«Tableau noir», di Yves Yersin: non solo una metafora di questi anni

La sera del 3 giugno ho potuto recuperare il documentario «Tableau noir», il bel film di Yves Yersin che era passato a Locarno nel 2013. «Tableau noir» – la lavagna – non è solo la testimonianza di una scuola soppressa perché non c’erano più allievi a sufficienza. Aveva scritto Le temps, quotidiano ginevrino, dopo la proiezione del film al festival cinematografico locarnese:

Lassù, tra le montagne del cantone di Neuchâtel, c’era una vecchia scuola, che accoglieva una classe di bambini tra i 6 e gli 11 anni. Gilbert Hirschi ci ha insegnato per 41 anni – o per tre generazioni. Poi i cambiamenti di mentalità e le forze del neo-liberismo si sono messe insieme per far chiudere la scuola e mandare il maestro in pensione anticipata. «Tableau noir» documenta la storia del suo ultimo anno di insegnamento. (Le temps del 13 agosto 2013, traduzione mia).

Il film di Yersin è anche il resoconto di quell’ultimo anno di scuola; ma è soprattutto la testimonianza commovente, non priva di una vena nostalgica – una nostalgia per nulla zuccherosa –, di come una scuola dovrebbe essere, lo è stata poco e lo è sempre meno.

La scuola intercomunale di Derrière-Pertuis, così come ce l’ha restituita il regista del bel lungometraggio Les Petites Fugues (film del 1979), è il modello esemplare di scuola in cui educazione e istruzione avanzano a braccetto: è la scuola che mi piace e di cui ho pur visto qualche esempio concreto.

Consiglio di guardarlo. La versione originale, con sottotitoli in italiano, è disponibile quiI: «Tableau noir». Non è un’operazione nostalgia, lo posso garantire. Per tante ragioni, una scuola siffatta non è il prodotto automatico di condizioni particolari. Il maestro Hirschi ha un senso etico molto solido, una congrua tensione pedagogica e ha bene in chiaro cosa significhi insegnare. Il maestro Hirschi, in altre parole, ha bene in chiaro quel è il suo ruolo istituzionale e quali sono le finalità più profonde e intense della scuola pubblica e obbligatoria.

I titoli di coda si chiudono con una scritta: Con la chiusura della scuola, «La Montagne» ha perso il suo centro di gravità, la fonte della sua solidarietà.

Poi ancora un’immagine. Sul minibus il maestro chiede all’allievo seduto dietro di lui: «Non trovi che sia molto triste?». «No», risponde tranquillamente il bambino. Il maestro abbozza un sorriso. La vita continua.

«Tableau noir» può valere più di tante chiacchiere.

Una storia squallida e assurda

Ogni tanto succedono cose del tutto enigmatiche. Il Corriere del Ticino di venerdì 29 maggio, col titolo Bambini banditi dalla festa, ha riferito di una polemica nata attorno alla cerimonia di consegna delle licenze alla scuola media di Stabio: neanche fosse la prima della Scala o l’accesso agli studi di medicina umana all’università di Zurigo.

Ricapitoliamo. Il direttore della scuola media di Stabio ha mandato ai genitori degli allievi di 4ª l’invito alla cerimonia che suggella la fine dell’obbligatorietà scolastica con il conseguimento della licenza. Pare, a leggere la cronaca, che i destinatari dell’invito abbiano letto che «Visto il numero limitato di posti a sedere, ci permettiamo di invitare le famiglie a presenziare con al massimo due rappresentanti». Non fosse sufficiente il numerus clausus, ecco un’altra raccomandazione: «Inoltre è importante evitare di portare bambini piccoli che disturbano la cerimonia che vuole essere un momento importante per gli allievi che terminano la scuola dell’obbligo. La cerimonia dura al massimo un’ora, quindi i ragazzi potranno incontrare tutti i parenti durante l’aperitivo che seguirà».

Urca!

