Una lettura critica dell’iniziativa «Aiutiamo le scuole comunali»

Il testo che segue, e le schermate Power Point che lo accompagnano, riferiscono di una presentazione e di una riflessione che proposi alla Conferenza dei Direttori degli Istituti Scolastici Comunali (cosiddetta CDD, con un vecchio acronimo) durante una seduta che si tenne al Centro diurno di Rivera il 20 gennaio 2011, oggi comune di Monteceneri. Questo intervento mi fu chiesto dalla presidenza della Conferenza, all’epoca presieduta da Matteo Cavadini. Leggo dal verbale datato marzo 2011 che erano presenti 36 direttori (su 44).

Avevo trasmesso le slides e i miei appunti all’ufficio presidenziale, con questa premessa: «Il testo che segue è il complesso degli appunti utilizzati durante la presentazione, durata circa un’ora. Proprio per la loro natura di brevi annotazioni a mo’ di promemoria, è necessario sottolineare che a far stato è il testo proposto oralmente».


Gli appunti dell’intervento

In tutta sincerità, non ho ben capito come mai sia stato chiesto proprio a me di intervenire oggi sull’Iniziativa popolare legislativa nella forma elaborata, lanciata nel 2009 da persone vicine al sindacato VPOD e al Partito socialista. L’iniziativa ha goduto di un successo che definirei strepitoso, raccogliendo rapidamente 10 mila firme, dunque ben più del necessario.

Immagino che tutti sappiano che personalmente non l’ho firmata e che sono intervenuto due o tre volte, nell’ambito della mia rubrica sul Corriere del Ticino, con considerazioni piuttosto critiche. Do quasi per scontato che molti di voi l’hanno firmata, così come l’ha firmata un gran numero di nostri insegnanti.

Il “taglio” del mio intervento di questa mattina non è certo quello di spiegare le proposte dell’iniziativa: ci mancherebbe. Nel contempo non è neanche mia intenzione aprire un fronte politicamente contrario a quelle proposte: credo che l’iniziativa debba compiere fino in fondo il suo percorso democratico, con la discussione in Parlamento e, semmai, il voto popolare.

Non credo nemmeno che la nostra Conferenza si trovi attualmente nella posizione di inserirsi nel dibattito, al limite in modo critico, dopo che per anni è stata zitta oppure non è stata ascoltata. Mi limiterò invece a fare una specie di «esercizio accademico» per riflettere sulla nostra scuola partendo dalle proposte dell’iniziativa: ma questo, naturalmente, è un parere del tutto personale.

Un’ultima precisazione prima di entrare nel merito: l’invito a sedermi qui questa mattina mi è giunto giusto una settimana fa. Ogni riga dell’iniziativa scatena in me una ridda di considerazioni che, quasi sempre, meriterebbero un approfondimento più scientifico: cosa che non ho potuto fare per ragioni che mi paiono evidenti.

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Apparentemente le proposte sono di tre tipi: di ordine sociale, di ordine pedagogico e di ordine amministrativo. In realtà i tre grandi capitoli riassumono qualcosa come una ventina e più di riforme e/o cambiamenti, che toccano la scuola dell’infanzia e quella elementare, nonché servizi para-scolastici, direzioni, circondari e così via. Immagino che, nel dettaglio delle proposte, conosciate l’iniziativa meglio di me. In ogni modo, più che come direttore di una scuola comunale, mi esprimerò come pedagogista e osservatore dei sistemi formativi.

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Da sempre la scuola ha svolto anche un ruolo sociale, di sorveglianza dei bambini, per permettere ai genitori di lavorare. Nell’800 ciò era fondamentale, soprattutto per l’asilo, mentre quando i ragazzi crescevano il problema si capovolgeva: i genitori preferivano tenere i figli a casa, per dare una mano nei campi, piuttosto che mandarli a scuola. È una preoccupazione che ben traspare dalla prima Legge della scuola, del 4 giugno 1804:

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Più difficile, invece, è capire come mai permanga oggi questa valenza sociale della scuola, che non è più adeguata ai tempi, dal momento che il mondo del lavoro è cambiato radicalmente ed è in continuo movimento.

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Le ipotesi possono essere diverse.

Votazione del 18 febbraio 2001 sui sussidi alle scuole private

Si tratta di rivendicazioni che hanno assunto grande importanza soprattutto in occasione della votazione del 18 febbraio 2001 concernente il sussidio alle scuole private. Come si ricorderà, la campagna in vista della votazione si era occupata in maniera spropositata, a mio modo di vedere, proprio di tali servizi, di cui spesso le scuole private erano già dotate.

Ricordo che Franco Zambelloni era intervenuto a un certo punto chiedendo se si stesse discutendo del primato della scuola pubblica e del suo progetto di educazione dei futuri cittadini attivi oppure se il problema erano le mense, i doposcuola e gli asili a orario prolungato. A mente mia si tratta essenzialmente di un problema di natura sociale e socio-economica, che come tale avrebbe dovuto essere affrontato.

