L’educazione non è un’ammucchiata di materie scolastiche

È fuor di dubbio che la lunga campagna per il voto su «La scuola che verrà» ha soffocato un dibattito che avrebbe potuto essere sereno e politicamente appassionante. Sappiamo com’è andata a finire: non s’è cavato un ragno dal buco. Dal canto suo la scuola continuerà a esserci e, in parte, a campare sui sentieri del velleitario nuovo piano di studi progettato dal nostro Dipartimento dell’educazione, nel contesto del concordato HarmoS. Quel che è peggio è che la disputa, dopo le precipitose esequie del progetto originale del ministro Bertoli, ha finito per girare attorno al tema della selezione scolastica, seppur con dei distinguo. Il vero problema, in realtà, non è quello di stabilire se, quando e con quali mezzi far emergere le élite, gli uomini e le donne migliori che contribuiranno al progresso, al benessere e alla convivenza civile. Quella, in qualsiasi regime politico, è una necessità legittima.

Si deve però convenire che se la finalità predominante della scuola obbligatoria è quella di funzionare per eliminazioni successive degli anelli deboli della catena, allora i costi, umani ed economici, sono esagerati, soprattutto in questi tempi così utilitaristici, dove conta ciò che è monetizzabile e quotato nella borsa del successo individuale. Qual è il senso di obbligare ogni individuo a frequentare la scuola per undici anni filati, se poi gli si dice, poniamo, che la matematica non fa per lui e che le lingue foreste non le impara, perché è un pelandrone, per di più un po’ duro di comprendonio? E perché mai si continua ad affastellare l’una sull’altra una marea di discipline, senza un chiaro progetto educativo per il Paese?

Oggi viviamo polarizzazioni politiche incredibili e inspiegabili. I partiti che hanno fatto il benessere di questo Cantone partendo proprio dalla scuola, ora hanno gravi crisi di amnesia storica. L’istituzione della scuola pubblica e obbligatoria e i cambiamenti che si sono succeduti dall’800 fino agli anni della globalizzazione hanno contribuito al nostro benessere, ci hanno accompagnati attraverso due guerre mondiali, hanno agevolato la conoscenza reciproca tra regioni linguistiche e culturali diverse, ci hanno educati alla democrazia, senza cedimenti alle diverse dittature che hanno lasciato dolorose impronte in Europa. Tutto ciò è stato possibile perché la scuola dello Stato mirava a educare cittadini coscienti del ruolo di ognuno. Lo ha fatto per tanti decenni attraverso le discipline umanistiche, la matematica e le scienze naturali. I maestri facevano il maestro, non erano dei banali selezionatori, a volte un po’ maldestri. Oggi sembrerebbe che l’educazione sia diventata una specie di lusso. Proprio quando la società, sempre più variegata, è divenuta brutale verso gli adulti che lavorano, lo Stato ha deciso che l’educazione è un affare delle famiglie – anche di quelle in cui non ci si incontra e non si parla, se non per litigare: perché sopravvivere mese dopo mese non concede distrazioni, e spesso un unico salario risulta assai scarso.

Forse è il momento di chiederci cosa sta producendo questa scuola, programmata in vista del liceo, che traghetterà i migliori esemplari, scolasticamente parlando, all’università in salsa bolognese, quella del 3+2. La democrazia è una cosa seria e, come ha ricordato il presidente della repubblica italiana alla prima della Scala, la cultura e l’arte «sono un baluardo della democrazia», al di là di ogni ingegneria didattica e a favore del maggior numero possibile di futuri cittadini.

Scuola e politica all’inseguimento del futuro (prossimo)

Neanche fosse chissà quale novità, l’informatica. D’accordo, se ne parla almeno dal 1984, anno quanto mai simbolico, quando due giovanotti misero sul mercato il primo Mac, un «coso» con la mela che avrebbe cambiato il mondo. Eppure scuola e politica stanno vivendo proprio di questi tempi la loro età degli eccessi ormonali nei suoi confronti. Sembrerebbe che le scuole scollegate dal www e prive di adeguate apparecchiature di alta tecnologia siano impossibilitate a perseguire le loro alte finalità educative. L’ultimo numero di Ticino Management ha dedicato un servizio al tema, declinandolo sulla formazione degli insegnanti. Ha detto Luca Botturi, docente di Tecnologie e Media in educazione al DFA della SUPSI: «Accanto a tematiche caratterizzanti del nostro Dipartimento, quali la didattica dell’italiano, della matematica e delle lingue straniere oppure agli aspetti legati alla gestione della classe, la riflessione sul rapporto tra educazione e nuove tecnologie è una delle nuove frontiere sulle quali ci stiamo impegnando».

