Una bella storia di settant’anni fa

Mi piace proporre un articolo apparso su La Regione Ticino di oggi, lunedì 15 settembre 2014. L’intervista di Eminio Ferrari racconta la storia di Enrico Loewenthal, un ragazzo ebreo di famiglia benestante nell’Italia fascista, andato a resistere nel 1943 tra i partigiani in Valle d’Aosta. Come Primo Levi.


Enrico Loewenthal non parlava più tedesco da quando dovette lasciare la scuola in quanto ebreo, ma fu in quella lingua che intimò il ‘mani in alto’ a due soldati della Wehrmacht: ‘Hände hoch, bitte’. La sua militanza nella Resistenza italiana sfata l’immagine della vittima designata e riscrive un capitolo della storia tragica del secolo scorso. A colloquio con il partigiano Ico.

Rivoli – «Hände hoch, bitte». D’improvviso, inaspettatamente, il tedesco riaffiorò alle labbra di Ico. Con il mitra spianato ordinò a due stupefatti soldati della Wehrmacht di alzare le mani. «Per favore». In casa sua quella lingua era vietata da quando, ragazzino, era stato allontanato dalla scuola tedesca che frequentava a Torino. Da quando, cioè, aveva appreso che cosa comportasse essere ebreo negli anni Trenta del secolo scorso. «Ero ancora alle Elementari e dopo la convocazione del preside per comunicarci che non ero più ammesso alla sua scuola mio padre mi aveva proibito di parlare ancora la lingua di chi ci considerava una peste della Storia. Il mio tedesco era rimasto quello di un bambino». Ma quando, un freddo giorno del 1944, fermò i due militari tedeschi nel corso di un’operazione di guerriglia in Valle d’Aosta, a Enrico Loewenthal, divenuto ormai il partigiano Ico, venne spontaneo apostrofarli nella loro stessa lingua. Il che li stupì non poco, ma non quanto quel “Bitte”, che mai si sarebbero immaginati di sentirsi indirizzare da un “bandito”. Loro che, come disse poi uno dei due a Ico, erano stati istruiti ad ammazzare prima di intimare mani in alto. Né avrebbero immaginato che quel ragazzo non solo fosse in grado di usare una tale forma di cortesia col dito sul grilletto, ma che li avrebbe poi fatti accompagnare al confine svizzero, risparmiando loro la vita. È una storia del Novecento quella che Enrico Loewenthal, classe 1926, racconta ancora oggi nella sua casa di Rivoli, esemplare nelle sue illuminazioni così come nelle sue contraddizioni. Nelle sue tragedie e nell’ironia che affiora nel ricordo di uno dei non molti partigiani ebrei della Resistenza italiana. E senza retorica: «Guardi, io sono soltanto un ebreo frusto come tutti gli altri, che a un certo punto si è opposto a una persecuzione. Lo devo a mio padre soprattutto». Guarda il caso: Enrico Loewenthal era concittadino di Primo Levi, anche lui torinese, anche lui partigiano in Valle d’Aosta, ma poi arrestato e condotto ad Auschwitz. Una scelta non del tutto isolata, dunque, ma di quelle che la più consolidata narrazione della Resistenza ha molto spesso ignorato o marginalizzato. Associata alla storia del secondo conflitto mondiale, la figura dell’ebreo – quantomeno in Italia – è quella della vittima piuttosto che del combattente. «In effetti – conviene Enrico Loewenthal – di ebrei che abbiano fatto la Resistenza ce ne furono pochi. Quanto a me, devo dire che la mia lotta è cominciata ben prima del 1943. Ho vissuto la vita del ragazzo ebreo di famiglia benestante nell’Italia fascista: dapprima sono stato cacciato dalla scuola tedesca, e dopo il varo delle leggi razziali anche dalla scuola pubblica italiana. Covavo una rabbia che cresceva con l’età, e quando, quindicenne, sono andato a far pratica in una piccola officina di un armaiuolo ho cominciato ad acquistare alcune vecchie armi lasciatevi dagli ufficiali italiani che volevano spuntare qualche soldo. Devo pur dire di essere stato uno stupido a non prenderle con me quando, dopo l’8 settembre, sono fuggito da Torino con la mia famiglia».