La LSiSe si occupa anche di trasporti, mense e doposcuola

Un primo peccato originale che ha probabilmente originato questo malinteso – chiamiamolo pure così… – risiede proprio nella LSiSe del 1996, che dedica alcuni capitoli proprio ad alcune di queste problematiche. Ma perché la LSiSe ha sentito la necessità di occuparsi di questi temi, che le competono solo marginalmente?

  • all’epoca il problema era più marginale e toccava per lo più solo alcune fasce di popolazione e alcune scuole;
  • contiguità tra l’allora capo dell’UIP e qualche direttore più vicino a questi temi.

Un nuovo paradigma sociale, che richiederebbe forse un altro ruolo dello Stato

  • Almeno fino ai primi anni ’70 vi era una più marcata corrispondenza tra gli orari della scuola e quella del mondo del lavoro.
  • La scuola dettava i ritmi della società; per esemplificare: nessuno si sarebbe sognato di aggiungere settimane di vacanza alle normali vacanze scolastiche.
  • La famiglia-tipo era caratterizzata, tra l’altro, da una moglie-madre-casa­lin­ga, e l’orga­niz­za­zione delle vita sociale ruotava attorno ai ritmi dettati dalla scuola.
  • Inoltre, almeno fino alla prima crisi del petrolio (1973), il salario del capo-famiglia permetteva un sostentamento decoroso dell’intero nucleo familiare.
  • Nel trenta/quarantennio successivo abbiamo assistito all’emergere di ben altre problematiche, che oggi presentano famiglie dalla struttura molto più variegata.
  • La famiglia odierna si è assottigliata, almeno dal punto di vista statistico (-> meno figli).
  • Possiamo raggruppare le nuove famiglie attorno ad alcune caratteristiche assai diffuse:
    • famiglie mono-parentali;
    • famiglie che, nel territorio in cui abitano, non hanno parenti sui quali contare per la gestione familiare, magari anche solo per momenti di piccola emergenza;
    • doppi redditi “obbligati”, nel senso che con un unico reddito non si garantirebbe un livello di vita almeno sufficiente: cameriere e commessa in un grande magazzino.
    • Si tenga conto che una famiglia con due figli a carico ha bisogno di un salario lordo attorno a 6 mila franchi per garantirsi una vita normalmente “tranquilla”, che magari consente anche qualche breve vacanza…
    • doppi redditi che garantiscono un livello di vita più che dignitoso (Es.: coppia di insegnanti di scuola elementare);
    • doppi redditi che garantiscono un livello di vita almeno “benestante” (Es.: coppia di liberi professionisti).

Non intendo ovviamente entrare nelle scelte individuali di ogni singola famiglia, soprattutto tenendo conto che le vere possibilità di scelta toccano solo queste ultime due categorie (dal dignitoso in su…). È però evidente che sono proprio queste scelte e queste costrizioni che fanno lievitare la necessità di disporre di più mense, più doposcuola e più sorveglianza durante la prima infanzia – il problema non tocca soltanto gli allievi di tre anni, ma anche quelli nati prima, tanto che si sta assistendo alla proliferazione di nidi dell’in­fanzia pubblici e privati.

Un paio di altri aspetti mi sembrano evidenti:

  • Non sono sicuramente le coppie di camerieri e inservienti di cucina che hanno i mezzi per far pressione sullo Stato affinché questo intervenga con ineludibili forme di sostegno.
  • Un ruolo importante nella richiesta di servizi cosiddetti parascolastici – meglio sarebbe dire sic et simpliciter sociali! – è rivestito dagli ambienti economici (grandi aziende come banche e assicurazioni, Économie Suisse, ecc.: tanto che anche HarmoS si occupa di queste cose).

Concretamente la soluzione di queste problematiche in ambito scolastico sottrae molte energie e distoglie l’atten­zio­ne dai veri problemi della scuola: pubblica, laica e democratica.

Soprattutto in tempi contraddistinti da una certa confusione attorno al ruolo e agli obiettivi della scuola, credo che sarebbe ben più legittimo, serio e corretto che fossero i settori sociali dello Stato a occuparsi di queste faccende e non certo la scuola, che ha già le sue belle gatte da pelare.

Mi si permetta, quindi, una semplice osservazione. Il ruolo sussidiario dello Stato dovrebbe prendere in considerazione soprattutto i ceti che vivono coi salari più trasandati. Allora, invece che costringere le coppie di genitori a svolgere lavori men che modesti, sovente con salari scandalosi, converrebbe aiutare le famiglie con contributi finanziari, così da difendere – tra l’altro – il ruolo educativo della famiglia.