«Constatare che la tecnologia si è fatta spazio in ogni aspetto della nostra vita – ha scritto il filologo Lorenzo Tomasin in un bel saggio del 2017 – ha indotto molti a pensare che essa dovesse averne uno anche nella formazione delle nuove generazioni. Per lungo tempo portare i bambini a scuola significava perlopiù strapparli ai campi. Ora, a chi mai sarebbe venuto in mente di portare i bambini a scuola per mostrare loro una zappa, o per insegnare loro come funziona? Nella grande maggioranza dei casi sarebbe stato certo più sensato che far trovare loro un vocabolario, un trattato di matematica e un’insulsa poesia da imparare a memoria. Ma a lungo, forse sbagliando, abbiamo pensato che in quelle pagine stessero gli ingredienti di base della buona istruzione. E che questi fossero gli strumenti migliori per trasmetterli. Operando altrimenti, sarebbe stato assai difficile fare di un contadino qualsiasi altra cosa che un contadino; di un operaio, altro che un operaio. Se molti figli e nipoti di contadini sono diventati ingegneri, medici e architetti è proprio perché a scuola hanno trovato qualcosa di diverso da una zappa, e sia pure da una zappa tecnicamente raffinatissima».

I ragazzi della scuola dell’obbligo sono nati col mouse in mano, hanno imparato a scorrere l’indice sullo schermo del telefonino prima ancora di dire «mamma». Spesso sono vittime e imputati di cyber bullismo o di altri misfatti, ma non saranno i nostri predicozzi a convincerli che ci vuol poco a cadere nella rete e a farsi male.  Tentare di forgiare l’Homo technologicus è pericoloso (avete in mente la creatura del dr. Frankenstein?), un po’ perché si vedono già in giro fin troppi «idioti specializzati»; e un altro po’ perché ciò che oggi è il massimo dell’hi-tech domani è già antiquato, sorpassato da un altro hi-tech, che avrà anch’esso la vita effimera di una farfalla. Meglio, quindi, tornare a dedicarsi con passione all’educazione di Homo sapiens, attraverso le discipline umanistiche, la logica, la matematica e le scienze naturali, in un ambiente – la Scuola – fondata sul diritto e sul rispetto, con l’idea che, insieme, si sta imparando il difficile mestiere di donne e uomini adulti. Vendere il Paese e i suoi cittadini di domani a questa economia feroce e cinica sarebbe un crimine. Eppure è proprio quel che potrebbe capitare assai in fretta, man mano che le moderne tecnologie diverranno un fine, e non un mezzo per prefiggersi traguardi più nobili.


La citazione di Lorenzo Tomasin, parziale, è tratta da: LORENZO TOMASIN, L’impronta digitale – Cultura umanistica e tecnologia, 2017, Carocci editore, pp. 8-9

La citazione di Luca Botturi è tratta da: SUSANNA CATTANEO, «Digitalizzazione: scuola all’appello», in Ticino Management, Mensile svizzero di finanza, economia e cultura, Anno XXX, N° 10, Ottobre 2018, p. 78

La radici cristiane dei ticinesi

Circola dall’8 settembre l’iniziativa popolare denominata «Ticino laico». Si vogliono raccogliere 10 mila firme per una modifica della Costituzione cantonale, che, attualmente, all’art. 24 recita: (1) La Chiesa cattolica apostolica romana e la Chiesa evangelica riformata hanno la personalità di diritto pubblico e si organizzano liberamente. (2) La legge può conferire la personalità di diritto pubblico ad altre comunità religiose.

L’iniziativa propone quest’altra versione: (1) Lo Stato è laico e osserva la neutralità religiosa. (2) Al fine di proteggere le libertà di coscienza e di credenza, il Cantone e i Comuni non promuovono né sovvenzionano alcuna attività legata ad un culto.