La scuola è il luogo delle decisioni eccessive. Col ’68 furono cancellati e scherniti tutti i riti scolastici, a partire proprio dalle cerimonie di chiusura degli anni scolastici. Nel 1974, il «mio» anno, la consegna delle patenti per l’insegnamento avvenne nella buvette della scuola magistrale. Il direttore fece un discorso, poi distribuì i diplomi, in un clima da cicaleccio che voleva essere anticonformista, mentre era perfettamente uniformato ai dettami del bon ton studentesco di quegli anni.

Verso la fine degli anni ’90 assistei alla prima cerimonia di consegna dei diplomi della magistrale post-liceale, presieduta dal direttore Ivo Monighetti. Lui, in abito scuro e cravatta d’ordinanza, tenne un discorso di grande levatura. In un’aula magna zeppa di neo-maestre col vestito della festa e parenti emozionati, si recuperava la celebrazione di un rito d’altri tempi, con tanto di rosa rossa come omaggio a ogni neo-insegnante.

Credo che si tratti di una festa importante. Io stesso fui tra i primi, nelle scuole dell’obbligo, a proporre questo rito, a partire dal 1996, nella cornice della corte interna del castello visconteo di Locarno, il luogo dove la Città ospita normalmente i suoi ospiti di riguardo.

Mi sono detto che, nella veste d’uno dei genitori invitati alla cerimonia di Stabio, avrei sicuramente sollecitato tutto il parentado e la cerchia allargata degli amici a partecipare a questo momento di rito esclusivo: tanto per vedere l’effetto che avrebbe fatto. E anche per verificare cosa sarebbe successo.

Ma mi sono anche posto alcune domande, molto serie.

  • In presenza d’una coppia di gemelli, si possono portare quattro persone o solamente due? Oppure: considerando che sono autorizzate due persone per famiglia, i due gemelli potranno evidentemente invitare solo una persona: la seconda sarebbe il proprio fratello o sorella?
  • Se la madre del ragazzo è incinta, il nascituro conta come una persona? In caso contrario, chi glielo dice ai cattolici osservanti?
  • Se una famiglia è di origine straniera e in Svizzera sono presenti solamente i genitori e i figli piccolini, chi si occuperà della prole che non potrà accedere, in mancanza dei nonni che sono rimasti al paese d’origine? E se i nonni abitassero invece a un tiro di schioppo, come si deciderebbe chi partecipa e chi no? Chi resta con in mano la Pèpa tencia?
  • È stata allestita una lista di autorità che possono entrare? Se, poniamo, si presenta il Consigliere di Stato direttore del Dipartimento dell’Educazione, può entrare? In quel contesto – siamo a Stabio, non dimentichiamocelo – è più importante lui oppure, per buttar lì qualche nome di stabiesi importanti, Valon Behrami, Paolo Meneguzzi o Cadel Evans?

Mi si permettano due parole, infine, sui bambini piccoli che disturbano la cerimonia. Di recente ho seguito, al Temple de Carouge, un concerto del Choeur de chambre de l’Université de Genève. Si capisce dalla definizione e dal luogo che non si tratta di una Guggenmusik. Accanto al coro, direi proprio nell’abside, c’era una mamma con alcuni figli proprio piccoli. Hanno seguito il concerto senza disturbare. Solo verso la fine, dopo quasi un’ora, il più piccolino ha esibito una piccola frignata: forse aveva fame, chissà. Il Maestro ha sorriso alla mamma e ha indugiato prima di dare l’attacco.

È desolante che una scuola non sopporti i suoi studenti di domani, perché da piccoli potrebbero infastidire.

E fa schifo che non si permetta a un quindicenne di vivere il suo momento di gioia e di traguardo raggiunto attorniato dalle persone che gli sono più vicine: magari sarà l’unica della sua vita.