Potrebbe darsi che, in futuro, sia lo Stato a doversi occupare dell’educazione dei suoi «cuccioli» fin dalla primissima età. Sarebbe un nuovo paradigma educativo, del quale non conosciamo ancora nulla. Oggi, in ogni modo, da una parte è difficile sostituirsi alla famiglia nei suoi primari compiti educativi e, nel contempo, troppo spesso alla famiglia vengono sottratte le possibilità concrete di occuparsi dei figli, salvo poi metterle alla gogna, soprattutto mediatica, quando le famiglie sono latitanti e i figli adolescenti delinquono.

Insomma: più mense, più doposcuola e più asili nido.

Ma chiediamoci: a chi giova realmente?

CDD-06In realtà gli ultimi due punti fanno parte, secondo la presentazione dell’iniziativa, degli aspetti organizzativi, ma io li ho posti qui.

La reazione del Consiglio di Stato

Proprio in questi giorni sono in atto alcune scaramucce tra Governo e iniziativisti. Per il momento il Governo ha dato qualche risposta, come ad esempio il potenziamento del sostegno pedagogico (con cantonalizzazione), una specie di “liberalizzazione” del docente di appoggio (più di forma che di sostanza, a dire il vero), il coordinamento dei programmi (HarmoS), … I proponenti, dal canto loro, chiedono che l’iniziativa vada in Parlamento entro aprile e che, in caso di quasi sicuro voto contrario, l’iniziativa sia sottoposta al popolo.

A scanso di equivoci: al di là del giudizio che ognuno di noi può dare all’iniziativa – che, lo ricordo, è riuscita a furor di popolo – sarebbe meglio se fosse rispettata la normale procedura entro i tempi stabiliti. Trovo molto “alla ticinese” questo tergiversare e cambiare qualche carta in tavola. Se l’iniziativa è stata lanciata e se ha raccolto tali e tanti consensi, significa che nel corso degli anni qualcuno è riuscito a far passare nell’opinione pubblica la convinzione che quanto proposto s’ha da fare.

D’altra parte lo stesso ministro Gendotti aveva scritto a suo tempo che il discorso sul numero di allievi per classe non poteva essere affrontato per motivi finanziari. Ergo: anche lui è d’accordo col principio, ma purtroppo non ci sono i soldi. Attitudine fuorviante, a mente mia: perché se fosse convinto della bontà della proposta dovrebbe darsi da fare per perseguire l’obiettivo. In sostanza, nondimeno, di voci critiche nei confronti di quest’ammucchiata di proposte, sino ad oggi se ne sono lette o sentite ben poche. Si può dunque immaginare che, in votazione popolare, l’iniziativa potrebbe godere di un ampio consenso popolare.

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A parte i temi sociali, di cui ho già detto, molte parti del testo dell’iniziativa si basano su alcuni dogmi che sono divenuti tali nel corso dei decenni, benché non abbiano delle solide basi scientifiche. Il meccanismo è un po’ quello che crea le cosiddette leggende metropolitane, cioè cose dette e ripetute che, a un certo punto, diventano credibili perché reiterate e fatte proprie da un gran numero di persone. Nel nostro caso il gran numero di persone avvalora ancor più la scientificità degli assunti, dato che sono insegnanti, direttori, ispettori e operatori del settore.

Vediamone un qualcuno, di questi dogmi.

La diminuzione del numero di allievi per classe aumenta la qualità dell’educa­zio­ne e dell’istruzione

Non vi sono dati scientifici a comprova di questa tesi. A volte – a parità di caratteristiche socio-culturali – l’affermazione è vera, altre volte è falsa. Quasi sempre i cambiamenti non dipendono dal numero di allievi, ma da altre variabili, le più importanti delle quali sono:

  • le caratteristiche cognitive e socio-culturali degli allievi;
  • le scelte didattiche e pedagogiche, nonché il grado e il ritmo di differenziazione dell’inse­gnante (cioè l’insegnamento);
  • le modalità e le aspettative degli strumenti di controllo (valutazione).

Faccio un esempio.

Nella primavera 2009 ho ripreso la prova cantonale “Problemi di matematica” dell’anno precedente. Ho modificato i dati e l’ho somministrata alle mie sezioni di 5ª. A differenza della prova cantonale, però, somministrazione e correzione sono state fatte da una persona esterna. Su 6 classi, 4 avevano 20 allievi, una 19 e una 21: quindi, praticamente, classi uguali da questo punto di vista. Per sede la composizione delle classi era comparabile dal profilo socio-culturale.

Eppure:

  • ai Saleggi una classe ha ottenuto il 95.4% di riuscita (80.9% l’allievo peggiore);
  • le altre 3 tra il 79.8% e il 71.9%. La differenza è dunque stata molto significativa;
  • a Solduno una classe ha raggiunto l’85.3%, l’altra solo il 72.1%.

Un altro esempio.
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Sul rapporto tra numero di allievi per classe e qualità almeno dell’istruzione si potrebbe ancora parlare a lungo.

