Un cappotto rivoltato può sembrare nuovo

Poverina. Sono ormai cinquant’anni che la scuola, in particolare quella dell’obbligo, ha perso la calma e la serenità necessarie per poter svolgere bene il proprio lavoro. A dirla tutta, non si riesce neanche più a trovare un po’ di consenso sulla definizione dei suoi compiti e del suo ruolo. È sconsolante seguire l’andamento delle cose e leggere le soluzioni, quasi sempre facilone più che facili. S’era cominciato con alcune battaglie sacrosante per le pari opportunità e in favore di un’equità capace di non curarsi dei divari di ceto e di censo. Abbiamo avuto la scuola media, che però, proprio a quei livelli, non ha mai ingranato. C’era anche un’altra parola chiave, mezzo secolo fa: partecipazione. Oggi partecipano tutti, tutti fan parte dell’orchestra, ma non si accordano, e la cacofonia cresce. Frattanto, a partire dagli anni ’80, il mondo ha cominciato a cambiare a ritmi esagerati. Forse se ne rende conto solo chi è già un po’ in là con gli anni. Ecco qualche parola chiave, tanto per capirci: informatica, www, globalizzazione dei mercati, caduta del muro di Berlino, euro e unione europea. Basta?

La scuola, fin qui, ha risposto aggiustando e rabberciando qua e là. Si dice spesso che è un cantiere perennemente aperto. A me sembra invece uno studio di progettazione, con dentro decine e decine di architetti appartenenti alle più disparate e contraddittorie correnti di pensiero. Che non riescono mai a mettersi d’accordo, ma si concedono l’un l’altro, a turno, qualche cortesia: un pizzico di socialità, una manciata di informatica, un po’ di lingue. L’importante è che la sostanza non cambi. Per giunta, dalle nostre parti incombono le elezioni del governo e del parlamento: una quarantina di candidati al consiglio di stato e oltre seicento al gran consiglio, con galoppini al seguito, che parlano di finanza, economia, lavoro, territorio, socialità, sicurezza.

E anche di scuola. In questi giorni se ne leggono d’ogni forma e colore. Tutti proclamano e propongono, come se bastasse ficcare una materia nei programmi e nella griglia settimanale per risolvere un problema. Naturalmente non è così. La scuola non funziona come i cani di Pavlov. Si continua a ripetere che la benemerita istituzione deve stare al passo con l’evoluzione del mondo, ma se c’è un’istituzione immobile e immutata questa è proprio la scuola, che continua a girare come due secoli fa, manco che nulla, attorno a lei, fosse cambiato.

Facciamo ancora capo a una struttura che ha saputo dare alla società risposte convincenti e vantaggiose per un paio di secoli, dall’alfabetizzazione alla modernità. Ma quella è una società che non esiste più. La politica, i sindacati e le tante lobby, interne ed esterne, continuano a proporre e concretizzare riforme che non mutano la sostanza, mentre somigliano tanto al cappotto rivoltato d’altri tempi. Non è con le pezze e i rattoppi che si possono affrontare le sfide educative proposte da un mondo che non è più quello che diede i natali a questa struttura scolastica. Dunque: o saremo in grado di cambiare la scuola per davvero, a partire dalla sua stessa organizzazione – il calendario, gli orari, l’indissolubile triangolo «un maestro, un’aula, un gruppo di allievi», i programmi e le frammentazioni disciplinari, con la valutazione che è il vero deus ex machina di tutto il sistema – oppure ci penserà qualcun altro: facendosene un baffo della democrazia e dei cittadini consapevoli. Sempre che l’insano processo non sia già iniziato.

Un matrimonio diverso e in apparenza un po’ strambo

Copertina flyer italmatica_Pagina_1L’esogamia, in etnologia, è la regola, adottata da tanti popoli dell’antichità, che prescriveva il matrimonio tra persone di altre tribù. La biologia invece, che definisce l’esogamia come un metodo riproduttivo attraverso l’incrocio di individui poco affini, dà implicitamente la spiegazione scientifica alla scelta di “quei” popoli che, per primi e in maniera molto assennata, avevano capito che l’arricchimento del patrimonio genetico era fondamentale per il miglioramento della specie Homo sapiens. Ho conosciuto la prorompente forza dell’esogamia leggendo Edgar Morin, in particolare il suo Le paradigme perdu: la nature humaine del 1973, e seguendo all’università le lezioni su questo tema di quel grande maestro che è stato per me Walo Hutmacher.

