La nostra (ormai decrepita) Legge della scuola stabilisce che «L’istituto è l’unità scolastica in cui si organizzano la vita e il lavoro della comunità degli allievi e dei docenti, con il concorso di altri agenti educativi, segnatamente dei genitori, al fine di conseguire gli obiettivi specifici del proprio ordine o grado». Tra le tante tortuosità che costellano i novantanove articoli – naturalmente senza contare tutti i testi legislativi che discendono dalla Magna Charta – s’incontrano anche le norme sulla gestione di ogni singolo istituto, che sono una caterva: sotto le autorità scolastiche – dal Consiglio di Stato giù giù fino agli «Organi di promovimento, di coordinamento, di vigilanza e di organizzazione amministrativa» – si citano, nell’ordine, la direzione, il collegio dei docenti, l’assemblea degli allievi, l’assemblea dei genitori e il consiglio d’istituto. Non si può poi scordare che «Allo scopo di integrare la propria funzione educativa, la scuola si vale della collaborazione del mondo della cultura, dell’informazione e dell’economia». Il men che si possa dire è che l’intricata rete di poteri, effettivi o supposti, fa sì che alla fine ognuno si arrangia come può; nel frattempo tutti, ma proprio tutti, possono dire la loro o spararla grossa, col risultato che non si capisce più niente e tutto resta sempre più o meno com’è.
Da un po’ di tempo in qua si sprecano le soluzioni magiche per risolvere i gravi problemi in cui si dibatte la scuola, con particolare attenzione a quella dell’obbligo, vale a dire quella scuola che ogni allievo deve frequentare tra i sei e i quindici anni di età. La precisazione sulla perentorietà della frequenza non è questione di poco conto, dato che rappresenta una precisa scelta dello Stato, che vuole istruire ed educare i suoi cittadini, indipendentemente dal sesso, dal ceto, dalla razza, dalla religione, dalla nazionalità o dall’ideologia. Naturalmente non è sempre stato così; quando nacque la scuola pubblica e obbligatoria i problemi erano ben altri. Si pensi che la prima Legge della scuola ticinese, del 1804 e fatta di soli quattro articoli, decretava che «In ogni Comune vi sarà una scuola, ove s’insegnerà almeno leggere, e scrivere, ed i principj di aritmetica». Si noti l’avverbio, che introduce gli assi portanti della scuola. Ma il Gran Consiglio dell’epoca aveva da sciogliere un nodo mica da poco: «Tutti i Padri di famiglia, Tutori, e Curatori sono obbligati mandare i loro figlj, e minorenni alla scuola», con multe fino a dieci franchi per i renitenti all’istruzione dei pargoli, da versare «nella cassa de’ poveri del luogo, ove esiste la Scuola». A oltre duecento anni da quelle prime norme fondatrici dell’Istituzione scolastica, non ci si scandalizza nemmeno più se quasi la metà degli allievi esce dalla scuola media con licenze da far piangere e se una porzione significativa degli altri non ce la fa a superare il primo biennio del medio superiore. Eppure i costi non sono proprio bruscolini. Più volte ho sostenuto, in questa rubrica, che la pedagogia non la studia quasi più nessuno e che è diventata sempre più ignota anche a molti professionisti della scuola. Invece sarebbe tempo di tornare a riflettere sulle modalità, i metodi, le strutture e gli strumenti per raggiungere quel magnifico obiettivo che è l’educazione e l’istruzione del maggior numero possibile di futuri cittadini, mirando a risultati elevati per tutti. Si potrà continuare a lungo, soprattutto nei luoghi della politica, del DECS e della formazione degli insegnanti, a discutere di specializzazioni didattiche, di numero di allievi per classe, di educazioni specifiche (sessuale, religiosa, ambientale, emotiva, civica e chi più ne ha più ne metta), senza dimenticare mense e trasporti. Ma senza una fondamentale premessa comune che stabilisca quali sono le nostre scelte fondamentali non raggiungeremo lo straccio di un risultato: a quel punto tanto varrebbe riesumare la scuola del bel tempo che fu, così spesso citata a modello.
L’educazione è un atto d’amore, altro che bastoni e carote!
