C’è nell’aria, da un po’ di tempo in qua, una gran voglia di svizzeritudine e di ritorno alla bella politica. I giovani però, si dice, sono tiepidi al riguardo, non si interessano alle vicende del paese, non si recano alle urne, sono restii a partecipare ai riti della democrazia diretta. Politicamente parlando, sono ignoranti come buoi. Così bisogna istruirli e anche educarli: alla civica e alla cittadinanza. La recente decisione del Gran Consiglio di imporre l’insegnamento del Salmo svizzero a tutti i futuri cittadini durante la scuola dell’obbligo si iscrive in questa smania di patriottismo di ritorno. Insegnare l’inno ai giovani, è stato detto durante il lungo dibattito parlamentare, è un ulteriore stimolo per l’educazione civica dei giovani, un modo per trasmettere loro i valori elvetici. Me li immagino tanti adolescenti, già a disagio con gli endecasillabi de «L’infinito», quando s’imbatteranno in «di mia patria deh! Pietà / brilla, sol di verità». Si potrebbe immaginare di ancorare alla legge della scuola qualche altro simbolo, come lo stendardo rossocrociato in tutte le aule, la lettura della leggenda di Guglielmo Tell o un bell’alzabandiera, se non tutti i giorni almeno all’apertura dell’anno scolastico, osannato dalle quattro strofe del Salmo, ormai perfettamente imparate a memoria, e sostenute dal saluto benaugurante del sindaco.
In analogo ordine di idee, anche se con obiettivi più articolati, si colloca l’iniziativa «Educhiamo i giovani alla cittadinanza», che nel giro di una settimana ha raccolto ottomila firme e che, ne sono convinto, diverrà testo di legge in meno tempo di quel che si pensi. Così una nuova materia diverrà obbligatoria nelle scuole, dalla media in su, e dovrà essere insegnata per almeno due ore al mese, sottraendo il tempo necessario alle ore di storia (sic). Va da sé che anche questa disciplina sarà valutata con delle note, poiché, a mente dei promotori, senza nota non c’è studio: tanto per gonfiare ancor più la fallimentare pedagogia del bastone e della carota. L’intento è lodevole, sia chiaro, ma mi sa tanto che, oltre i buoni propositi, la maleducazione civica sopravvivrà, anche perché «sacco vuoto non sta in piedi».
Su Ticino Management dello scorso dicembre Pier Felice Barchi ha espresso un’interessante opinione sul concetto di svizzeritudine, «uno stato d’animo più che una dottrina politica». Scrive Barchi che «Coltivare la svizzeritudine significa chinarci su quei valori che vanno preservati a scanso di un inquinamento dei non valori (che possono essere riassunti nella mancanza di senso dello Stato e del rispetto della comunità e della solidarietà)», anche perché «La vita dello spirito in tutto il mondo si esprime grazie a una élite, mentre la politica non necessariamente si ispira alla cultura e all’etica»: che è poi quel che capita quando si scavalcano con disinvoltura le competenze e la cultura, elementi irrinunciabili per una democrazia sana, per sprofondare difilato nelle comode poltrone della politica. Una volta Norberto Bobbio ragionando, ben prima dell’invenzione del “porcellum”, sul possibile divario tra governanti e governati, ha osservato: «Se gli italiani siano migliori o peggiori della classe politica che li rappresenta, e li rappresenta perché essi stessi la scelgono, è una domanda cui è difficile dare una risposta. Ma non vedo come si possa scartare del tutto l’ipotesi che gli uni e l’altra si assomiglino come due gocce d’acqua». Non solo in Italia, ovvio.
Si dice che tutti gli allievi sono diversi. Eppure…
Da un po’ di anni sono diventati famosi i bimbi ad alto potenziale cognitivo, frugoletti che «hanno un quoziente intellettivo superiore a 130, un linguaggio fuori dal comune, una memoria da elefanti e a volte presentano una maturità di comprensione che li avvicina più agli adulti che non ai loro coetanei»: insomma dei genietti, dei Mozart o dei Gauss in pectore. Ne ha parlato ancora il 5 aprile questo giornale, secondo il quale questi ragazzetti potrebbero essere il 5% della popolazione, sette-ottocento solo nella scuola elementare. Sarà la nuova celebrità, sarà il fatto che se ne parla, ma sempre più spesso giungono a scuola genitori che chiedono la verifica del livello intellettivo del venerato pargolo, evocando indicatori saccheggiati da internet e chiedendo di intervenire celermente, perché il ritardo potrebbe arrecare danni insanabili. Federica Mormando, psichiatra citata nell’articolo del CdT, suggerisce di non «considerare unicamente i casi effettivi», testati e conclamati, ma di aiutare gli insegnanti a individuarli e, quindi, a «far capire loro che sono bambini diversi e in quanto tali hanno bisogni specifici. Quindi ci deve essere una differenza di approccio, anche didattico».