La pluriclasse è un ostacolo verso un insegnamento di qualità: più sono le classi, più diminuisce la qualità

Noto in entrata che, in base all’iniziativa, questo dogma vale solo a partire dalla scuola elementare. Si vede che alla SI non si insegna…

Secondo alcuni autori – coi quali concordo pienamente – la pluriclasse è una ricchezza e non un impedimento. La pluriclasse diventa un ostacolo quando l’insegnamento è centrato essenzialmente su attività ex cathedra, con lezioni frontali, esercizi omologati, nessuna parvenza di differenziazione e di applicazione di metodi attivi, al massimo tentativi di individualizzazione per il recupero degli allievi più in difficoltà.

Tutti i docenti sono bravi

Prendo in prestito una definizione di Zambelloni: sappiamo tutti che accanto a docenti straordinariamente bravi ve ne sono altri solo normalmente bravi. Diciamo che il docente straordinariamente bravo otterrà buoni risultati con tanti o pochi allievi, in situazione di mono- o pluriclasse.

Le valutazioni espresse dagli insegnanti sono scientifiche e, quindi, attendibili

 

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Eppure sappiamo tutti come già nel micro-cosmo dei nostri istituti il valore di un allievo può cambiare in maniera significativa cambiando istituto o, addirittura, anche solo cambiando insegnante. Nella classe migliore delle prove di matematica che ho citato prima, c’era un allievo particolarmente problematico. In matematica aveva ricevuto 3½ in 4ª, 4 in 3ª, 4½ nel I ciclo. Unanimemente – famiglia compresa – si riteneva che «non era tagliato per la matematica». Eppure in quella prova ha raggiunto una percentuale di riuscita dell’86%.

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Nessuno, però, si assume il rischio di parlare della formazione:

  • profilo professionale dei docenti, speciali compresi, degli ispettori e dei direttori e conseguenti necessità nella formazione di base o nelle condizioni di accesso alla funzione;
  • ruolo della formazione continua e articolazione tra compiti della scuola e istituti per la formazione degli insegnanti;
  • controllo serio dei risultati: cosa imparano i nostri ragazzi?

Per andare a concludere

A inizio ’900 il nostro Governo aveva parecchie preoccupazioni nei confronti della scuola: problemi di igiene, di formazione dei maestri, di distanza della scuola dal domicilio, senza scordare la necessità – presente fino ai primi anni del XX secolo – di convincere le famiglie a mandare i figli a scuola. Non poteva mancare, già allora, il numero di allievi per classe, anche se le dimensioni del fenomeno erano altre:

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[Scuole sta per classi].

Vediamo che la media cantonale ruotava attorno a 30. Ricordo che per la SE il numero massimo di allievi per classe era stato abbassato a 25 una trentina di anni fa, solo all’inizio degli anni ’90 per la SI.

All’epoca rimanevano però anche classi di 40, 50 e oltre 60 allievi:

CDD-12C’era infine, il problema delle pluriclassi, dette allora classi plurime. Ancora nel 1890 ci si interrogava:

Nelle scuole la divisione per sesso resterà prevalente, anche se si comincerà ad interrogarsi sull’opportunità di dividere gli allievi per classi di età.

Da questo punto di vista, dunque, si direbbe che alcune preoccupazioni siano rimaste costanti, anche se – ad esempio – il numero delle pluriclassi è molto diminuito, soprattutto in alcune zone periferiche, optando per la creazione di centri scolastici consortili: con quali reali benefici è ancora tutto da dimostrare.

La mia sensazione è che i problemi della scuola vengano in parte nascosti e in parte affrontati col paraocchi. Ma ciò non può stupire, se appena pensiamo, ad esempio, che a partire dal 1978 si è costruita la nuova scuola media sul modello del ginnasio – una scuola selettiva e senza troppa pedagogia – invece che sul modello della scuola maggiore, una scuola che, malgrado le difficoltà, soprattutto nei centri dove c’era il ginnasio, era una buona scuola. Mancano comunque delle visioni, mentre siamo sempre più alla cultura dell’enun­ciato: quando una cosa viene detta o, meglio ancora, scritta – magari in una legge – essa diviene realtà e il problema è risolto:

  • si pensi all’educazione civica nella scuola media, che il Parlamento ha introdotto qualche anno fa;
  • si pensi ai tanti progetti e progettini sulla gestione dei conflitti;
  • si pensi alla nuova politica delle lingue: davvero noi Ticinesi siamo pronti a quindici anni per lanciarci alla conquista del mondo?

È sintomatico il poco interesse generato, due anni fa, dalla presentazione del «Profilo professionale» dei nostri insegnanti, così come esemplare è la completa assenza di dibattito sul come organizzare la quotidianità dell’aula e come, conseguentemente, formare i maestri. In poco meno di 25 anni abbiamo visto sfilare ben tre diverse scuole magistrali:

  • la post-liceale alla fine degli anni ’80
  • l’ASP meno di dieci anni fa
  • e ora il DFA della SUPSI.

