Vi sono situazioni che sembrano addirittura normali, tanto sono entrate nella nostra quotidianità. Una di queste è la scuola media, unica solo a parole. Ormai ci siamo abituati alla sua ingombrante presenza. Lo sappiamo tutti: metà dei suoi allievi vi trascorreranno un po’ di anni a tirare avanti alla meglio, assuefacendosi al fatto di non essere all’altezza e di dover trovare qualcosa, attorno ai quindici anni, per risolvere cosa fare da grandi. Altri attenderanno il liceo, inconsapevoli che molti saranno presi a pesci in faccia sin dal primo giorno. A scuotere questa monotonia ci ha pensato un articolo apparso sul Corriere a inizio aprile, coi pensieri in libertà sul tema della scuola media pubblicati da Francesca Bordoni Brooks. La deputata del PPD in Gran Consiglio è partita da una legittima domanda, benché retorica: «Se la nostra scuola media unica è veramente un modello di successo, come mai nessuno l’ha copiato e perché ci ritroviamo messi male nel confronto PISA?». La domanda è lecita e assennata. È la risposta, piuttosto, che sconcerta. Secondo questo membro della Commissione scolastica del Gran Consiglio converrebbe «dividere questa scuola media unica (…) per passare a due scuole medie, una che porti al liceo e una che porti alle scuole professionali». Non c’è naturalmente nulla di originale in questa proposta, se non quella di aver avuto il coraggio di scriverla. Ora ci sarebbe bisogno di altrettanta audacia per portarla in Parlamento, così che, a quasi quarant’anni dall’istituzione della madre di tutte le riforme scolastiche, la Politica e il Paese dicano con chiarezza da che parte vogliamo andare.
Quando il Cantone si spaccò in due proprio sul tema della scuola che avrebbe dovuto sostituire il ginnasio (di cinque a anni, per chi voleva continuare gli studi) e la scuola maggiore (di tre anni, per tutti gli altri), Francesca Bordoni Brooks stava terminando le scuole elementari e si avviava spensierata al ginnasio. Proprio dal suo partito giunsero le contrarietà maggiori per l’istituzione di questo segmento fondamentale della scuola dell’obbligo, che in termini di democratizzazione degli studi era ineluttabile. L’errore dei partiti che avevano portato avanti con grande convinzione l’importante riforma fu certamente quello di accettare i famigerati livelli A e B del secondo biennio, ciò che acconsentì il voto favorevole dei deputati titubanti, divenuti impietoso ago della bilancia.
Sin dai primi anni della sua entrata in funzione, però, non si è mai assistito al tentativo di concretizzare i principi fondamentali di una scuola media unica per davvero, senza gli A e i B e i livelli e le medie e le discipline selettive e il liceo come misura di tutte le cose. Anzi. Il voto del Gran Consiglio del 1974 aveva segnato un momento molto importante sul piano delle pari opportunità, al quale non sono però seguiti i fatti. Come ogni scuola dell’obbligo che si rispetti, anche la scuola media dovrebbe potersi vantare di assicurare un elevato livello di riuscita alla maggior parte degli allievi, invece di bearsi nel mantenere in vita quel darwinismo educativo che può legittimarsi e continuare a esistere solo in virtù di un tasso significativo di selezione scolastica: sempre empirica e arbitraria, ma socialmente tutt’altro che fortuita. Come scrive la Bordoni Brooks «dobbiamo accettare l’idea che non siamo tutti uguali». Ci mancherebbe. Proprio per queste diversità, che assai spesso risiedono nei ritmi e stili di apprendimento e negli ambienti in cui si cresce e negli stimoli che si ricevono, lo scopo della scuola dell’obbligo è quello di intervenire sulle differenze di partenza, condividendo la tensione etica che i legislatori del ’74 avevano dovuto patteggiare con i mercanti del loro tempo. Si vada in Parlamento, dunque, e si riaprano i giochi con la necessaria schiettezza, per istituire finalmente una scuola media unica che miri all’uguaglianza dei risultati a un livello molto elevato. Dopo quarant’anni di ipocrisia si riuscirebbe forse a fare chiarezza.