Il maestro migliore è quello che insegna

Nel dicembre scorso il Dipartimento dell’educazione aveva lanciato un ambizioso progetto per la scuola di domani. Durante la prolissa e un po’ tediosa campagna elettorale, i commenti dei candidati – spesso insindacabili sentenze – si sono mischiati a quelli di tanti addetti ai lavori, per lo più insigni professori delle scuole cantonali. L’assunto di chi è contrario, più volte reso esplicito con l’ironia, il sarcasmo o l’inopportuno sghignazzo, è quasi sempre il medesimo: siamo tutti diversi, quindi c’è chi può e chi non può. Così sarebbe ipocrita far finta che siamo tutti uguali. Chi pensa che sia possibile creare una scuola dell’obbligo equa, magari mirando alla parità dei risultati a livello elevato, vale a dire al raggiungimento del traguardo estremo a cui ognuno può spingersi, ha ricevuto gli epiteti che più vanno di moda, quali «ideologico» o, peggio, «pedagogico». Ci può anche stare che, qua e là, certe sciocchezze le dica chi fa politica. Ci siamo ormai abituati alla tuttologia impalpabile che spira ogni tanto nei parlamenti e durante le campagne elettorali. Ma sconcerta che certe asserzioni, lapidarie e irrefutabili, siano sostenute da insegnanti della scuola pubblica.

Ho sempre creduto che il compito più nobile e alto dell’insegnante sia quello di insegnare. Il bravo maestro è quello che non molla l’osso, neanche di fronte ai casi più ostinati e ribelli, e che fa tutto il possibile affinché ogni allievo giunga ad assaporare il piacere di imparare e la gioia di capire. L’insegnante capace, quello che è in chiaro sui suoi doveri etici e istituzionali, non è quello che si rivolge solo a quei tre quarti di allievi che costituiscono la media delle capacità; invece, e più correttamente, egli dà il massimo anche ai più fortunati e dotati, che imparano in fretta e con facilità, e a quegli altri che invece annaspano e hanno bisogno di aiuti supplementari per poter raggiungere gli obiettivi posti dalla scuola. Limitarsi a prendere atto che vi sono allievi in difficoltà, senza far nulla per poterli aiutare, ma sanzionando il loro insuccesso a ogni piè sospinto, è una grave inosservanza dei propri doveri professionali. Secondo questa «corrente di pensiero», inoltre, non sono da considerare solo le doti individuali, bensì anche l’impegno. Insomma: se un ragazzo già non è molto sveglio e, oltre a ciò, non investe adeguate energie nella scuola, non si vede perché la scuola dovrebbe stracciarsi le vesti. In fondo sono solo fatti suoi e della sua famiglia. Non si tratta di ipotizzare per tutti la frequenza universitaria, con inevitabile dottorato al seguito, ma il compito della scuola dell’obbligo non è di selezionare le future élite del paese, bensì di educare i cittadini di domani, prima ancora dei lavoratori.

Sarebbe come se la medicina si occupasse solo dei suoi pazienti più comodi, quelli che, sopportando qualche consiglio sensato – un po’ di moto, alimentazione equilibrata, niente vizi, un check up regolare e nessuna esagerazione – starebbero come papi. Gli altri, quelli che conducono una vita sedentaria, fumano e sbevazzano, cedono regolarmente ai peccati di gola, e magari praticano pure sport spericolati, s’accomodino pure. La medicina, lo sappiamo, ha un suo codice deontologico, che vale sia per i grandi luminari che per i paramedici. Eppure andare a scuola è obbligatorio, mentre recarsi con regolarità dal proprio medico di famiglia non lo è proprio.

Archiviate le elezioni, chissà che scuola verrà?

La lunga e un po’ noiosa campagna elettorale per il rinnovo dei poteri cantonali è finalmente passata agli archivi. Come sempre, c’è chi ha vinto, chi ha perso e chi s’accontenta e gode. Considerato che la composizione del Consiglio di Stato ricalca l’esecutivo precedente, sono personalmente contento che il socialista Bertoli abbia mantenuto il Dipartimento dell’educazione e della scuola. Sul domenicale «Il caffè» del 26 aprile gli è stato chiesto: Lei ha “preso” ancora il dipartimento Educazione e cultura, come quattro anni fa. Per quieto vivere o per convinzione? Per serietà, ha risposto. Ho cominciato un lavoro nel 2011, è bene che sia continuato per dargli più forza.