Il passaggio dalla seminariale alla post-liceale era stato oggetto di aspri dibattiti; poi, però, più nulla. Ogni volta la Magistrale di turno ha preso delle decisioni interne e tutto sommato sconosciute all’esterno sui curricoli formativi dei nuovi maestri, influenzando in tal modo le pratiche di chi già era in servizio: senza che nessuno fiatasse.

Più il tempo passa, più ci si scosta da tanti insegnamenti del passato. Ciò che prima ci riportava costantemente al principio di educabilità (da Pestalozzi in qua), oggi viene affrontato con le procedure didattiche (che non sono mai state miracolose) e con le figure demiurgiche – i vari docenti speciali, gli psicologi, i docenti integratori, i sostenitori pedagogici… E chissà cos’altro riusciremo ancora a inventare.

Torno un momento agli aspetti di natura sociale, che l’iniziativa propone di risolvere attraverso procedure note: le prime, insomma, che saltano in mente. In altri anni proprio questa conferenza aveva tentato di far partire un dibattito attorno a un nuovo e diverso rapporto tra esigenze della nuova realtà economica e sociale e le finalità della scuola. Così, ad esempio, si era parlato:

  • della scuola a tempo pieno, aperta tutto l’anno, con precise regole di frequenza per allievi e insegnanti;
  • di una diversa articolazione dell’in­se­gnamento delle discipline sull’arco delle giornata; per esemplificare:
    • le discipline essenziali – italiano, matematica, studio dell’ambiente – nella prima metà della giornata;
    • le altre discipline – le arti, l’educa­zio­ne fisica, … – nella seconda parte della giornata, invadendo pure gli orari dell’attuale doposcuola.

Oppure ancora sul numero di allievi per classe: il numero incide a seconda dell’attività che si svolge. A volte serve il rapporto 1/1, in altri momenti anche l’1/40 funziona bene. L’équipe pedagogica – il team teaching – è un modo per facilitare il variare del rapporto: ma come è possibile imboccare questa nuova organizzazione dell’inse­gnamento, se sin dall’entrata nell’istituto di formazione si basa l’insegnamento sul solito tris «Un maestro, un’aula, un gruppo di allievi»?

Come ho detto all’inizio, potrei naturalmente continuare ancora per molto, ma è meglio che mi fermi qui. Si dice che Berlusconi, prima di scendere in campo, abbia instupidito gli italiani con le sue televisioni. Vorrei far notare che quei canali televisivi sono molto seguiti anche nel nostro Cantone, sin dai primi anni ’80. Tutto ciò mi fa temere che prima o poi dovremo dare ragione a Ivan Illich, che già nel 1971 perorava la descolarizzazione della società.

Nel frattempo, a furia di perseverare nella nostra quasi atavica attitudine autoreferenziale, ci sarà il rischio di arrivare a una liberalizzazione del mercato della scuola: alla faccia di chi crede ancora nella scuola pubblica.

Ma – mi chiedo ogni tanto – ci crediamo tutti per davvero?

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Bibliografia

  • MARZIO CONTI, Storia della scuola ticinese dal punto di vista dell’allievo (XIX-XX), 2004
  • ROBERT DESNOS, “Le pélican”, in Chantefables et chantefleurs, 1970 (postumo) – La filastrocca è citata da Jean-Pierre Bourdieu e Claude Passeron come prologo a La reproduction. Éléments pour une théorie du système d’enseignement, Minuit, 1970
  • WALO HUTMACHER, Quand la réalité résiste à la lutte contre l’échec scolaire, 1993, Genève, Service de la recherche sociologique