L’UDC, l’economia e la formazione dei maestri
L’UDC svizzera ha rispolverato il vecchio adagio popolare secondo cui la pratica val più della grammatica. I suoi delegati, riuniti in quel di Ebnat-Kappel a fine marzo, hanno mosso guerra alle alte scuole pedagogiche, colpevoli di non riuscire «ad assicurare un ricambio sufficiente di docenti, né a preparare efficacemente i candidati insegnanti alla loro futura professione», soprattutto a causa di una «formazione eccessivamente universitaria». L’UDC-pensiero in materia è semplice, quasi banale: «La scuola primaria deve dotare gli allievi di attitudini e di conoscenze che permettano loro di seguire con successo una formazione professionale e d’assumersi in seguito la responsabilità della propria vita. L’UDC svizzera esige dunque una formazione degli insegnanti di scuola primaria più vicina alla pratica e una collaborazione più stretta fra la scuola e l’economia». Lasciamo perdere la tesi secondo cui la scuola elementare deve tendere a fornire manodopera all’economia: vi si intravede il progetto di una selezione molto precoce, così che quei tanti allievi che stentano, a nove o dieci anni, con l’italiano e l’aritmetica non si facciano venire troppi grilli per la testa e, finito il primo segmento della scuola dell’obbligo, si ficchino, rassegnati o meno, in qualche filiera che li porti, buoni e ubbidienti, a qualche onesto mestiere.
Credo a due concetti, in quest’ambito. Il primo è che la scuola dell’obbligo, istituita, organizzata e sorvegliata dallo Stato, ha il dovere di garantire a ogni bambino e ragazzo non solo le ormai antiquate «pari opportunità», ma anche di mirare all’uguaglianza dei risultati a un livello molto elevato: e sappiamo che vi sono sistemi scolastici che ci riescono. Il secondo è che per raggiungere questo obiettivo abbiamo bisogno di insegnanti di alto livello professionale, morale e umano: perché non si tratta solo di montare orologi o di installare rubinetti, bensì di educare Cittadini, compresi quelli che svolgeranno i lavori meno qualificati. Mal si comprende, tra l’altro, come mai l’UDC non si occupi anche dei docenti della scuola media: si vede che negli altri cantoni la scuola obbligatoria secondaria fila via liscia come l’olio.
Il difetto delle alte scuole pedagogiche non risiede tanto nel livello della formazione, bensì nei suoi contenuti, che assai spesso rispondono a complicati teoremi di psicologi, didattici e «scienziati dell’educazione» in genere, saltando invece a piè pari le realtà della scuola dell’obbligo, fatte di allievi e studenti in carne e ossa, con alle spalle le storie più disparate, a volte drammatiche, calate in contesti territoriali molto variegati e che vivono e crescono in famiglie che, di frequente, non sanno che pesci pigliare per far quadrare i conti a fine mese: in barba a quell’economia che l’UDC vorrebbe come partner privilegiato della scuola e della formazione (empirica!) dei maestri. Tra le tante debolezze ci sono poi delle scelte politiche che non per forza concorrono a chiarire le necessità della scuola dell’obbligo e i profili professionali dei suoi insegnanti. Dato per scontato che occorre conoscere le discipline che si insegnano – compreso il significato, vissuto e tangibile, del concetto di Diritto – ci si potrebbe chiedere quale sia il senso di dover ottenere il diploma di maturità per iscriversi alla magistrale. Siamo così convinti che per fare la maestra d’asilo o il maestro di scuola elementare (o, ancora, il prof di scuola media) sia necessario passare attraverso quelle forche caudine della selezione selvaggia che sono gli odierni licei di massa? È proprio vero che, per diventare un insegnante di elevato livello professionale, servano le snervanti trafile dei programmi di chimica, fisica, biologia, matematica, lingua due e tre del liceo, che peraltro generano un danno incalcolabile con il deprezzamento di tante materie umanistiche, italiano storia e filosofia in testa? Forse servirebbe un indirizzo di studi intermedi tra scuola per apprendisti e liceo: non solo per gli insegnanti, ma anche per tante professioni analoghe.
A che ci serve una scuola magistrale griffata?