Non è il caso che mi metta a declamare più o meno a memoria le mie (presunte) conoscenze sul tema e le loro ricadute in termini di educazione. Basti dire che, secondo il filosofo e sociologo francese, senza l’esogamia Homo sapiens non sarebbe diventato l’animale così evoluto che conosciamo, una bestiola capace di sragionare, ma proprio per questo pure ingegnoso nel fare nascere ordine dal caos: determinando la sua stessa evoluzione.

La questione m’è venuta in mente pensando al titolo del convegno organizzato nel giugno prossimo dal Dipartimento Formazione e Apprendimento della SUPSI. Silvia Sbaragli, PhD in Mathematics Education, e Simone Fornara, dottore di ricerca in linguistica italiana, ideatori del convegno e, soprattutto, iniziatori di questa bella storia d’amore tra due individui appartenenti a tribù diverse, han voluto chiamare il convegno «Questo matrimonio s’ha da fare», con sottotitolo didascalico e chiarificatore: «Italiano e matematica nella scuola del terzo millennio».

Insomma, non hanno resistito alla voglia di ribellarsi all’esortazione del bravo, che aveva intimato al pavido e accomodante Don Abbondio: questo matrimonio non s’ha da fare, né domani, né mai. Sappiamo com’è andata a finire la storia di quel matrimonio.

Resta che, come hanno scritto Silvia Sbaragli e Simone Fornara nella presentazione dell’evento, il convegno che propongono va decisamente contro i luoghi comuni, quei luoghi comuni che oppongono pressoché da sempre l’italiano e la matematica, falsamente definite disciplina pressappochista e “creativa” la prima, scientifica e “pignola” la seconda. Per poi accorgersi, soprattutto fuori dalla scuola, che entrambe sono discipline umaniste, che han solo da guadagnare da un matrimonio come questo. Si noti, d’altra parte, che la matematica, sostantivo femminile, è disciplina che, nel pensare popolare, s’addice soprattutto agli uomini, mentre l’italiano, sostantivo maschile, può andar bene anche per cervelli di donna. Ditelo a Margherita Hack o a qualche sua collega di ieri e di oggi.

Insomma: tante fantasie da parte di uno che alla matematica ha sempre dato del Lei senza capirla molto, per segnalare il convegno italmatico del 25 giugno e per raccomandare a ognuno di prendervi parte. Perché la scuola, soprattutto quella dell’obbligo, ha un gran bisogno di arricchire il proprio patrimonio genetico.

Il solito uso ambiguo della cultura e della conoscenza

Mi scrive spesso un amico dall’Italia per commentare i miei articoli, in cui trova, certo con troppa indulgenza, «osservazioni piene di ragionevolezza». A proposito dei recenti scritti sull’educazione alla cittadinanza ha osservato: «Come si può pensare di trasferire su pagine “scolastiche” l’educazione alla cittadinanza? Immagino ragazzi impegnati a compilare schede e a rispondere alle assurde domande di qualche questionario. Qui in Italia con i grandi temi finisce sempre così: penso all’educazione ambientale diventata pretesto per far leggere brani antologici di un grande Rigoni Stern “amputati” di parti ritenute sconvenienti (mi ero occupato una decina d’anni fa dello scempio antologico del nostro scrittore), ma penso anche con te che le “posizioni in bianco e nero” siano deleterie e finiscano per ignorare che educare alla cittadinanza vuol dire semplicemente educare…»

Non solo in Italia, caro amico.

Credo che si tratti di un vezzo piuttosto diffuso e, tutto sommato, significativamente caratteristico della scuola, che quando non può dàr le note si sente nuda come una ranocchia. Non sapevo delle mutilazioni commesse dalla scuola ai danni di Rigoni Stern. Ma ho dimestichezza con le tante carognate che la scuola ha comminato a tanti geni che hanno avuto la malasorte di finire dentro i programmi scolastici: da poeti a romanzieri a drammaturghi, da matematici a fisici, da musicisti a pittori e scultori, da storici a geologi, è tutto un fiorire di brutalità. La scuola sacrifica pressoché da sempre la conoscenza e la cultura sull’altare della valutazione – cioè, per chiarezza, sull’altare dell’inveterata volontà di assegnare delle note a tutti i costi.