«Meglio il bastone o la carota nell’educazione dei giovani?» È la domanda, invero un po’ accademica, che finge di porsi l’editore Armando Dadò sul numero di aprile del suo mensile illustrato del Locarnese e valli (articolo peraltro ripreso dal GdP del 14 aprile). Fa finta di chiederselo, appunto. Perché Dadò la risposta l’ha bell’e pronta: meglio il bastone, in opposizione al lassismo che ha imperato e conquistato il mondo dell’educazione nell’ultimo quarantennio. Dico subito che convengo appieno sui danni di un certo permissivismo che ha preso piede nel mondo occidentale a partire dagli anni ’60, con il noto Dr. Spock a far da icona di riferimento. Aggiungo però che la pedagogia del bastone, evocata da Dadò, non ha consumato danni minori – e continua a farne. In altre parole, mi dà fastidio questo falso dibattito, così di moda e così in bianco e nero. Aut aut, come se non esistessero, nella teoria e nella pratica, strade migliori, ancorché certamente più difficili da percorrere. Tutta la storia della pedagogia e dell’educazione, che più nessuno studia, è lì a ripetere che vi sono vie migliori per educare. Pestalozzi, a Stans con gli orfani, non usava né bastone né carota. Cercava di educarli, nel senso più profondo del termine. Don Milani, coi suoi contadini di Barbiana, aveva impostato una scuola del riscatto, dove imparare, con l’impegno e il rigore necessari, era più importante che ottenere belle note. La storia della pedagogia è piena di esempi analoghi, da Don Bosco a Freinet a Korczak. Dadò se la prende con Maria Montessori. Scrive: «I progressisti innamorati della scuola Montessori sono inorriditi di fronte al revival di metodi che ritengono oppressivi e destinati ad allevare figli infelici». Cosa significhi questa frase così sibillina non si sa. O Dadò non conosce il lavoro di questa donna straordinaria, oppure si diverte a spargere fumo e menar fendenti sotto la cintura.
È vero che il permissivismo imperante ha creato un fracco di problemi. Ma non ha fatto tutto da solo: ci si son messi l’economia, un mondo sempre più formalizzato e politicamente (s)corretto, una gran confusione indotta dai mass media, sempre pronti a cavalcare la prima moda – citando lo «specialista» di turno, spesso contattato al volo telefonicamente, mentre si sta scrivendo il pezzo e si ha fretta di chiudere e passare ad altro. E poi, diciamola tutta: in alcune famiglie si potranno scegliere il bastone o la carota secondo i propri comodi, tanto, poi, il borsello e le conoscenze di papà sistemeranno tutto. Ci sono figli cresciuti ed educati secondo le convenienze del momento. Sono stati allievi e studenti mediocri. Poi, miracolo!, si sono sistemati benissimo nel loro ruolo di adulti. L’informazione sempre più puntuale ci sta mostrando una lunga catena di figli d’arte nella politica, nello sport, nello spettacolo. A parte il Trota bossiano, tanto per fare un esempio attuale, è recente la notizia che i figli dei Beatles vorrebbero mettersi insieme per dar vita a una nuova band: il successo è pressoché garantito. Naturalmente è tutto talento e lavoro duro. Gli illustri papà non c’entrano nulla, figurarsi. Altrettanto naturalmente, la mia allusione non si riferisce al Ticino, paese in cui il fenomeno, anche grazie ad abitudini politiche e culturali virtuose, non esiste. Di converso ci sono famiglie un po’ meno aristocratiche in cui il bastone o la carota rischieranno di produrre effetti analogamente perversi. Nel primo caso, il bastone perpetuerà l’uso della violenza senza sbocchi: padri e figli continueranno a menarsele di generazione e generazione, senza mai vedere l’uscita del tunnel, nella certezza che ciò possa servire al loro riscatto sociale ed economico. Nell’altro caso, altrettanto spiacevole, la carota darà vita a una stirpe di viziati, quelli del tutto e subito obbligatorio. Cioè a dire: per educare occorrono sogni e, nel contempo, idee chiare. L’educazione è un atto d’amore dei genitori verso i figli e di rispetto della società per i suoi cittadini: non una questione di dare e avere.