Non c’è verso di venirne fuori. Puntuale come un orologio svizzero, ecco che si riparla del DFA, vale a dire il Dipartimento Formazione e Apprendimento della SUPSI, che neanche quindici anni fa si chiamava ancora Scuola magistrale – e tale rimane, al di là dei restyling semantici. L’ultima volta è successo in Gran Consiglio a metà marzo, quando si trattava di discutere il resoconto sul suo mandato di prestazione. Naturalmente da più d’uno schieramento politico sono giunte, fuori tempo massimo, nuove recriminazioni sulla decisione di consegnare la Magistrale alla SUPSI, con un mandato in bianco. Ma c’era poco da colorare, tre anni fa. Nel frattempo la SUPSI ha fatto quel che ha potuto, anche grazie alla nomina della direttrice sbagliata, che dopo poco più di un anno è stata gentilmente congedata. Tuttavia è inutile continuare a girare in tondo attorno alla direttrice e alla fretta che contraddistinse il passaggio di questa scuola da mamma DECS a una più disinteressata nutrice, tanto che Manuele Bertoli, direttore del DECS, a un certo punto del dibattito è sbottato: «Sarebbe improvvido ricominciare la discussione sulla scelta fatta nel 2009 di trasferire l’Alta scuola pedagogica sotto la SUPSI. Sostanzialmente, non credo che la collocazione dell’istituto sia il problema centrale. L’idea di fondo è corretta, perché la SUPSI è un istituto che prepara alla professione. Concentriamo quindi le energie sulla soluzione dei problemi»: sante e appropriate parole, che, c’è da sperarlo, metteranno la parola FINE a questo continuo girare attorno ai problemi veri, che sono molti e importanti. E vengono da lontano.
La vecchia Magistrale seminariale, che diplomava i suoi maestri a vent’anni, poteva essere un po’ in difficoltà verso la seconda metà degli anni ’70, dopo aver rifornito le scuole comunali di centinaia e centinaia di insegnanti. Anche grazie alla diffusione dei licei, il Parlamento decise di abbandonare quel modello e di passare a una scuola post-liceale, della durata di due anni: era il debutto della terziarizzazione. Nondimeno la Magistrale che nacque negli anni ’80, fors’anche a causa della grave disoccupazione che aveva colpito le scuole comunali, non ha saputo costruire un modello formativo collaudato e, soprattutto, efficace. Col suo travaso acritico nell’Alta Scuola Pedagogica, avvenuto giusto dieci anni fa, la frittata avrebbe raggiunto il culmine, grazie ai suoi orpelli caduti sull’istituto locarnese chissà da dove: dapprima il cosiddetto «Modello di Bologna», coi suoi diplomi anglofoni e i suoi organigrammi modulari; eppoi, praticamente in contemporanea, i dogmi della famigerata CDPE, ovverosia la Conferenza svizzera dei direttori cantonali della pubblica educazione. Nell’ultimo decennio i diktat della CDPE hanno rappresentato l’alibi di tanti mali della Magistrale. La Conferenza, infatti, è responsabile del riconoscimento dei diplomi a livello nazionale; se si vuole che la patente di maestro di scuola elementare – pardon, il Bachelor of Arts SUPSI in Insegnamento nella scuola elementare – possa essere impiegata, per dire, anche nell’Appenzello interno o nella Vallée de Joux, occorre sottostare alle sue regole. Forse, però, è giunto il momento di rinunciare al marchio CDPE senza troppi rancori, mettendolo nello stesso cassetto in cui è stata riposta la prima direttrice del DFA. Il divorzio potrebbe agevolare la nuova direzione della Magistrale, la cui nomina potrebbe essere imminente. C’è da ricostruire praticamente ex novo una scuola che si è persa nelle nebbie delle tecnocrazie didattiche imperanti e che, alle condizioni di oggi, non sarebbe in grado di fornire al nostro Cantone – figuriamoci agli altri – un numero sufficiente di insegnanti che dovrà sostituire sul breve termine l’esercito dei baby boomer, che si apprestano ad andare in pensione. Al posto di una scuola griffata, ci serve una scuola che sappia formare docenti preparati ed eticamente perfetti, in grado di educare, insegnare e (ritornare a) far cultura.
