può star certi che la nuova misura in materia di selezione scolastica non colpirà economicamente e socialmente a casaccio. Ma c’è un’altra domanda che sorge spontanea: il progetto «La scuola che verrà» si propone pure di orientare nel miglior modo possibile le scelte di ogni ragazzo che giunge al termine della scuola obbligatoria. Perché, dunque, voler irrigidire in fretta e furia le regole del gioco?