Ma la nostra scuola media è davvero unica?
Vi sono situazioni che sembrano addirittura normali, tanto sono entrate nella nostra quotidianità. Una di queste è la scuola media, unica solo a parole. Ormai ci siamo abituati alla sua ingombrante presenza. Lo sappiamo tutti: metà dei suoi allievi vi trascorreranno un po’ di anni a tirare avanti alla meglio, assuefacendosi al fatto di non essere all’altezza e di dover trovare qualcosa, attorno ai quindici anni, per risolvere cosa fare da grandi. Altri attenderanno il liceo, inconsapevoli che molti saranno presi a pesci in faccia sin dal primo giorno. A scuotere questa monotonia ci ha pensato un articolo apparso sul Corriere a inizio aprile, coi pensieri in libertà sul tema della scuola media pubblicati da Francesca Bordoni Brooks. La deputata del PPD in Gran Consiglio è partita da una legittima domanda, benché retorica: «Se la nostra scuola media unica è veramente un modello di successo, come mai nessuno l’ha copiato e perché ci ritroviamo messi male nel confronto PISA?». La domanda è lecita e assennata. È la risposta, piuttosto, che sconcerta. Secondo questo membro della Commissione scolastica del Gran Consiglio converrebbe «dividere questa scuola media unica (…) per passare a due scuole medie, una che porti al liceo e una che porti alle scuole professionali». Non c’è naturalmente nulla di originale in questa proposta, se non quella di aver avuto il coraggio di scriverla. Ora ci sarebbe bisogno di altrettanta audacia per portarla in Parlamento, così che, a quasi quarant’anni dall’istituzione della madre di tutte le riforme scolastiche, la Politica e il Paese dicano con chiarezza da che parte vogliamo andare.
Quando il Cantone si spaccò in due proprio sul tema della scuola che avrebbe dovuto sostituire il ginnasio (di cinque a anni, per chi voleva continuare gli studi) e la scuola maggiore (di tre anni, per tutti gli altri), Francesca Bordoni Brooks stava terminando le scuole elementari e si avviava spensierata al ginnasio. Proprio dal suo partito giunsero le contrarietà maggiori per l’istituzione di questo segmento fondamentale della scuola dell’obbligo, che in termini di democratizzazione degli studi era ineluttabile. L’errore dei partiti che avevano portato avanti con grande convinzione l’importante riforma fu certamente quello di accettare i famigerati livelli A e B del secondo biennio, ciò che acconsentì il voto favorevole dei deputati titubanti, divenuti impietoso ago della bilancia.
Sin dai primi anni della sua entrata in funzione, però, non si è mai assistito al tentativo di concretizzare i principi fondamentali di una scuola media unica per davvero, senza gli A e i B e i livelli e le medie e le discipline selettive e il liceo come misura di tutte le cose. Anzi. Il voto del Gran Consiglio del 1974 aveva segnato un momento molto importante sul piano delle pari opportunità, al quale non sono però seguiti i fatti. Come ogni scuola dell’obbligo che si rispetti, anche la scuola media dovrebbe potersi vantare di assicurare un elevato livello di riuscita alla maggior parte degli allievi, invece di bearsi nel mantenere in vita quel darwinismo educativo che può legittimarsi e continuare a esistere solo in virtù di un tasso significativo di selezione scolastica: sempre empirica e arbitraria, ma socialmente tutt’altro che fortuita. Come scrive la Bordoni Brooks «dobbiamo accettare l’idea che non siamo tutti uguali». Ci mancherebbe. Proprio per queste diversità, che assai spesso risiedono nei ritmi e stili di apprendimento e negli ambienti in cui si cresce e negli stimoli che si ricevono, lo scopo della scuola dell’obbligo è quello di intervenire sulle differenze di partenza, condividendo la tensione etica che i legislatori del ’74 avevano dovuto patteggiare con i mercanti del loro tempo. Si vada in Parlamento, dunque, e si riaprano i giochi con la necessaria schiettezza, per istituire finalmente una scuola media unica che miri all’uguaglianza dei risultati a un livello molto elevato. Dopo quarant’anni di ipocrisia si riuscirebbe forse a fare chiarezza.