Diciassette anni, partigiano

Una fuga, come racconta nel suo “Mani in alto, bitte” (recentemente tradotto in tedesco), che durò poco. Non perché Enrico venne preso, ma perché ben presto, diciassettenne, si arruolò nelle formazioni garibaldine che si erano già costituite nelle valli del Torinese. La rigidità ideologica e le pretese egemoniche dei “comunisti”, come li chiama lui («è da allora che non li sopporto»), gli fecero poi preferire le formazioni di Giustizia e Libertà di Ferruccio Parri e infine, sino alla Liberazione, aderì a quelle autonome in Valle d’Aosta. Non senza aver conosciuto prima i pericoli e l’ebbrezza di lunghe traversate delle Alpi per procurarsi armi e materiale americano in Francia. «Avevo convinto il mio comandante a lasciarmi partire con due guide. Gli dissi che avrei camminato finché avrei trovato gli americani. E ce la feci. Così tornammo carichi di armi e con indosso divise americane. Può immaginare i sospetti e l’invidia delle altre formazioni». E possiamo oggi immaginare quanto poco sospetti e invidia potessero fiaccare il coraggio di quel ragazzo che nel dopoguerra sarebbe diventato uno stretto collaboratore di Simon Wiesenthal nella caccia ai criminali nazisti fuggiti dall’Europa. Perché, vi ritorniamo, se la storia del partigiano Ico è analoga a quella di molti resistenti, a distinguerla c’è la sua discendenza ebraica. E quanto a questo la sua esperienza e le sue parole sono nette. «In famiglia sapevamo che cosa si stava preparando nella Germania nazista attraverso le lettere dello zio Alfred: le violenze, la propaganda, i bandi dal lavoro, dalle scuole, dalle attività commerciali. Finché la sua ultima lettera ci avvertiva: ‘Ci hanno chiesto di tenerci pronti per essere trasferiti a est dove potremo reinsediarci e lavorare’». Trasferiti: su che tipo di vagoni e per quale destinazione oggi lo sappiamo. Oggi, appunto. La cognizione di che cosa si stava preparando, allora poteva non essere ancora chiara. Nell’Italia fascista i segni potevano essere contraddittori. Non dopo le leggi razziali del 1938. «Ci furono due fascismi – dice Ico –. Il primo è quello che molti italiani sostennero con un sentimento nazionalista più che per adesione ideologica. Ci furono ebrei profondamente fascisti e monarchici. Mio fratello – la sua storia è emblematica – partecipava da giovane alle riunioni dello Shabbat, nel corso delle quali si discuteva di bibbia ed ebraismo, ma fu denunciato per attività contro lo Stato da una spia, un ebreo. Finì in prigione e ne uscì traumatizzato. Si è trascinato dietro questa macchia, divenne un fascista convinto e fortunatamente mio padre riuscì a farlo emigrare in America con l’ultimo viaggio del Rex».

Una storia di persecuzioni

Ico no. Non volle allora né oggi essere vittima condiscendente o corrispondere all’icona dell’ebreo “inviato al macello”, che tanto ha fatto scrivere, dire e contraddire. «Sono sì stato un bravo ragazzo ebreo che seguì tutto il percorso di formazione e integrazione nella comunità (ma non sono credente, semmai sono parte di una tradizione), ma la mia esperienza successiva è stata in effetti un’eccezione. Tenga conto che per i duemila anni che hanno seguito la nascita di Gesù Cristo, dopo la loro cacciata dalla terra di Israele, gli ebrei non hanno mai fatto l’esperienza delle armi. Furono un popolo pacifico e sottomesso. La mia scelta (e della ventina di ebrei sui millecinquecento che contava la comunità torinese) contraddì dunque una consuetudine millenaria. Non sapevamo quasi di poterci difendere. Ma ricordo bene la mia gioia del giorno in cui sono riuscito ad avere un fucile in mano…». E la vita gli fornì presto motivo di usarlo: una guerra è una guerra. O di non usarlo: la guerra non è tutto.