C’entra qualcosa con la Scuola e l’educazione? Direi proprio di sì. Basterebbe pensare a tutta la storia dell’insegnamento della religione a scuola, di cui ho scritto più volte; qualche esempio, per limitarmi ad alcuni articoli apparsi nella mia rubrica Fuori dall’aula:

L’articolo del 2007 l’avevo concluso con un po’ di amarezza:

Si propone quindi che in tutte le scuole obbligatorie e post obbligatorie a tempo pieno sia impartito per tutti gli allievi un corso di cultura religiosa, per capire la cultura e la tradizione europea e per avvicinare i giovani alla comprensione dell’universalità del fenomeno religioso.

Non mi interessa, in questo momento, discutere se occorra insegnare la religione a scuola, né a chi, in tal caso, si debba attribuire il mandato. Dietro l’ora di religione a scuola covano altri e ben più prosaici interessi. Ma cosa c’entra questa discussione con il nulla che sta «a monte»? Se, come scrivono i parlamentari, «l’ignoranza dei sia pur minimi elementi di cultura cristiana (…) è sempre più generalizzata ed evidente», si crede davvero che sostituendo un’ora con un’altra si risistemerà l’intero sistema? Sciaguratamente c’è da supporre che dopo ’sto gran scompiglio la cultura umanistica della società ticinese sarà rimasta al palo. Con buona pace di tutti.

Ancor prima che circolassero i formulari per la raccolta delle firme, Fiorenzo Dadò, presidente del Partito Popolare Democratico, si era espresso in termini sconvolgenti, neanche stessero per arrivare i Mori guidati dal feroce Saladino:

«Se volete cancellare la nostra identità, fatelo tra le vostre mura domestiche! Non in Ticino né in Svizzera. Ci risiamo, e non poteva essere altrimenti, visto che questi tentativi di rimozione identitaria si manifestano con una certa ciclicità. Un gruppo di ticinesi, tra i quali due ex Consiglieri di Stato radical chic dalle robuste pensioni per l’occasione riemersi dalle nebbie di un passato dimenticato, ha pensato bene di lanciare un’iniziativa per proporre il divorzio dalle nostre tradizioni. Un’iniziativa che ha come preciso obiettivo quello di annullare ogni possibile collegamento con la nostra storia e le nostre – innegabili! – radici cristiane. Un pericoloso tentativo quello in atto, proprio oggi che sempre più persone – confrontate con la frenesia, la superficialità e l’egoismo di questo mondo globalizzato nel quale viviamo – si sentono vulnerabili e disorientate. C’è al contrario un gran bisogno di certezze, di saldi legami con le nostre origini e di valori comuni attorno ai quali ritrovarsi e riunirsi. Non una cancellazione di secoli di tradizioni e di libertà portate avanti e soprattutto ottenute, con sudore e sangue, da coloro che ci hanno preceduti. Né tantomeno di guerre di religione, montate ad arte, dal sapore ottocentesco. Basta con questi tentativi di boicottaggio della nostra identità in nome di un’uguaglianza dei diritti di tutte le comunità religiose. Così facendo saremmo sì tutti uguali, ma nel vagare senza meta e punti di riferimento».

Insomma, un sacco di sciocchezze, mentre le chiese sono sempre più vuote e la politica ci regala il Salmo svizzero da imparare obbligatoriamente a scuola, il corso di educazione alla cittadinanza, il divieto dei telefonini – e chissà cosa ci riserveranno i paladini di questa scuola tutta utilitarismo, profitto e selezione precoce. Però l’indifferenza, l’ignoranza e le menzogne che circondano questa iniziativa preoccupano ben più dei toni da Grande Inquisitore del presidente del PPD, un partito col referente cristiano (ahé!).

Non so voi, ma io tutto questo fervore identitario, questo amore per la nostra storia e le nostre radici cristiane, non lo vedo. Mi imbatto invece ogni giorno in atteggiamenti di intolleranza, razzismo, ignoranza, imbecillità, falsità, disprezzo, egoismo.

La magia del Natale – Vetrina di un grande magazzino sotto i portici di Locarno, mercoledì 24 ottobre 2018 (mancano 61 giorni a Natale).