Scarsità di maestri e difesa della qualità

Per oltre trent’anni la Magistrale ha continuato a sfornare disoccupati, malgrado la considerevole diminuzione degli iscritti, la chiusura per un paio di anni e un modello formativo pensato per un numero relativamente basso di studenti. A metà degli anni ’70 la scuola ticinese aveva dovuto confrontarsi con una doccia fredda del tutto inaspettata: se fino al 1974/75 si erano costruite nuove scuole per accogliere i figli del baby boom – e l’istituto locarnese diplomava oltre duecento nuovi maestri di scuola elementare all’anno – a partire dall’anno successivo era iniziato il calo inesorabile degli allievi, passati dagli oltre 20 mila di quegli anni ai 13 mila dell’88/89. Nei primi anni di questo millennio, con l’istituzione dell’ASP, si è pure introdotto il «numero controllato», un modo perbene per dire «numero chiuso», con un occhio di riguardo al modello formativo più che ai disoccupati.
Da qualche mese – toh!? – si è però scoperto che c’è scarsità di maestri di scuola elementare, tanto che un gruppo di parlamentari ha presentato l’immancabile iniziativa generica che segnala «una presunta scarsità di docenti» e chiede di «innalzare sensibilmente o abolire il numero chiuso delle ammissioni presso il DFA», con la precisazione di escludere gli studenti residenti fuori Cantone, ovvio. Ma com’è potuto succedere che nessuno s’accorgesse che la demografia era stagnante, mentre il corpo insegnante invecchiava in modo implacabile? A parte che già da almeno due o tre anni le scuole comunali faticano a trovare supplenti, nei primi anni ’90 la Conferenza dei direttori delle scuole comunali si era chinata sul problema dell’invecchiamento del corpo insegnante. In un rapporto del 1995, redatto insieme all’Ufficio studi e ricerche (USR) del Dipartimento, i direttori scrivevano: «Se prendiamo in considerazione i dati forniti dalla Cassa Pensioni, che situano a 62 anni l’età media di pensionamento, ci accorgiamo che un vero e proprio ricambio del corpo insegnante avverrà fra 15-20 anni». Appunto. La problematica era poi stata assunta direttamente dal medesimo USR, che tuttavia non si era occupato del problema, con l’obiettivo di giungere preparati a questa scadenza, sebbene la Magistrale appartenesse ancora allo Stato – il passaggio alla SUPSI risale a quattro anni fa – e benché la demografia proseguisse il suo placido scorrere.
In un articolo del 1996 Graziano Martignoni aveva scritto che l’augurio più bello che si poteva rivolgere a un bambino che affrontava il primo giorno di scuola fosse quello di «incontrare un buon maestro»: credo che possiamo essere tutti d’accordo. Ora, in attesa che il DFA trovi le soluzioni migliori per formare un numero sufficiente di maestri entusiasti e competenti e che lo Stato conceda i crediti necessari per farvi fronte, da più parti si è data la stura alle soluzioni più fantasiose, ognuna delle quali pretende di essere l’uovo di Colombo. Negli anni ’70 il Canton Vallese, confrontato con un’analoga penuria di maestri, aveva diminuito all’istante la durata degli studi magistrali. Cose d’altri tempi, certo. Ma sarebbe il colmo se, per risolvere in fretta un problema conosciuto da anni, si sacrificasse la qualità dei nuovi insegnanti, ammesso che quel che passa oggi l’ex convento locarnese sia all’altezza di un far scuola sempre più complicato e sfibrante. Perché l’importante è che i maestri siano in gamba, a prescindere da ogni soluzione autarchica.

Serve un progetto politico per la scuola dell’obbligo

Gesù bambino ha portato ai maestri delle scuole comunali un regalo che aspettavano da tanto, troppo tempo: un aggiornamento dello stipendio. Era ora, quasi per tutti. «Quello dello stipendio – ha detto il direttore del DECS – è uno degli aspetti che concorrono a rendere attrattiva la professione di insegnante», il che significa che per diversi anni molti maestri hanno lavorato con una busta-paga poco attrattiva. Chissà perché. Si deve pur ammettere che nel lungo periodo caratterizzato da una forte disoccupazione magistrale non ci si è preoccupati molto delle condizioni di lavoro dei nostri docenti, se non a parole, col famoso slogan dell’«investire nell’educazione». È già tanto se hanno un posto di lavoro, avrà pensato qualcuno. Da qualche anno, però, cominciano a scarseggiare i maestri di scuola elementare, e c’è da credere che per un po’ saranno necessari tanta fantasia e un bel po’ di pragmatismo per sostituire i tanti che andranno in pensione, oltre a chi finirà in congedo per ragioni diverse.
Cautamente il ministro Bertoli ha sottolineato che quello del salario è solo uno dei tanti aspetti che rendono attraente l’insegnamento. Spero – ma ho paura di illudermi – che gli altri aspetti non siano solo la diminuzione del numero di allievi per classe, il potenziamento dei servizi di sostegno, l’estensione dei direttori a tutti gli istituti, la realizzazione di HarmoS e nuovi servizi para-scolastici. Perché, diciamocelo con franchezza, insegnare oggi è diventato un mestiere difficile per ben altre ragioni. Negli ultimi cinquant’anni, con una robusta accelerazione negli ultimi tre lustri, la scuola dell’obbligo è passata da istituzione dello Stato, con finalità di alfabetizzazione, educazione e cultura, a servizio orientato in maniera unilaterale verso l’economia. Siamo, insomma, alla paventata scuola supermercato, che cerca di dare risposte (sconnesse) ai bisogni più disparati. Non è certo con i corsi di educazione civica o i giochini didattici sull’interculturalismo, né con un’interpretazione sempre più tecnocratica dei programmi, ridotti a un’ammucchiata di discipline, che è possibile fondare un legame sociale tra cittadini in grado di adattarsi al mutare rapido e incessante del mondo e a preparare le giovani generazioni all’inevitabile confronto con le culture asiatiche, mediorientali e africane. Per educare e istruire cittadini consapevoli, critici e liberi, occorre riaffermare con forza il progetto educativo dello Stato: è innegabile che l’economia ha un’influenza rilevante, a tutti i livelli. Ma altri interessi superiori devono prevalere nel dibattito politico.
Il fascino della professione risiede proprio lì, nel legare l’istruzione e l’educazione all’interno di un gruppo – la classe – che è una piccola società basata sul diritto, sul lavoro tenace ed esigente, sulla fiducia nella capacità di ogni allievo di raggiungere il massimo delle sue potenzialità. Perché il difficile compito dell’insegnante della scuola dell’obbligo, sia esso un maestro delle scuole comunali o un professore delle medie, deve mirare a dar vita a futuri adulti che sappiano comunicare e pensare, che conoscano la matematica, la storia, la geografia, le scienze e le arti. In una società che chiede sempre più versatilità, la scuola pubblica e obbligatoria deve rispondere in termini politici, con un progetto serio e lungimirante. È invece insensato, ed economicamente irrazionale, che la scuola dello Stato scialacqui gran parte delle sue energie a selezionare chi potrà frequentare il liceo.