Una richiesta di perdono

Il suo incontro diretto con il nemico, nelle vesti dei soldati tedeschi, fu singolare: l’arresto, l’accompagnamento oltre il confine. Una specie di amicizia durata nel dopoguerra. Ico, gli chiedo, prevalse allora la clemenza, o a risparmiare la vita ai due militari tedeschi fu la sua non conoscenza dei loro atti precedenti né di quanto si andava compiendo nei campi di sterminio? «Li ho ancor davanti agli occhi, quei due, e quando mi chiedo come mi sarei comportato se avessi saputo di loro e di Auschwitz non so ancora darmi una risposta. Le posso dire che la mia indole non è mai stata sanguinaria, non ho mai provato piacere ad uccidere. Non so, forse avrei fatto lo stesso, mi sarei comportato con la stessa educazione, ma non ne sono certo. Quando poi, molti anni più tardi, ho ritrovato uno dei due militari, Ludwig Seiwald, diventandone in qualche modo amico, ricevetti da lui il suo diario di guerra. Vi lessi della sua partecipazione alla prima campagna in Polonia, delle violenze a cui prese consapevolmente parte. Raccontava di quando, per rappresaglia nei confronti di una piccola forma di resistenza incontrata in un villaggio, il suo plotone inchiodò gli uomini alle porte delle stalle. E raccontava dei rastrellamenti a cui aveva preso parte nelle valli del Cuneese: baite incendiate, partigiani fucilati. Quando si trovò davanti quel giovanissimo partigiano che ero io col mitra spianato, si aspettava probabilmente un simile trattamento. Di qui il terrore, la sorpresa per quel “bitte”, e lo stupore confuso quando lui e il suo commilitone vennero accompagnati in Svizzera. Così, immagino che consegnandomi quelle pagine, nel 1956, volesse rivelarsi per ciò che era stato e forse anche per chiedermi perdono». Ico non dice se quel perdono è mai stato accordato. E non mi sembra il caso di chiederglielo. Solo un’altra cosa: avete mai parlato della Shoah? «No. Mai».

Le parole della vita e l’educazione all’etica nei tempi del disimpegno

Questa recensione è apparsa sul Corriere del Ticino del 12.09.2014, col titolo «Le parole della vita e l’educazione all’etica nei tempi del disimpegno».


Parole della vita, l’ultima fatica di Lina Bertola, è un tentativo ben riuscito di divulgazione pedagogica e filosofica, distante da certi saggi dotti e un poco aristocratici. In un contesto, come quello odierno, dominato dall’utilitarismo, dal populismo, dalle semplificazioni e dalle certezze acritiche, Lina Bertola accompagna il lettore in un percorso appassionante, «un racconto dell’educarsi inteso come viaggio verso se stessi, come impegno etico ad abitare la propria vita assieme agli altri. Perché nel clima antieducativo del nostro tempo, la scuola può essere davvero un luogo di resistenza e, perché no, qualche volta un luogo dell’utopia». Nonostante il richiamo alla scuola, agli insegnanti e alle loro parole – valutazione, maestro, allievo, … – non siamo di fronte a un testo riservato agli specialisti dell’educazione, perché «la parola etica corrisponde al greco ethos, che significa “costume, consuetudine”, e rimanda a un repertorio di valori riconosciuti e condivisibili, su cui si fonda l’appartenenza comune e insieme il giudizio sui nostri comportamenti».