Si fa in fretta a dire «educazione alla cittadinanza»
Malgrado tutto, ancor oggi c’è chi mette la scuola sul banco degli imputati per le lacune civiche della popolazione. Nel 2002 il Gran Consiglio modificò il regolamento della scuola media, introducendo un intero articolo dedicato all’insegnamento della civica e dell’educazione alla cittadinanza. Con questa innovazione legislativa si statuì che l’insegnamento dovesse avvenire in III e in IV media e fosse compreso, parzialmente, nel programma di storia e civica; poi l’organizzazione di alcune giornate o mezze giornate riservate a queste tematiche avrebbe fatto il resto. Son passati dieci anni, ma non sembra che la riforma abbia dato i frutti sperati. Se le elezioni comunali sono un buon termometro per palpare il polso al senso di appartenenza dei cittadini alla comunità politica, allora vien da dire che il problema non è stato risolto. È infatti noto che i partiti hanno incontrato difficoltà invalicabili a trovare candidati per le loro liste in vista delle vicine votazioni comunali, tanto che in un comune su quattro non si andrà a votare: elezioni tacite, il che non è un buon segnale e, soprattutto, non significa che l’armonia regni sovrana tra i cittadini.
Quattro anni fa andò a votare poco più della metà di chi ne aveva diritto. L’elezione dei nostri amministratori e legislatori, dunque, è un affare di pochi. Eppure gli eletti ci governeranno per quattro anni, e non è detto che non facciano danni che si allungheranno nel tempo – così come non si può mettere la mano sul fuoco che non si faranno gli affari propri. Ma allora, per tornare al nocciolo del discorso, come si educano e si avvicinano i cittadini alla civica e, così, anche alla politica? Esistesse una risposta sicura e oggettiva il problema non esisterebbe e il parlamento non avrebbe dovuto far finta di affrontarlo cambiando il regolamento della scuola media. I nostalgici evocano sovente «Frassineto», il noto libro dell’avvocato, giornalista e politico Brenno Bertoni, «Letture di educazione civica ad uso delle scuole maggiori e della 3ª ginnasiale», pubblicato la prima volta nel 1933. Quello, però, era un testo che descriveva e spiegava il funzionamento delle istituzioni, che era tutto sommato facile e logico verificare coi propri occhi (e, soprattutto, coi propri pensieri). Iniziava con un motto: «Formare il cittadino, facendo astrazione dell’uomo, è impossibile. Ma non è meno impossibile formare l’uomo senza formare il cittadino». Poi, attraverso esempi concreti, dispiegava la tela della Politica reale, col fondamento profondo che ricoprire una carica politica era un onore, ancor prima più che un onere.
Oggi si dice che l’ideologia è morta, che destra e sinistra sono concetti antiquati o, almeno, passati di moda. Sarà. Coerentemente la politica odierna ha inventato le liste senza intestazione e quelle civiche, come se non esistessero partiti e movimenti a sufficienza per fare una scelta assennata, magari turandosi qualche volta il naso. Così i nostri adolescenti coltivano altri interessi e snobbano la politica, col probabile timore che, vada come vada, non sarà possibile far qualcosa affinché mamma possa stare a casa con noi, al posto di sgobbare come un mulo dalle stelle alle stelle a fare un lavoro del cavolo, così da dare una mano a tirare le fine del mese. E contro l’aumento dei premi della cassa malati c’è poco da fare. E il figlio disoccupato non troverà un lavoro decoroso neanche promettendo al partito o all’amico fugace il tanto agognato voto personale. Nel frattempo il nostro adolescente leggerà magari i giornali e seguirà le nostre TV. Così davanti al teatrino quotidiano dei politici si allontanerà ancor più, nella convinzione che la possibilità di cambiare le cose sia affare dei soliti maneggioni, contro cui non val la pena scaldarsi gli animi. Eh sì, si fa in fretta a dire educazione civica.