Perché proporre ai nostri ragazzi le storie di una volta?

Sul numero di gennaio 2014, a firma M. d. C., La Rivista dell’editore Dadò ha dedicato alcune note interessanti in margine alla presentazione del volume «Il gatto ha ancora gli stivali?», organizzata al DFA lo scorso 14 novembre 2013.


Il_gatto_ha_anco_52692abd69ed1Perché mai un insegnante o un papà dovrebbe leggere ai suoi ragazzi Tom Sawyer di Mark Twain? E perché una nonna dovrebbe raccontare alle nipotine Piccole donne di Louisa Alcott? Perché, insomma, un qualsiasi adulto un po’ in là con gli anni dovrebbe sfoderare tanto accanimento per far digerire alle nuove generazioni i bei romanzi di un tempo, che raccontano mondi scomparsi e vicende che possono sembrare almeno strane a un nativo digitale? Difficile dire se sia proprio così, cioè se tante storie narrate dai Classici per ragazzi siano poi sul serio così inutili e inattuali.

Su questo tema l’editore Armando Dadò ha pubblicato, nel novembre scorso, un libro assai intrigante, interessante e utile: «Il gatto ha ancora gli stivali?», col sottotitolo «Perché leggere i classici per ragazzi, oggi e domani». È proprio a partire da domande del genere – perché mai? – che Dario Corno, ricercatore in Linguistica Italiana presso la Facoltà di Lettere dell’Università degli studi del Piemonte Orientale, Simone Fornara, docente e ricercatore in Didattica dell’italiano presso il DFA della SUPSI, e Adolfo Tomasini, pedagogista e già direttore delle scuole comunali du Locarno, hanno dato vita, ormai due anni fa, a un convegno che, il 28 agosto 2012, aveva attirato al Teatro di Locarno circa cinquecento insegnanti e studenti per seguire un evento che intendeva cercare delle risposte a questi interrogativi. Ma, si potrà obiettare, non ci sono testi più attuali da proporre ai nostri figli, abituati a una modernità più svelta e globale, e in contatto regolare col mondo intero, attraverso il web e i tanti marchingegni elettronici? «La scelta dei libri da proporre a bambini e ragazzi tra i quattro e i dieci anni è uno dei problemi centrali che ogni educatore – insegnante o genitore che sia ­– deve prima o poi affrontare. E non si tratta di un problema di facile soluzione, dato che il mercato della narrativa per ragazzi è ben vivo, ma popolato da una miriade di libri che a livello qualitativo si collocano agli estremi opposti».

Presentazione del volume al DFA il 14 novembre 2013. Da sinistra: Michele Mainardi, Simone Fornara, Sara Giulivi, Adolfo Tomasini, Silvia Demartini, Daniele Dell'Agnola e Massimo Bonini.
Presentazione del volume al DFA il 14 novembre 2013. Da sinistra: Michele Mainardi, Simone Fornara, Sara Giulivi, Adolfo Tomasini, Silvia Demartini, Daniele Dell’Agnola e Massimo Bonini.

Sullo slancio del convegno sono poi nate altre iniziative intriganti. Dapprima una Guida ai classici della letteratura per l’infanzia, curata da Orazio Dotta e Antonella Castelli (Bibliomedia – Media e Ragazzi Ticino e Grigioni italiano) e pubblicata dalle Edizioni Centro didattico cantonale, che presenta un elenco imponente di titoli divisi in quattro sezioni: classici, nuovi classici, mitologia, fiabe e favole. Poi una mostra itinerante, composta di quasi 200 volumi, inaugurata nei giorni del Convegno alla biblioteca cantonale di Locarno e che attualmente sta facendo il giro del cantone. E ancora, alcune iniziative molto concrete che si stanno sviluppando in diversi istituti scolastici, compreso quello per la formazione degli insegnanti.