Io, comunque, l’iniziativa l’ho firmata, anche perché tutti i capolavori che fanno la nostra cultura – dal canto gregoriano ad Arvo Pärt, da Giotto a Chagall, dal Brunelleschi a Botta, da Dante Alighieri a Manzoni, e via elencando – non c’entrano un fico secco con gli anatemi di qualche politico e col silenzio assordante di un partito, uno a caso…

All’indirizzo https://ticinolaico.com/ si trovano tutte le informazioni al riguardo, nonché il formulario per la raccolta delle firme, ma bisogna affrettarsi, perché il termine scade il 6 novembre.

Cambiare la scuola per davvero? Pura fantascienza

Finalmente è passato. Il referendum sulla «Scuola che verrà», intendo, quella del ministro Bertoli, una riforma nata male, poco prima della votazione del 2015 per rinnovare esecutivo e legislativo della Repubblica, e affossata a pieni voti, nell’indifferenza di gran parte della popolazione, a pochi mesi dalle politiche dell’anno prossimo. I politologi nostrani dicono che il voto del 23 settembre si ripercuoterà sulle ripartizioni del Consiglio di stato e del Gran consiglio. Sarebbe come dire che, per una volta, la scuola dell’obbligo ha avuto un’influenza palpabile su un paese normalmente sonnacchioso.

Non ho mai nascosto che la vera riforma sarebbe stata quella presentata nel 2014: quella sì, puntava a una Scuola più giusta; non ci sarebbe neanche stato il referendum, perché, è inutile girarci intorno, sarebbe stata affossata dal parlamento, con una maggioranza bulgara.

Morale della favola: la scuola non si tocca, al massimo la si ritocca, con aggiustamenti di piccolo o medio cabotaggio. A resistere, sotto sotto, sono ancora la scuola maggiore e il ginnasio, teoricamente aboliti quarant’anni fa, ma, in realtà, mimetizzati tra i livelli della scuola media, pronti a balzare sulle prede più deboli e sprovvedute. Ecco perché tanti, ma proprio tanti, vorrebbero dei livelli di selezione più efficaci e tempestivi. Ero già rimasto meravigliato quando, non tanto tempo fa, il francese era stato retrocesso in serie B: da lingua armata della scuola media a semplice comparsa, vaso di terracotta in compagnia di molti vasi di ferro. Il cambiamento era avvenuto talmente in fretta, che mi ero chiesto se non fosse stato perché, magari, tanti docenti di francese erano lì lì per andare in pensione.

Alla fine sono queste le cose che contano. Nella scuola le lobby disciplinari hanno una potenza a cui non si sfugge. Si sa, anche se nessuno lo dice, che certe scelte di politica scolastica devono fare i conti con la tradizione e con una difesa interna assai autoreferenziale. Poniamo, per fare un esempio, che un giorno lo Stato decida di diminuire le ore settimanali di italiano, per far posto alla storia dell’arte o al diritto. Va da sé: calerebbe il fabbisogno di insegnanti di italiano. Quindi? C’è qualcuno che è davvero convinto che la riforma passerebbe, al di là dell’indubbia utilità di questa scelta per l’educazione dei futuri cittadini?

Il presidente dell’UDC, che coi suoi omologhi aveva promosso il referendum, gongola. «I fautori del no alla Scuola che verrà – ha annotato – hanno sempre affermato senza equivoci, che il no non è un no alla riforma scolastica, ma un no a quella proposta». Così, ecco già all’indomani un’iniziativa parlamentare che mette lì la sua rivoluzione copernicana del sistema scolastico: sessantun punti, irrinunciabili ma negoziabili. C’è di tutto. Ma c’è, in particolare, che si vuole una scuola ben diversa da questa, il che, di per sé, non sarebbe un male. È quel che vorrebbero un po’ tutti, anche se alla rinfusa. Però tranquilli, non succederà nulla, perché i gattopardi sono sempre all’erta. Quei medesimi addetti ai lavori che, nelle scorse settimane, erano montati sul pulpito per dire che non si potevano condividere le idee così «ideologiche» del progetto di Bertoli, domani getteranno sul piatto altri cavilli. Lascia stare la mia scuola, insomma. D’accordo, siamo andati sulla Luna, forse andremo addirittura su Marte, e Trump è presidente degli Stati Uniti: cose incredibili. Ma cambiare la scuola è al di là della fantascienza.