Non c’è insegnamento degno di importanza se la scuola non può mettere in atto una valutazione, espressa in termini di nota scolastica: ciò che significa dentro o fuori, adeguato o inadeguato, va’ avanti o resta lì. Poi, va’ a capire perché, le statistiche ci dicono, ormai da decenni, che si finisce più facilmente dentro o fuori se si appartiene a certi ceti piuttosto che ad altri.

Rigoni Stern è stato immolato per poter fingere, a scuola, di «fare» educazione ambientale. Gli è andata bene. C’è chi è stato oltraggiato per «fare» italiano o matematica: basti pensare a quanti odiano e hanno odiato Dante e Manzoni, Leopardi e Ungaretti, Euclide e Pitagora: mentre sarebbe ben più facile e gratificante farli amare.

Suvvia, mi dicono spesso, lo sanno anche i paracarri che la scuola senza note non funziona. C’hanno provato in tanti, nel passato, ma hanno sempre fallito. Eppure tutti imparano a padroneggiare bene delle competenze, per nulla semplici, come camminare o parlare, senza che i loro insegnanti, di solito una mamma e/o un papà, debbano far capo alla tradizionale paccottiglia scolastica (compiti a casa, lezioni ex cathedra, test, note, comunicazioni ai genitori, libretti scolastici e certificati finali). Per dirla con altre parole: la scuola dell’obbligo potrebbe funzionare molto meglio di quel che accade oggi se solo educare e insegnare diventassero per davvero le travi portanti della quotidianità di ogni aula. Ma, disgraziatamente, non è così.

Mi viene in mente Philippe Perrenoud, quando abbozza un paragone tra la scuola e il sistema sanitario: «Nessun bambino sfugge all’azione pedagogica della scuola, alla quale è affidato da 25 a 35 ore alla settimana per almeno una decina di anni. Se la medicina preventiva potesse prendere a carico le persone in maniera così autoritaria e continuata, non le si perdonerebbe neanche una malattia!». (PHILIPPE PERRENOUD, La pédagogie à l’école des différences, 1995, Paris: ESF éditeur).

Ogni tanto faccio un sogno. Vedo le vie e le piazze d’Europa, da Palermo a Reykjavík e da Lisbona a Vienna, che si riempiono di maestre e maestri di scuola elementare e, addirittura, professoresse e professori della scuola media. Sono raggianti, allegri e risoluti. Espongono degli striscioni, con slogan solo apparentemente fantasiosi: Aiutiamoli a fare da soli. Oppure: È difficile far bere un cavallo che non ha sete: noi sappiamo come fare. E ancora: I bambini non sono più sciocchi degli adulti, hanno solo meno esperienza. E tanti altri, bellissimi e profondi. Ce ne sono addirittura alcuni di stampo politico: Per la selezione c’è tempo dopo: non siamo i vostri servi. Milioni di insegnanti, che probabilmente hanno creato la loro primavera grazie al web, per giungere alla conclusione, dopo qualche secolo, che sì, il re è nudo e che loro non ci stanno più! Nel sogno ci sono, ai lati delle piazze e delle strade, migliaia e migliaia di mamme e di papà, nonne e nonni, zie e zii e amici. Sono felici, perché credono che la sommossa degli insegnanti lascerà il segno. Sarà rivoluzionaria sul serio. È la primavera della scuola.

È quasi sempre un sogno elettrizzante. Però capita che mi svegli tutto sudato e angosciato. Perché qualcuno s’è messo a sparare sui manifestanti e su chi li applaude. C’è sempre qualche cretino che dà ordini del genere, anche se, di solito, non è neanche necessario arrivare a questi punti.

Una chiacchierata radiofonica

Martedì 10 febbraio ’15 ho preso parte a «Diritti e rovesci», il nuovo programma della Rete 1 della nostra radio in diretta da lunedì a venerdì, dalle nove alle dieci. Come recita la descrizione ufficiale, «Diritti e Rovesci vuole provare a “rovesciare” la tendenza comune, permettendo ai chiari e agli oscuri di definirsi (dapprima) e poi dialogare, per vedere dall’altra parte tracce di possibili contaminazioni interessanti. Insomma due ospiti, due opinioni da difendere e forse anche un accordo finale!».