Come sostituire i maestri col computer e spendere meno
Un caro amico, che vive da qualche anno negli USA, dopo aver letto la puntata del 1° febbraio di questa rubrica (Il tablet a scuola al posto dei libri?) mi ha segnalato un ampio servizio del New York Times dedicato proprio al tema dell’uso massiccio dell’informatica per insegnare nella scuola dell’obbligo. E ti pareva che il canto delle sirene non giungesse dalla patria dello zio Sam. Il prestigioso quotidiano della Grande Mela riferisce l’«esempio fulgido» dell’esperienza del distretto scolastico di Mooresville, nella Carolina del Nord (Mooresville’s Shining Example – It’s Not Just About the Laptops, nell’edizione del 12 febbraio). Tre anni fa quel distretto, 4’400 studenti, ha avviato un programma differenziato di insegnamento per gli allievi dal 4° al 12° grado, in pratica quasi tutta la scuola dell’obbligo. Nel 2011 la percentuale di promossi ha raggiunto il 91%, con un incremento in tre anni di quasi 11 punti. Insomma, una specie di miracolo che è stato possibile grazie ad alcune misure accompagnatorie, a cominciare da programmi informatici mirati per le diverse discipline di studio, che gli studenti seguono secondo le loro attitudini e i loro ritmi: il sogno di tutti gli insegnanti che sono tali. Non poteva mancare, nella patria del libero mercato e della concorrenza, una rilevante riduzione del corpo insegnante, con le «classi» passate dai 18 allievi dell’era tradizionale ai 30 dell’uovo di Colombo tecnologico, con il comprensibile taglio di 65 posti di lavoro, tra i quali 37 insegnanti. E poi vuoi mettere? «Chi ha ancora bisogno del mappamondo nell’era di Google Earth?» Ecco lì un altro segno di oculatezza. Sta di fatto che, dopo la cura da cavallo, la scuola di Mooresville è diventata una tra le più a buon mercato di tutti i distretti e, nel contempo, al secondo posto per numero di promossi. Anche da noi c’è chi sta facendo le sue pensate, come ha riferito La Regione del 17 febbraio, annunciando l’istituzione di un gruppo di lavoro sulle nuove tecnologie nell’insegnamento. «Se usati bene», scrive l’articolista, «i nuovi strumenti potrebbero permettere di personalizzare gli obiettivi d’apprendimento. Gli studenti più deboli, o quelli più forti, potrebbero così adattare lo studio al loro ritmo». Invece negli USA, paese pragmatico quant’altri mai, la trovata è già divenuta concretezza, coi risultati riportati dal NYT.
Per quanto mi riguarda, prediligo una scuola che persegua la formazione di teste ben fatte, per usare la felice espressione di Edgar Morin, piuttosto che quella, sempre più alla moda, che antepone le teste ben piene. In altre parole, preferisco di gran lunga la scuola con gli insegnanti in carne e ossa, pancia cuore e cervello, che quando va bene riescono pure a mettere la giusta passione in quel che insegnano e sanno fare educazione civica e cultura, confrontati con un gruppo di persone e non solo con gli sterili contenuti dei programmi scolastici. Credo che le moderne tecnologie possano configurarsi come strumenti didattici estremamente potenti ed efficaci, a condizione che siano subordinate alla pedagogia e non diventino esse stesse «La» pedagogia. Certo che se questa stravaganza pedagogica dovesse riuscire ad attecchire anche da noi – e, coi tempi che corrono, non vi sarebbe nulla di cui stupirsi – lo Stato risparmierebbe un bel po’ di soldoni e risolverebbe pure il problema della penuria di insegnanti di certe discipline, come la matematica, che ogni tanto viene insegnata da persone che conoscono la materia, ma che non hanno la minima idea di cosa significhi far scuola ed educare i futuri cittadini. Detto questo è pur necessario che tutti insieme ci diamo da fare per migliorare in fretta la qualità della nostra scuola, senza tanti se e ma. Sarebbe una sciagura culturale e civile se fossimo sostituiti dalle macchine e dalla cultura made in USA, ma continuare a tirar fuori i soliti alibi, alla ricerca snervante di presunti elementi strutturali inadeguati, non fa altro che gonfiare le mire dei liberisti e dei tecnocrati a oltranza.