CopertinaCome in ogni viaggio avventuroso, lungo il cammino s’incontrano personaggi meravigliosi – tanti i filosofi, dall’antichità ai giorni nostri – che Lina Bertola ci fa conoscere senza saccenteria, e tanti paesaggi di parole avvincenti. Si comincia con Etica e Deontologia, tanto per dire subito che non sono sinonimi; e si prosegue con Individuo, Identità, Dialogo, Autonomia, Libertà, Felicità, Verità, Dono, Lavoro; e poi Pensare, Idea, Valore; e le coppie apparentemente antitetiche: Ragione/Sentimenti, Salute/Malattia, Maschile/Femminile, Naturale/Contro natura, Utile/Inutile, Fatti/Interpretazioni, Diritti/Doveri. E tante altre, perché la meta del viaggio non è un’idea astratta dell’educazione all’etica, cioè alla vita, ma è radicata nella storia del nostro presente. L’autrice non si ferma alle seducenti conclusioni di Aristotele e di Kant, di Cartesio e di Popper, ma cerca di inserire coerentemente questa grande necessità educativa nei tempi nostri, che è l’epoca delle trasformazioni accelerate, delle mutazioni improvvise, dei valori che cambiano e si contraddicono in un battibaleno, dei poteri forti e incontrollati. Siamo alla «conoscenza ai tempi del web», quand’è forse necessario andare «alla ricerca dell’ignoranza perduta».

«Certamente la scuola – scrive la Bertola avviandosi alla conclusione – deve formare i giovani rispondendo ai bisogni della società. Questo è il suo compito. Ma non solo: rispetto ai bisogni della società la scuola abita sempre un po’ altrove, in un luogo ideale in cui è racchiuso il suo supplemento di verità e in cui vive quella speranza non misurabile che accompagna il mestiere di insegnante; altrove, ovvero in un luogo simbolico in cui imparare a sentire il valore di quel viaggio verso se stessi che sempre è l’educazione». Ha scritto Franco Frabboni nell’introduzione, che «forte è il richiamo di Lina Bertola a un’etica intenzionale (…). Occorre – oggi più di ieri – difendere con i denti e con le unghie una Persona minacciata dall’avvento di un’umanità alienata e omologata che simpatizza scopertamente per una donna e per un uomo dagli encefalogrammi piatti. Utili e mercificabili». Insomma: un invito limpido ai veri valori dell’educazione come scelta etica individuale e collettiva, che è poi la vera educazione alla cittadinanza.

LINA BERTOLA, Parole della vita. Per un’educazione all’etica, 2014, Trento: Ed. Erikson, 109 pagg., € 16

L’eredità di Rousseau, la scuola e la politica di oggi

Questa recensione è apparsa sul Corriere del Ticino del 21.08.2014, col titolo «L’eredità di Jean-Jacques Rousseau, la scuola e la politica di oggi».


Gettare alcuni semi illuministi con la speranza che possano germogliare «per capire meglio il nostro presente, le sue impasse e le ragioni dell’odierno disincanto dopo l’ubriacatura post-moderna»: è questo l’intento del volume Semi ad usum praesentis – Un incontro sul pensiero di Jean-Jacques Rousseau, curato dal filosofo Fabio Merlini. Esso raccoglie i contributi di sei studiosi che, nel dicembre del 2012, in occasione del tricentenario della nascita del filosofo ginevrino, hanno dialogato col suo pensiero, durante un incontro tenutosi a Bellinzona. Il libro dà vita a una conversazione di grande interesse e dall’alto contenuto divulgativo. Partendo da alcune pagine fondamentali dell’opera di Rousseau gli autori propongono altrettante riflessioni declinate al presente, nel doppio intento di mettere nella giusta luce l’attualità del filosofo e di mostrare alcune distorsioni politiche e sociali del mondo odierno, dove «ciò che “normativizza” i comportamenti dei grandi operatori multinazionali (imprese e istituzioni bancarie) sono intese e accordi per lo più indifferenti a qualsiasi regolamentazione di mercato e al diritto legislativo dei singoli Stati. “Intese” e “accordi” in ragione dei quali il contratto privato sembra aver sostituito il diritto» (p. 15). Il pensiero di Rousseau rivela dunque la sua continuità nel tempo e «rimane una fonte inesauribile di ispirazione, nella misura in cui le sue visioni convergono nella definizione di un uomo nuovo. Scuola e formazione, a tutti i livelli, sono ovviamente coinvolte in prima persona. È giunto il momento di raccogliere tutte le voci giustamente critiche che oggi chiedono risposte diverse, rispetto a quelle elaborate negli ultimi decenni, a questa semplice domanda: “formare a che cosa?”» (p. 19-20).