Non è certo un programma di approfondimento. Credo tuttavia che non sia sano coltivare troppa puzza sotto il naso: dialogare con chi sosteneva la tesi a rovescio rispetto alla mia è stato divertente, e non credo inutile.

Si può ascoltare l’intera trasmissione – con la conversazione, le schede, i brani musicali – nel sito del programma: Educazione genitoriale rigida o educazione dolce (durata 50 minuti).

Vivere la cittadinanza, un requisito per poterla imparare

Brutta bestia, l’educazione alla cittadinanza. Più che la matematica e le tante discipline scolastiche, essa esige condizioni di apprendimento che travalicano le quattro mura dell’aula. Per dire che non è sufficiente mandare a memoria le definizioni dei tre poteri dello Stato per esser diventato un cittadino consapevole, uno che contribuisce concretamente alla vita, possibilmente serena e pacifica, del Paese. Il cittadino consapevole lo si riconosce quando compila la dichiarazione delle imposte, quando legge o non legge i quotidiani, e quali legge e cosa legge; lo si capisce quando espone le sue idee sui tanti blog e social network, magari mettendoci la firma; lo si valuta per come rispetta o disprezza le istituzioni.

Se n’è accorta la Francia, all’indomani dei tragici avvenimenti d’inizio gennaio. La République è sicuramente il paese europeo che investe di più in materia di educazione civica. Come ha sottolineato Le Monde, «è il solo paese in cui i corsi di educazione civica figurano nella griglia oraria, dalla scuola elementare al liceo, ed è l’unico ad avere un modello pedagogico tanto completo da unire lezioni, partecipazione degli allievi alla vita del loro istituto e progetti educativi sulla cittadinanza. I programmi spaziano dalle istituzioni della Repubblica e dei suoi valori alle regole della civile convivenza, passando attraverso l’educazione allo sviluppo sostenibile, ai mass media, alla salute, e via di seguito». Questo, almeno, in teoria e sulla carta, come spesso accade. Eppure il primo ministro Manuel Valls ha sentito il dovere di affermare che «la cittadinanza – non parliamo di integrazione, dimentichiamo le parole che non significano nulla – ha bisogno di essere rifatta, rinforzata, legittimata». E, riferendosi alle banlieue, ha aggiunto che in Francia esiste «un’apartheid territoriale, sociale, etnica».

Ma che significa? Cosa c’entra l’apartheid con la scuola e l’educazione alla cittadinanza? Non servono chissà quali sforzi di immaginazione per figurarsi una scuola dell’obbligo di un sobborgo parigino nel quale nessuno è intervenuto per evitare forme estreme di ghettizzazione economica e socioculturale. È anche in quelle scuole che lo Stato repubblicano si gioca la credibilità. Quale educazione civica potrà mai svilupparsi in un quartiere popolare, se la sede scolastica accoglie per lo più ragazzi e adolescenti il cui futuro è bollato dall’emarginazione sin dalla culla? Dove sono l’uguaglianza, la solidarietà e la fratellanza, i grandi valori repubblicani che dovrebbero sostenere il progetto di educazione alla cittadinanza? Per imparare a conoscere i valori della società è necessario crescere in quella società e incontrare giorno dopo giorno i propri concittadini, in un contesto sociale e scolastico immune da ogni forma di segregazione. Anche nel nostro piccolo cantone ci sono istituti scolastici in cui l’esperienza civica quotidiana si fa vieppiù difficile. Certo, la Svizzera e il Ticino non sono la Francia. Ma le vie dell’esclusione e dell’emarginazione sono subdole e solo apparentemente enigmatiche. Forse è giunto il momento, soprattutto a livello di scuola media, di ripensare seriamente almeno due principi costitutivi: quello della massima mescolanza socioculturale e quello delle dimensioni. Perché, guarda te il caso!, più le scuole sono affollate, più la scala sociale s’abbassa. Quando oltre un terzo degli allievi è in difficoltà scolastica e sociale, educare, e non solo alla cittadinanza, diventa un problema.

Dai margini dell’aula: esperienza, pensiero critico e qualche nota fuori dal coro