Ma come?! Non si è sempre detto che tutti i bambini sono diversi e che la scuola, attraverso la differenziazione, deve adeguare l’insegnamento? È sconcertante constatare ancor oggi come in gran parte delle aule scolastiche, dalla scuola elementare alla scuola media, spadroneggino metodi d’insegnamento ammuffiti, basati sulla (bella) lezione, sull’insegnante deus ex machina che parla e parla, su esercizi uguali per tutti. Così c’è sempre, giorno dopo giorno e inesorabilmente, chi s’annoia perché non capisce, e fallisce!, e chi è sopraffatto dal tedio perché è già avanti: nella più completa indifferenza alle differenze. Eppure sono almeno cent’anni che si sono messe a punto delle impostazioni pedagogiche che dovrebbero permettere a ognuno di avanzare secondo i propri ritmi e capacità.

Si deve allo psicologo russo Lev Vygotskij il concetto di «zona di sviluppo prossimale»: ridotta ai minimi termini, è quell’area della mente leggermente superiore a ciò che un alunno è in grado di fare da solo, ma che potrebbe riuscire a fare con l’aiuto dell’insegnante. Si deve a tanti maestri e pedagogisti dell’ultimo secolo la teorizzazione e l’applicazione pratica di questo principio, attraverso un’impostazione del lavoro scolastico basato sulla cooperazione e sui principi della cosiddetta scuola attiva. Come definirla? È naturalmente difficile riassumere la sterminata letteratura sul tema in poche righe. Se vogliamo, il punto di partenza è ancora quello aristotelico, secondo cui per imparare a fare una cosa che non si è in grado di fare bisogna farla… Per spiegare con un esempio: bisogna leggere per imparare a leggere. Toccherà all’insegnante avveduto proporre letture che si pongano un poco al di sopra delle capacità letterarie del momento, affinché l’allievo possa progredire secondo ciò che la natura e le sue esperienze gli hanno dato sin lì. Si può fare, e c’è chi lo fa, anteponendo la tenacia di insegnare alle note scolastiche e ai test reiterati: un approccio che conviene a tutti, a prescindere dal fatto che la natura e il mondo siano stati magnanimi o molto sparagnini. È un modo di organizzare l’insegnamento a tutto vantaggio dei polentoni, di chi è normalmente dotato e anche dei genietti: cioè dell’intero Paese, senza la necessità di inventare a ritmo continuo costose stampelle.
La storia nella scuola e la Svizzera nella storia
Se c’è una disciplina che è uscita con le ossa particolarmente rotte dalle riforme scolastiche del dopo ’68 questa è la storia. Ricordate il vecchio nozionismo da mettere alla gogna, quello con l’anno della rivoluzione francese e del patto del Grütli (troppo facile, dai!) o i nomi, in ordine di apparizione, dei sette re di Roma? Era una scuola-quiz, che attraverso l’insegnamento della storia contribuiva a plasmare l’appartenenza alla Patria e la sudditanza all’establishment – basti pensare all’eroe nazionale, quel Guglielmo Tell esibito come protagonista reale della nostra storia primitiva e rimesso sulla mensola delle leggende dallo svizzerissimo Max Frisch, guarda caso nel 1971. La contromossa fu l’importanza dell’imparare a imparare, a volte sul vuoto assoluto, che però non ha resistito a lungo, col risultato che la storia è pressoché sparita dalla scuola elementare, mentre nella scuola media è ricomparsa più o meno intatta, un po’ meno quiz, ma decisamente più complicata. Insegnare la storia è naturalmente molto difficile, e ancor più arduo è far nascere il necessario entusiasmo verso una disciplina che l’economia, grande ispiratrice della scuola di oggi, non cita mai quando detta le condizioni per formare i cittadini di domani. Così, assai spesso, ci si arrabatta in qualche modo per cercare di costruire competenze, che però sono insensate senza le tanto oltraggiate nozioni: ma va quasi sempre a finire che i test chiedano proprio solo quelle, così che, una volta superato l’esame, si può resettare il cervello.