Semi-ad-usum-praesentis-Copertina-512x1024Dopo tre brevi lezioni introduttive del curatore, il volume percorre l’opera di Rousseau attraverso alcune riflessioni che alternano argomenti politici e educativi. Lina Bertola si china sulla necessità che l’educazione torni a essere un atto di resistenza, per lasciarci alle spalle l’imperante utilitarismo della scuola negli anni della globalizzazione. Virgilio Pedroni approfondisce lo scarto tra volontà generale e volontà di tutti, dove la prima è quella dei cittadini e la seconda l’affollata giustapposizione di interessi privati. «L’educazione del cittadino. Il senso del patriottismo e la questione della religione civile» sono invece al centro delle considerazioni di Marcello Ostinelli, mentre Michele Mainardi punta i suoi riflettori su alcuni temi educativi, con particolare riguardo alla necessità che il patto educativo, formativo e sociale, alla base delle società civili, concerna le comunità e la società nel loro insieme. Per terminare, Franco Zambelloni propone un’acuta, curiosa e intrigante riflessione: «La libertà tradita», una sorta di pamphlet sulla pedagogia del ginevrino, fondatore della pedagogia moderna, che ha però subito una grave censura da parte dei contemporanei, che hanno occultato uno dei grandi principi: «Soffrire è la prima cosa che [il fanciullo] deve imparare». Alla faccia di tutto il recente buonismo.

Insomma, un testo indispensabile per chi non ne può più di questa politica senza visioni e senza cultura e di questa scuola al servizio dell’economia. Perché sull’intero volume aleggia «una domanda che non dovrebbe smettere di interrogarci: è davvero sfumato il sogno illuminista di una società più giusta?»

 

FABIO MERLINI (a cura di), Semi ad usum praesentis – Un incontro sul pensiero di Jean-Jacques Rousseau, 2013, Tesserete, Pagine d’Arte, 146 pagine, € 12 / Fr 16, ISBN 9788896529614

Elogio al Maestro

Sul «Corriere della Sera» del 13 agosto 2014 Beppe Severgnini ha scritto uno straordinario ricordo di Robin Williams, con un toccante articolo che è un elogio alla figura del Maestro: «Capitano, mio capitano». Quell’attimo fuggente che commuove. Il professore Keating, un maestro di vita. Perché ci rattrista la scomparsa dell’attore.

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L’attimo fuggente e il professor Keating che muovono l’articolo sono quelli del bellissimo film del 1989 diretto da Peter Weir, in cui Robin Williams dà vita a una storia emozionante, nei panni del professor John Keating, l’insegnante di lettere che sprona gli studenti a mettersi in piedi sui banchi per vedere il mondo da un’angolazione diversa, e a strappare le pagine accademiche sul tema «Comprendere la poesia», perché non stiamo parlando di tubi, stiamo parlando di poesia. Il titolo italiano del film, «L’attimo fuggente», si rifà al Carpe diem di Orazio, ma è certamente più ermetico del titolo originale, «Dead Poets Society».

Nel tempo della scuola sempre più tecnocratica e darwinista, che privilegia i test e la selezione a scapito dell’Educazione e dell’Insegnamento, l’articolo di Severgnini è quasi un piccolo trattato di pedagogia, una riflessione che rende un emozionante omaggio al grande Robin Williams.