È a questo punto che i tre ideatori del convegno hanno spinto la pubblicazione del libro omonimo, edito nella collana Il laboratorio. Vi si trovano alcune domande fondamentali e qualche possibile risposta. Oltre a un articolato tentativo di definizione di cosa sia un classico per ragazzi (Pino Boero), i contributi si soffermano su una serie di buoni motivi per leggerli, pur con qualche distinzione: i classici sono un buon modello di lingua (Dario Corno), sono una piattaforma per il recupero della storia e delle culture (Walter Fochesato), veicolano modelli etici (Fabio Merlini), possono essere strumenti di legame generazionale e di identità (Renato Martinoni). Inoltre, un saggio esemplare è dedicato al dovere di scrivere e educare nel mercato editoriale del terzo millennio, con alcune critiche a tanta produzione effimera dei tempi nostri (Simone Fornara e Mario Gamba). Per finire con una sorta di riassunto “pedagogico” della questione (Adolfo Tomasini): perché mai… insomma?

In definitiva, si tratta di un libro utile, che fa riflettere. Un libro con l’anima.

M. d. C.

Parliamo di “classici”?

Col titolo «Crescere con i classici, con Collodi, Calvino e Rodari», il Corriere del Ticino ha pubblicato il 24 dicembre 2012, vigilia di Natale, una bella recensione di Silvia Demartini al volume «Il gatto ha ancora gli stivali?», edito recentemente dall’editore Dadò. Eccola.


Ci sono bambini e ragazzi di poche letture. Ci sono bambini e ragazzi che divorano Geronimo Stilton e i Diari di una schiappa, «eroi» (in senso lato) cartacei di questo tempo. Poi ci sono quelli – sempre di meno? – che possono ricondurre anche le parole dei classici al loro «lessico famigliare», a quell’eco privato di voci che un giorno risuonerà nella loro memoria adulta. Ma che cos’è un classico? Qual è il suo statuto? È ancora utile proporne la lettura alle nuove generazioni? Vale la pena di tentare la sfida contro il tempo e contro il mutare dei gusti e della lingua? E poi: ci sono classici di ieri e classici di oggi? Certo, perché tra Salgari e Calvino o Rodari c’è un abisso che l’etichetta «classico» non basta a colmare. Risposte a queste e ad altre domande si trovano nel volume Il gatto ha ancora gli stivali? Perché leggere i classici per ragazzi, oggi e domani  (Locarno, Dadò, 2013), a cura di Dario Corno, Simone Fornara e Adolfo Tomasini. Esito dell’omonimo Convegno del 28 agosto 2012, nato da un’idea dei curatori, il volume offre alcune luminose risposte e numerosissimi stimoli, e si configura, perciò, come un punto di partenza sia per coloro che si occupano di educazione (genitori, nonni, docenti), sia per tutti quei lettori appassionati nei cui ricordi Il gatto, Alice, Tom Sawyer e Piccole donne oscillano tra l’oblio e lo statuto imperituro di guide per la vita.

Dunque sì, parliamo di classici, e facciamolo a partire dai ricchi contributi degli autori (che comprendono, oltre ai curatori, Pino Boero, Walter Fochesato, Fabio Merlini, Renato Martinoni e Mario Gamba). Ciascun saggio è dedicato a un aspetto particolare: classici sospesi tra canone condiviso e canone personale dei «nostri» classici, classici – in particolare Pinocchio – come resistenti e non scontati modelli di lingua, classici come storie tra le cui pagine soffia il «vento della Storia», classici come deposito di memoria senza la quale il nostro «iper-presente smemorato» perde di sostanza, classici come legami o come strappi fra le generazioni, fino alla messa in discussione di certe scelte di comodo della letteratura odierna per l’infanzia e ad alcuni interrogativi fondamentali sulla proposta linguistico-culturale (dunque identitaria) della scuola nell’era «liquida» di web e smartphone.

Già, perché un testo classico spesso parla in modo piacevole, ma raramente in modo «facile»; e sognare, riflettere e imparare confrontandosi con le difficoltà ha un certo costo cognitivo. Un po’ come crescere. È uno sforzo che merita? Quest’opera fa capire che sì, merita, e la Guida ai classici della letteratura per l’infanzia (altro frutto del Convegno) offre un ulteriore strumento orientativo. La facilità, infatti, ogni tanto sacrosanta, non è un pregio assoluto, se si tratta di costruire conoscenze ed emozioni complesse, mentre è più stimolante l’«attrito delle giuste difficoltà», come lo definiva, nell’Ottocento, il linguista Graziadio Isaia Ascoli parlando di scuola. Proprio in virtù del ruolo chiave che possono svolgere, riflettere sui classici per ragazzi significa, insomma, «considerare il problema linguistico generale», ma anche i «bisogni pedagogici che descrivono in profondità il testo classico e i suoi irrinunciabili valori di contenuto», scrivono i curatori. Non solo, allora, parliamo di classici, ma conosciamoli. Magari cominciando dalla lettura di questo libro.

Il blog di Adolfo Tomasini, dove si parla di educazione e di scuola