Chapeau.

Il suo progetto «La scuola che verrà» è finito nei proclami di tanti candidati. I socialisti hanno per lo più proclamato il loro sostegno, senza se e senza ma. Molti altri, di altri schieramenti politici, hanno sparato ad alzo zero. Ci sono, nella proposta, alcuni enunciati che sono andati di traverso a tanti politici e politicanti. Affermare, ad esempio, che «Un primo principio, che possiamo definire di tipo etico, è certamente il postulato dell’educabilità di ogni allievo, secondo cui chiunque, indipendentemente dalla propria origine sociale e culturale, possiede un potenziale che merita e richiede di essere sviluppato» è liquidato come palese progetto di riduzione del livello della scuola.

E pensare che tra gli oltre seicento candidati che hanno affollato le troppe liste di queste elezioni, c’è sicuramente chi è andato a scuola da qualche insegnante facilone e di manica larga, magari anche tra chi accusa «La scuola che verrà» di voler scientemente promuovere tutti senza insegnare nulla, per mandare tutti all’università.

Pestalozzi tra gli orfani di Stans (Konrad Grob, 1828-1904)

Il postulato dell’educabilità di ogni allievo non è solo una finalità nobile e alta, e non è nemmeno una sorta di slogan ipocrita e irrealizzabile. L’educabilità di ogni allievo è un traguardo che vale la pena di tenere al cuore dell’azione politica quando si costruisce e si gestisce la scuola dell’obbligo. Come ho già scritto più e più volte, le pari opportunità sono state una conquista, ma oggi non devono impedire di mirare alla parità dei risultati a livello elevato, vale a dire al raggiungimento del risultato massimo a cui ognuno può spingersi.

Per edificare una scuola che sia al servizio del Paese, prima che dell’economia e dei bisogni immediati (neanche sempre così eccelsi), è necessario chinarsi con passione e originalità sul senso di un’Istituzione così importante, affinché l’educazione di cittadini capaci di vivere in un mondo sempre più complesso e di partecipare alla realizzazione dell’intelligenza e della democrazia non debba necessariamente adeguarsi agli stretti abiti di un’organizzazione scolastica di stampo ottocentesco.

Spiace, rattrista e fa rabbia che vi siano anche dei professori che scrivono ’ste cretinate. Dall’alto della loro cattedra scrivono ai giornali e spiegano come va il mondo – meglio, come funziona la scuola secondo loro: sono spesso i medesimi che, nonostante tutte le infingardaggini, vorrebbero classi più piccole, maggiore riconoscimento sociale e, perché no?, qualche franco in più in busta-paga a fine mese.

In tempi recenti la pedagogia ha generato qualche insulto, come pedagogista, con o senza punto esclamativo, o pedagogismo. Colpa certamente anche di qualche mio collega «scienziato dell’educazione», che magari non ha mai messo piede in un’aula scolastica e fors’anche conosce solo i bambini e i ragazzi dei libri. Ma non è così che funziona, non è sufficiente sapere le cose per essere un insegnante efficace, entusiasta e appassionante, uno di quelli che fan camminare i loro allievi a un metro da terra all’uscita dalle loro lezioni. Purtroppo nella nostra repubblica uno può diventare uno specialista dell’insegnamento per il solo fatto di ottenere un posto di insegnante. Poi, da lì in poi, si può assurgere anche al ruolo di direttore o di ispettore, o addirittura di funzionario del dipartimento. È un po’ come se uno diventasse primario d’ospedale perché è già stato in cura da un medico o perché, una sera, ha dato un’aspirina alla moglie e gli è andata bene. A volte funziona. Più spesso è un disastro.

Assaporare la soddisfazione di un allievo che ha finalmente incontrato il piacere di imparare o la gioia di capire è tutt’altra cosa. La storia della pedagogia e delle idee pedagogiche, almeno da Rousseau e Pestalozzi in qua – una storia che ha ancor oggi molto da raccontare e da insegnare –, non può essere ridotta a un selfie.