Vi siete mai chiesti perché il finale di L’attimo fuggente, ogni volta, ci commuove? Ricordate? Il professor John Keating (Robin Williams), cacciato dalla scuola, lascia l’aula per l’ultima volta. I suoi ragazzi non ci stanno, gli rendono omaggio. Uno dopo l’altro, salgono in piedi sul banco ed esclamano: «Capitano, mio capitano!».
Perché quella scena, invece di apparire enfatica, è così potente e universale? La ricordano in Asia, la citano in America, la riproduciamo in Europa nei convegni aziendali: l’amministratore delegato vorrebbe ispirare come il professor Keating, e rischia d’irritare come il pedante sostituto in cattedra.

La risposta è semplice. Quella scena ci colpisce perché tutti sentiamo d’aver bisogno di un maestro. Sempre, dovunque, a ogni età. Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi la strada: per di là. Senza spingerci: basta l’incoraggiamento.

«Maestro» era l’appellativo di Gesù Cristo nei Vangeli. L’omaggio dei contemporanei ai grandi del Rinascimento. Oggi il vocabolo non se la passa bene. Banalizzato a scuola – dove qualche folle pensa sia meno prestigioso di «docente» – e inflazionato nella vita quotidiana. Quando non possiamo vezzeggiare il prossimo con un titolo di studio, o adularlo con qualche carica altisonante (vicepresidente! egregio direttore!), ricorriamo a «maestro». Pittori di provincia, poeti dilettanti, cattedratici sgonfi, allenatori in pensione: un inchino verbale non si nega a nessuno.
Non è un titolo ambito, maestro. Pochi sembrano interessati a conseguirlo. «C’è una grande gioia a incoraggiare il talento» diceva John Travolta, accademico sovrappeso e alcolizzato in In una canzone per Bobby Long; e cambiava la vita della ragazzina bionda e confusa che seminava dubbi e mutande per la casa (Scarlett Johansson). Quanti professori universitari, oggi, hanno voglia di diventare maestri? Ordinari, certo. Maestri, chissà. Quanti datori di lavoro pensano di dover dare, invece di continuare a chiedere; e insegnare, invece di limitarsi a giudicare? Quanti imprenditori e professionisti passano competenze e opportunità alle nuove generazioni, invece di considerarsi l’inizio e la fine di ogni cosa?

Essere un maestro è un impegno: un’auto-certificazione di generosità. Esiste uno speciale egoismo contemporaneo che ha preso forme accattivanti. Qualcuno lo chiama individualismo; altri, realismo. Molti teorizzano la necessità di viziarsi, di salvaguardarsi, di pensare a sé. «Fatevi le coccole» è una delle più fastidiose espressioni pubblicitarie degli ultimi anni: le coccole si fanno ai bambini e a chi si ama, non a se stessi. Esiste l’onanismo del cuore, e non è bello da vedere.
I maestri, di cui Robin Williams fornisce una poderosa interpretazione, non fanno coccole: offrono aiuto e suggerimenti e ispirazione. Segnalano svolte e insegnano prospettive. Indicano una via e la illuminano: può essere una scala verso il cielo, se uno crede all’aldilà o ai Led Zeppelin; o un passaggio sicuro nel bosco delle decisioni difficili. I maestri – quelli veri – non chiedono niente di cambio. Non sono life coaches. La ricompensa è l’onore di trasmettere qualcosa, il piacere di aiutare chi viene dopo. Piacere gratuito; quindi, impopolare.

Ci sono rischi, ovviamente. La domanda di maestri ha creato un’offerta vasta, varia e insidiosa. La parodia del carisma può ingannare chi cerca e ha fretta di trovare. Psicologi e filosofi trasformati in santoni; leader politici impegnati nella costruzione del monumento personale; spericolati improvvisatori new age; sacerdoti che posano da guru; gruppi e sette che dispensano dal pensare e, nel calore del gruppo, addormentano le coscienze. Non salite sul banco, davanti a questi personaggi, come gli studenti del professor Keating; nascondetevi sotto, e tappatevi le orecchie.