È dunque con una certa trepidazione che, nei giorni scorsi, ho cominciato a sfogliare il primo volume del nuovo manuale di storia per le nostre scuole – «La Svizzera nella storia» – edito dal DECS e curato da un apposito gruppo di lavoro composto da esperti e insegnanti di storia, che è stato consegnato a tutti gli allievi di I e II media (il secondo volume, destinato agli allievi di III e IV, sarà distribuito l’anno prossimo). Il volume è molto interessante per diverse ragioni. Come si legge nell’introduzione, si è voluto «inserire pienamente la storia nazionale nel processo politico, economico, sociale e culturale dell’Europa e del mondo», così che «il manuale si orienta verso un altro tipo di impostazione: la Svizzera non come risultato di un caso isolato, ma punto di arrivo di una rete di relazioni che hanno condizionato e favorito determinate scelte al posto di altre». I contenuti sono coerenti con la dichiarazione di partenza e chiari nell’esposizione, con un ottimo equilibrio tra descrizioni, documenti, illustrazioni, fotografie, carte, voci di glossario, proposte di approfondimento, esercizi e corposi riferimenti alla nostra storia, che esce quindi dal Sonderfall per entrare nella storia dell’Europa.
Resta inteso che il manuale, da solo, non potrà fare miracoli. Esso è un po’ come uno spartito, che da solo non dice nulla. Toccherà alla scuola e ai suoi insegnanti dar vita a quelle note, a quei ritmi, ai piani e ai forti, ai lenti, agli andanti e agli allegro con fuoco: affinché la storia risuoni nelle menti e non resti impantanata nell’inutile prassi dei voti e delle medie. Imparare a storicizzare il presente non è sterile manierismo scolastico, ma conquista di libertà, soprattutto verso le tante lusinghe che generano a ritmi esasperati nuove generazioni di consumatori e di elettori sempre più sprovvisti di senso critico, siano essi autoctoni DOC o immigrati dell’ultima ora.
Il pavone cantonale fa la ruota con le penne dei Comuni
Ultimamente il nostro DECS ha preso il vezzo di pavoneggiarsi, ma le piume per far la ruota ce le devono mettere i comuni, sui quali si abbatteranno presto i costi per alcune misure a favore delle scuole elementari. Già da quest’anno tutto il servizio di sostegno pedagogico – nato proprio nei comuni grazie alla lungimiranza di alcuni direttori, che negli anni ’70 avevano saputo guardare oltre il proprio naso – è finito sotto le ali del Cantone, anche se, per il momento, di miglioramenti non se ne sono visti. È probabile che ancor prima di giugno arriveranno altre riforme strutturali che, nelle intenzioni, vorrebbero migliorare la qualità delle scuole comunali: diminuzione del tetto massimo di allievi per classe e aumento dei compiti dei direttori, con l’obiettivo di estendere questa figura a tutti gli istituti e a tempo pieno. Il ministro Bertoli ha inoltre promesso che arriverà anche l’aumento dei salari dei docenti.
Tutte queste misure sono dispendiose, mentre i margini decisionali dei comuni, ai quali toccherà una fetta consistente delle uscite, saranno ulteriormente sottoposti a rigorosa cura dimagrante. Come non dar ragione, date le circostanze, al municipale locarnese Giuseppe Cotti, che, in un’intervista rilasciata a Marco Bazzi su liberatv, ha proposto di abolire lo statuto di scuola comunale? Bertoli ha replicato, ma non ha convinto: «È vero che le competenze comunali sono limitate, anche se restano delle peculiarità molto importanti come la nomina dei docenti e la gestione delle infrastrutture». Urca! E ancora: «Confidiamo molto nel ruolo che giocano gli enti locali. Proprio per questo abbiamo proposto la generalizzazione della figura del direttore delle scuole elementari, che sarà a tutti gli effetti una figura comunale», senza però dire che le nuove mansioni dei direttori saranno semplicemente tolte agli ispettori, quegli ispettori già ridotti di numero una decina di anni fa, dopo aver convinto tanti comuni a dotarsi del direttore.
Passi per l’adeguamento dei salari e, con tante riserve, per il numero di allievi per classe. Ma, di grazia, qual è lo scopo di riversare sui direttori tanti attuali compiti degli ispettori, tenendo conto che, sino a oggi, nessuna legge obbliga i comuni ad averlo? Un paio di anni fa ero stato interpellato, assieme a due colleghi, dal gruppo operativo «Flussi e competenze» per esaminare la problematica delle scuole comunali dal punto di vista dei flussi finanziari tra Cantone e comuni e delle conseguenti competenze decisionali. Avevamo proposto una mezza rivoluzione copernicana, attraverso una politica sussidiaria che tenesse conto delle tante differenze da una scuola comunale all’altra. Ma non se ne fece nulla, anche se i comuni hanno dimostrato in tanti decenni di saper gestire bene le loro scuole, vivibili e di buona qualità.