L’UDC, l’economia e la formazione dei maestri
L’UDC svizzera ha rispolverato il vecchio adagio popolare secondo cui la pratica val più della grammatica. I suoi delegati, riuniti in quel di Ebnat-Kappel a fine marzo, hanno mosso guerra alle alte scuole pedagogiche, colpevoli di non riuscire «ad assicurare un ricambio sufficiente di docenti, né a preparare efficacemente i candidati insegnanti alla loro futura professione», soprattutto a causa di una «formazione eccessivamente universitaria». L’UDC-pensiero in materia è semplice, quasi banale: «La scuola primaria deve dotare gli allievi di attitudini e di conoscenze che permettano loro di seguire con successo una formazione professionale e d’assumersi in seguito la responsabilità della propria vita. L’UDC svizzera esige dunque una formazione degli insegnanti di scuola primaria più vicina alla pratica e una collaborazione più stretta fra la scuola e l’economia». Lasciamo perdere la tesi secondo cui la scuola elementare deve tendere a fornire manodopera all’economia: vi si intravede il progetto di una selezione molto precoce, così che quei tanti allievi che stentano, a nove o dieci anni, con l’italiano e l’aritmetica non si facciano venire troppi grilli per la testa e, finito il primo segmento della scuola dell’obbligo, si ficchino, rassegnati o meno, in qualche filiera che li porti, buoni e ubbidienti, a qualche onesto mestiere.
Credo a due concetti, in quest’ambito. Il primo è che la scuola dell’obbligo, istituita, organizzata e sorvegliata dallo Stato, ha il dovere di garantire a ogni bambino e ragazzo non solo le ormai antiquate «pari opportunità», ma anche di mirare all’uguaglianza dei risultati a un livello molto elevato: e sappiamo che vi sono sistemi scolastici che ci riescono. Il secondo è che per raggiungere questo obiettivo abbiamo bisogno di insegnanti di alto livello professionale, morale e umano: perché non si tratta solo di montare orologi o di installare rubinetti, bensì di educare Cittadini, compresi quelli che svolgeranno i lavori meno qualificati. Mal si comprende, tra l’altro, come mai l’UDC non si occupi anche dei docenti della scuola media: si vede che negli altri cantoni la scuola obbligatoria secondaria fila via liscia come l’olio.
Il difetto delle alte scuole pedagogiche non risiede tanto nel livello della formazione, bensì nei suoi contenuti, che assai spesso rispondono a complicati teoremi di psicologi, didattici e «scienziati dell’educazione» in genere, saltando invece a piè pari le realtà della scuola dell’obbligo, fatte di allievi e studenti in carne e ossa, con alle spalle le storie più disparate, a volte drammatiche, calate in contesti territoriali molto variegati e che vivono e crescono in famiglie che, di frequente, non sanno che pesci pigliare per far quadrare i conti a fine mese: in barba a quell’economia che l’UDC vorrebbe come partner privilegiato della scuola e della formazione (empirica!) dei maestri. Tra le tante debolezze ci sono poi delle scelte politiche che non per forza concorrono a chiarire le necessità della scuola dell’obbligo e i profili professionali dei suoi insegnanti. Dato per scontato che occorre conoscere le discipline che si insegnano – compreso il significato, vissuto e tangibile, del concetto di Diritto – ci si potrebbe chiedere quale sia il senso di dover ottenere il diploma di maturità per iscriversi alla magistrale. Siamo così convinti che per fare la maestra d’asilo o il maestro di scuola elementare (o, ancora, il prof di scuola media) sia necessario passare attraverso quelle forche caudine della selezione selvaggia che sono gli odierni licei di massa? È proprio vero che, per diventare un insegnante di elevato livello professionale, servano le snervanti trafile dei programmi di chimica, fisica, biologia, matematica, lingua due e tre del liceo, che peraltro generano un danno incalcolabile con il deprezzamento di tante materie umanistiche, italiano storia e filosofia in testa? Forse servirebbe un indirizzo di studi intermedi tra scuola per apprendisti e liceo: non solo per gli insegnanti, ma anche per tante professioni analoghe.
A che ci serve una scuola magistrale griffata?