Gli attimi fuggono, i gesti rimangono. Ecco perché il mondo s’è commosso, come non si vedeva da tempo in occasione della scomparsa di un attore. Non è solo la strabiliante abilità di Robin Williams che ci mancherà; non è tanto la sua strepitosa galleria di personaggi. Ci mancherà qualcuno che ci ricordi con passione, a colori, con poesia quanto abbiamo bisogno di maestri.
Capitano, mio capitano!, tu lo insegnavi: qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo.

 

I profughi eritrei a Lodano, in Valmaggia: anche questa è Educazione

Segnalo un bell’articolo comparso sulla Regione Ticino del 29 luglio: «Si conclude oggi il soggiorno degli asilanti eritrei nel rifugio PCi a Lodano – Solidarietà sulla porta di casa». Preciso, per evitare accuse intempestive, che l’articolista – Maurizia Campo-Salvi, residente proprio a Lodano – è mia cugina e che io sono valmaggese, di Someo, ma un po’ anche di Lodano, oggi ex comuni confluiti nel comune aggregato di Maggia.

L’articolo testimonia della pacifica e costruttiva esperienza capitata a quei 200 abitanti di Lodano, che hanno convissuto per tre settimane con un gruppo di una cinquantina di uomini eritrei ospitati nel centro della protezione civile. La frase-chiave dell’articolo è: «Sono le stesse persone che ci hanno infuso pietà e sgomento quando le abbiamo viste alla tivù, comodamente seduti sul divano di casa, stipate sui barconi della speranza (e della morte) alla deriva nel Canale di Sicilia».

Il merito è del Municipio di Maggia e, in particolare, del sindaco Aron Piezzi e del municipale Luca Sartori, un patrizio che ha alle spalle una lunga esperienza quale volontario tra i Guaraní della Bolivia, dove per diversi anni ha lavorato per il miglioramento nella produzione casearia.

E naturalmente un altro grande applauso va alla popolazione del piccolo villaggio.

L’esperienza è iniziata nelle peggiori condizioni. È stata messa in atto in situazione di emergenza, tanto da scatenare sui diversi social network una pandemia di commenti razzisti, neanche si fosse in attesa dell’undicesima piaga d’Egitto, col pregiudizio a far da cornice al torvo quadro. Mi ha colpito una giovane mamma, che ha dichiarato a Ticinonline: «Non mi dispiace dare una mano a chi sta peggio ma il mio pensiero va ai miei bimbi: la nostra casa è molto vicina a questo centro e i miei figli spesso giocano nel giardino. Mio marito è più tranquillo ma io cercherò di fare più attenzione».

Come se non bastasse, il solito domenicale della Lega aveva soffiato sul fuoco, a pochi giorni dall’arrivo in valle degli eritrei: «… nei giorni scorsi una cinquan­tina di asilanti sono stati piazzati nientemeno che in Valle Maggia». Si noti l’avverbio. E poi: «Sta di fatto che 50 asilanti non sono pochi da gestire per un piccolo paese! Ci piacerebbe poi sapere quanti di questi asilanti sono giovani uomini soli, quanti hanno famiglia, quanti suono “fuoriusciti” dalle patrie galere (che notoriamente sono state svuo­tate)». Non è finita: «Aspettiamo (…) che si verifichino i primi problemi di ordine pubblico legati ad una simile presenza imposta alla popolazione. E quali saranno le sanzioni comminate ai sedicenti rifu­giati che sgarreranno. Chissà perché c’è come il vago sospetto che non bi­sognerà attendere molto». Tralascio il resto.

L’esperienza, così com’è stata ben sintetizzata da Maurizia Campo-Salvi, merita di essere segnalata.

Per ventisei anni ho fatto il direttore di una scuola con circa la metà della popolazione straniera. Ho imparato che i problemi non hanno in particolare una razza, né un passaporto.

La storia di Lodano dice che anche tutto ciò è Educazione.

Dai margini dell’aula: esperienza, pensiero critico e qualche nota fuori dal coro