Al di là di chi si assumerà i costi, resta l’amarezza di fronte all’interpretazione banale del senso delle pari opportunità. La solita indifferenza alle differenze – in questo caso tra comuni e relative cittadinanze socio-economicamente disuguali – porterà (forse) vantaggi ai comuni più ricchi: gli altri che s’arrangino. Perché una cosa è sicura: con una diversa politica sussidiaria da parte dello Stato e un reale grado di autonomia, i comuni sarebbero in grado di affrontare anche i tanti problemi nuovi generati da questi tempi rapidi e spesso confusi, al di là di ogni tentativo di omologazione.
Insegnare come si deve è più difficile che dare le note
Era ora. Ci son voluti più di dieci anni di critiche e di proteste affinché, per diventare docente di scuola media, fosse possibile ottenere l’abilitazione – vale a dire il bagaglio di conoscenze e competenze per saper insegnare – frequentando il Dipartimento Formazione e Apprendimento della SUPSI (DFA) e, nel contempo, svolgere un’attività lavorativa. Era dal 2002, con l’istituzione dell’Alta Scuola Pedagogica e tutto l’ambaradan di regole spesso incomprensibili, che per insegnare alla scuola media era necessario conseguire prima la laurea nella disciplina e poi – ma solo poi – il diploma di docente. Adesso tutto sembrerebbe rientrare nella logica. In dicembre il Consiglio di Stato ha sottoposto al Parlamento il messaggio per la modifica legislativa volta a introdurre la possibilità di svolgere l’abilitazione alla docenza in parallelo a una professione; e a metà gennaio la direzione del DFA ha presentato alla stampa il suo nuovo modello formativo, che dovrebbe entrare in funzione già nel settembre prossimo, a meno di un’improbabile melina da parte del Gran Consiglio.
Naturalmente non sarà questa modifica strutturale che, da sola, potrà risolvere i gravi problemi. Come forse si ricorderà, in questi dieci anni le critiche alla scuola magistrale (ASP, DFA) sono state pesanti, fino a far dire a più d’uno che agli insegnanti di scuola media si chiedeva «troppa pedagogia», sottintendendo la condanna senza appello di tutto ciò che dava corpo all’abilitazione: superflui cavilli psico-peda-socio-didattici, mentre in realtà è poi sufficiente «sapere le cose»… Eppure è sempre più urgente immettere nella scuola media insegnanti capaci e preparati, il che significa che, accanto all’irrinunciabile conoscenza della propria disciplina, non si può prescindere da un bagaglio di competenze professionali che trasformano il laureato in un insegnante preparato e, perché no?, avvincente.
La scuola media resta una scuola molto selettiva, di solito più propensa ad assegnare valutazioni che a insegnare: compito difficile quant’altri mai, soprattutto considerando che gli studenti sono adolescenti alle prese col male di crescere. Lo sanno bene allievi e genitori quale sia la trafila di test che scandisce il passare dei mesi e degli anni scolastici, un vero percorso a ostacoli inutile e costoso, che non educa e non dà solide competenze disciplinari: tanto che metà degli allievi, giunti al termine della scolarità obbligatoria, non potrà far altro che abbracciare un apprendistato, mentre l’altra metà avrà l’opportunità di frequentare la scuola media superiore, spesso facendosi bastonare durante il primo biennio. Una bella frustrazione.
Sarà quindi con curiosità e grande attenzione che seguiremo la qualità della formazione pedagogica e didattica che il DFA saprà trasmettere ai futuri insegnanti della scuola media, affinché anche quest’ultimo fondamentale segmento della scuola dell’obbligo si trasformi in un luogo protetto in cui ogni allievo acquisisca al suo massimo livello di potenzialità le discipline fondamentali – l’italiano e la matematica, ma anche la storia, le scienze, le arti, le lingue, … – e che, nel contempo e trasversalmente, impari a praticare le regole del nostro vivere civile, primariamente improntate sul diritto. Perché questa sarebbe la scuola di cui il Paese ha bisogno per educare alla cittadinanza: una scuola dove si impara con impegno e dove le regole della convivenza non sono un optional o, peggio, un tribunale permanente.