Tra la bellezza che rimane ancora e la scuola che verrà

Mi scuso coi miei lettori più assidui. Non vorrei sbagliarmi, ma credo che sia la prima volta che infilo due articoli in due giorni.

Come sanno i ticinesi, domenica 23 settembre si è votato sul credito per la sperimentazione del progetto «La scuola che verrà». I risultati sono giunti nel primissimo pomeriggio. Il verdetto è chiaro: la richiesta di poter testare l’ampia riforma proposta da Manuele Bertoli, direttore del Dipartimento dell’Educazione, della Cultura e dello Sport, è stata bocciata dal 56.7% dei votanti, con una partecipazione del 40%.

Chi mi segue sa che ho votato a favore, anche se preferivo la prima versione del progetto, quella ancora incontaminata di quattro anni fa (versione che, lo so bene, non avrebbe neanche lontanamente convinto un’esigua minoranza del Parlamento).

Il mio sito, domenica pomeriggio, si è animato. Un inusuale numero di curiosi cercava probabilmente un mio commento, che non c’era e non ci sarà. Ero convinto che i contrari (a questa riforma, a Bertoli, ai socialisti, ai progressisti, ai pedagogisti, …) avrebbero vinto facilmente. Conservare è facile, si rischia poco e, se necessario, si trovano sempre dei colpevoli.

Domenica, invece, ho pubblicato La bellezza che rimane ancora: echi dal diario di Anne Frank, un mio personale ricordo dell’edizione di Piazzaparola del 20 settembre scorso.

In tarda mattinata Luca Del Notaro ha inviato un commento, che non ho pubblicato:

Ha ha… tutti i tuoi lettori, io compreso, si aspettavano una bella analisi del risultato della votazione sulla scuola che non verrà più… e invece…  beccatevi questa!!

Non è stato un sotterfugio, il mio, o una fuga fifona. Le proposte di Piazzaparola, così come i concerti o il teatro per le scuole, sono più vicini alla scuola dei miei sogni dei tanti efficientismi di quella che in tanti vagheggiano, una scuola che vorrebbe preparare alla vita – anche se lorsignori confondono la vita con l’economia e il mondo del lavoro. Cittadini e lavoratori non sono la stessa cosa.

Gabriel Lemmonnier (1743-1824), Une soirée chez Madame Geoffrin (1812)

Quindi non commenterò un bel niente, i commenti dell’esito referendario sono affare di politici e politologi.

Il partito liberale (che si ostina a dirsi anche radicale) ha già comunicato che la colpa della sconfitta è del ministro Bertoli: ha voluto una riforma – si pensi un po’! – ideologica. Si vede che i liberali fanno politica senza ideologia. Commento inutile per dire di chi, senz’ideologia per ammissione a mezzo stampa, continua a menarla con le pari opportunità di partenza, ma non di arrivo: scienza pura, ovvio, nessuna idea di scuola.

Però bisogna ammettere che almeno loro, i liberali, si sono fatti sentire subito, anche se poi, come ha scritto il Corriere del Ticino, «In casa PLR c’è maretta: i commissari liberali radicali in Scolastica prendono le distanze dal comunicato dell’Ufficio presidenziale dopo il no popolare alla sperimentazione». Altri, nelle medesime ore, non si sa dove fossero e a cosa pensassero.

Io continuerò a parlare di ciò in cui credo. In questo sito, tanto per dire, ci sono tantissimi articoli che parlano del progetto di riforma Scuola che verrà, di etica della scuola, di pari opportunità, di finalità della scuola dell’obbligo e di tanti argomenti analoghi, naturalmente privi di ogni parvenza ideologica.

Una scuola verrà, questo è sicuro. Magari sarà la stessa che c’era fino a venerdì scorso e ci sarà ancora domani; oppure un’altra, una tutta diversa. Il Paese, fin qua, ha scelto.

Auguri.

Il blog di Adolfo Tomasini, dove si parla di educazione e di scuola