La scuola che verrà tra idioti specializzati e cittadini educati

A poche settimane dal lancio del progetto dipartimentale «La scuola che verrà», che mira a un riesame di tutta la scuola obbligatoria, con l’intento di migliorarla e cambiarla, ecco una nuova proposta, non certo estemporanea, pubblicata su «Il Caffè» dell’8 marzo da Renato Martinoni, professore ordinario di letteratura italiana nell’università di San Gallo. «I programmi scolastici sono troppo carichi», ha scritto; ciò nondimeno «c’è una materia che manca troppo spesso e che andrebbe introdotta con più forza nelle scuole: l’economia».

È difficile non essere d’accordo, tanto che, al di là di alcune sottigliezze, si sono già espressi favorevolmente alcuni autorevoli economisti, come pure l’attuale ministro dell’educazione. L’economia, come nuova disciplina scolastica, farebbe parte delle materie fondate sul sapere, come la biologia, la fisica e la chimica, la matematica, la letteratura, la storia e la geografia, l’informatica, la lingua materna e le lingue seconde. Analogamente, accanto all’economia, si potrebbe sollecitare l’insegnamento della psicologia e della psicanalisi, della sociologia, delle scienze politiche, del diritto, dell’architettura e dell’urbanistica, tutte discipline altrettanto importanti. La scuola, però, ha le sue definizioni. Ecco allora, per sovrapprezzo, una serie di «educazioni», che solo in apparenza sembrano più sfumate: educazione musicale, fisica, artistica, civica, sessuale, interculturale, religiosa, stradale, morale; eppoi l’educazione ai mass-media, alla salute, allo sviluppo sostenibile, al non sessismo e via elencando. A questo punto dovrebbe essere chiaro che tra il dire e il fare c’è di mezzo ben più del mare. Perché poi, dietro ogni denominazione, ci sono dei contenuti da scegliere. Aggiungerei che, in linea generale, la scuola pubblica e obbligatoria, che non è un semplice corso specifico per imparare l’origami o realizzare un bonsai, vuole educare cittadini consapevoli. È evidente che tra insegnare e educare c’è una differenza abissale, che obbliga a scelte precise, di contenuti, di metodi e di ambiente pedagogico.

Così, tra le tante proposte e i tanti proclami che si sentono in giro, prediligo quello della filosofa e docente Lina Bertola, che dalle colonne della «Regione» ha gridato il suo «Il re è nudo», proprio come il bimbetto della favola di Andersen: «Il senso e il valore della scuola non si misurano sulla quantità di saperi utili e immediatamente spendibili che è in grado di offrire. Perché la scuola è un’altra cosa, è un’esperienza di senso. Rispetto alla simultaneità e ubiquità di un sapere/informazione immediatamente spendibile, fuori dal tempo, l’esperienza della conoscenza, a scuola, è stare nel tempo: stare nel tempo dell’ignoranza che ti apre alle domande, nel tempo della bellezza che nutre il contatto con sé stessi, nell’incontro con la conoscenza e il tempo dell’inutilità, di ciò che è bello e buono e vero, e trattiene in sé il suo senso». Sono almeno cinquant’anni che non ci chiniamo più sul senso fondatore della nostra scuola dell’obbligo, sulla sua ragion d’essere. Ora è tempo. Alle questioni economiche penseremo poi. Perché l’educazione non può fare a meno della conoscenza, ma di idioti specializzati ce n’è già in giro a sufficienza. Per difendere e consolidare la democrazia serve l’educazione, non un ammasso di nozioni, magari messe lì alla rinfusa, a seconda dei bisogni fugaci del momento.

[Qui il testo dell’articolo di Lina Bertola: Il senso della scuola, La Regione Ticino del 26 marzo 2015].

Dai margini dell’aula: esperienza, pensiero critico e qualche nota fuori dal coro