Non c’è verso di venirne fuori. Puntuale come un orologio svizzero, ecco che si riparla del DFA, vale a dire il Dipartimento Formazione e Apprendimento della SUPSI, che neanche quindici anni fa si chiamava ancora Scuola magistrale – e tale rimane, al di là dei restyling semantici. L’ultima volta è successo in Gran Consiglio a metà marzo, quando si trattava di discutere il resoconto sul suo mandato di prestazione. Naturalmente da più d’uno schieramento politico sono giunte, fuori tempo massimo, nuove recriminazioni sulla decisione di consegnare la Magistrale alla SUPSI, con un mandato in bianco. Ma c’era poco da colorare, tre anni fa. Nel frattempo la SUPSI ha fatto quel che ha potuto, anche grazie alla nomina della direttrice sbagliata, che dopo poco più di un anno è stata gentilmente congedata. Tuttavia è inutile continuare a girare in tondo attorno alla direttrice e alla fretta che contraddistinse il passaggio di questa scuola da mamma DECS a una più disinteressata nutrice, tanto che Manuele Bertoli, direttore del DECS, a un certo punto del dibattito è sbottato: «Sarebbe improvvido ricominciare la discussione sulla scelta fatta nel 2009 di trasferire l’Alta scuola pedagogica sotto la SUPSI. Sostanzialmente, non credo che la collocazione dell’istituto sia il problema centrale. L’idea di fondo è corretta, perché la SUPSI è un istituto che prepara alla professione. Concentriamo quindi le energie sulla soluzione dei problemi»: sante e appropriate parole, che, c’è da sperarlo, metteranno la parola FINE a questo continuo girare attorno ai problemi veri, che sono molti e importanti. E vengono da lontano.
La vecchia Magistrale seminariale, che diplomava i suoi maestri a vent’anni, poteva essere un po’ in difficoltà verso la seconda metà degli anni ’70, dopo aver rifornito le scuole comunali di centinaia e centinaia di insegnanti. Anche grazie alla diffusione dei licei, il Parlamento decise di abbandonare quel modello e di passare a una scuola post-liceale, della durata di due anni: era il debutto della terziarizzazione. Nondimeno la Magistrale che nacque negli anni ’80, fors’anche a causa della grave disoccupazione che aveva colpito le scuole comunali, non ha saputo costruire un modello formativo collaudato e, soprattutto, efficace. Col suo travaso acritico nell’Alta Scuola Pedagogica, avvenuto giusto dieci anni fa, la frittata avrebbe raggiunto il culmine, grazie ai suoi orpelli caduti sull’istituto locarnese chissà da dove: dapprima il cosiddetto «Modello di Bologna», coi suoi diplomi anglofoni e i suoi organigrammi modulari; eppoi, praticamente in contemporanea, i dogmi della famigerata CDPE, ovverosia la Conferenza svizzera dei direttori cantonali della pubblica educazione. Nell’ultimo decennio i diktat della CDPE hanno rappresentato l’alibi di tanti mali della Magistrale. La Conferenza, infatti, è responsabile del riconoscimento dei diplomi a livello nazionale; se si vuole che la patente di maestro di scuola elementare – pardon, il Bachelor of Arts SUPSI in Insegnamento nella scuola elementare – possa essere impiegata, per dire, anche nell’Appenzello interno o nella Vallée de Joux, occorre sottostare alle sue regole. Forse, però, è giunto il momento di rinunciare al marchio CDPE senza troppi rancori, mettendolo nello stesso cassetto in cui è stata riposta la prima direttrice del DFA. Il divorzio potrebbe agevolare la nuova direzione della Magistrale, la cui nomina potrebbe essere imminente. C’è da ricostruire praticamente ex novo una scuola che si è persa nelle nebbie delle tecnocrazie didattiche imperanti e che, alle condizioni di oggi, non sarebbe in grado di fornire al nostro Cantone – figuriamoci agli altri – un numero sufficiente di insegnanti che dovrà sostituire sul breve termine l’esercito dei baby boomer, che si apprestano ad andare in pensione. Al posto di una scuola griffata, ci serve una scuola che sappia formare docenti preparati ed eticamente perfetti, in grado di educare, insegnare e (ritornare a) far cultura.