L’UDC, l’economia e la formazione dei maestri

L’UDC svizzera ha rispolverato il vecchio adagio popolare secondo cui la pratica val più della grammatica. I suoi delegati, riuniti in quel di Ebnat-Kappel a fine marzo, hanno mosso guerra alle alte scuole pedagogiche, colpevoli di non riuscire «ad assicurare un ricambio sufficiente di docenti, né a preparare efficacemente i candidati insegnanti alla loro futura professione», soprattutto a causa di una «formazione eccessivamente universitaria». L’UDC-pensiero in materia è semplice, quasi banale: «La scuola primaria deve dotare gli allievi di attitudini e di conoscenze che permettano loro di seguire con successo una formazione professionale e d’assumersi in seguito la responsabilità della propria vita. L’UDC svizzera esige dunque una formazione degli insegnanti di scuola primaria più vicina alla pratica e una collaborazione più stretta fra la scuola e l’economia». Lasciamo perdere la tesi secondo cui la scuola elementare deve tendere a fornire manodopera all’economia: vi si intravede il progetto di una selezione molto precoce, così che quei tanti allievi che stentano, a nove o dieci anni, con l’italiano e l’aritmetica non si facciano venire troppi grilli per la testa e, finito il primo segmento della scuola dell’obbligo, si ficchino, rassegnati o meno, in qualche filiera che li porti, buoni e ubbidienti, a qualche onesto mestiere.

Credo a due concetti, in quest’ambito. Il primo è che la scuola dell’obbligo, istituita, organizzata e sorvegliata dallo Stato, ha il dovere di garantire a ogni bambino e ragazzo non solo le ormai antiquate «pari opportunità», ma anche di mirare all’uguaglianza dei risultati a un livello molto elevato: e sappiamo che vi sono sistemi scolastici che ci riescono. Il secondo è che per raggiungere questo obiettivo abbiamo bisogno di insegnanti di alto livello professionale, morale e umano: perché non si tratta solo di montare orologi o di installare rubinetti, bensì di educare Cittadini, compresi quelli che svolgeranno i lavori meno qualificati. Mal si comprende, tra l’altro, come mai l’UDC non si occupi anche dei docenti della scuola media: si vede che negli altri cantoni la scuola obbligatoria secondaria fila via liscia come l’olio.

Il difetto delle alte scuole pedagogiche non risiede tanto nel livello della formazione, bensì nei suoi contenuti, che assai spesso rispondono a complicati teoremi di psicologi, didattici e «scienziati dell’educazione» in genere, saltando invece a piè pari le realtà della scuola dell’obbligo, fatte di allievi e studenti in carne e ossa, con alle spalle le storie più disparate, a volte drammatiche, calate in contesti territoriali molto variegati e che vivono e crescono in famiglie che, di frequente, non sanno che pesci pigliare per far quadrare i conti a fine mese: in barba a quell’economia che l’UDC vorrebbe come partner privilegiato della scuola e della formazione (empirica!) dei maestri. Tra le tante debolezze ci sono poi delle scelte politiche che non per forza concorrono a chiarire le necessità della scuola dell’obbligo e i profili professionali dei suoi insegnanti. Dato per scontato che occorre conoscere le discipline che si insegnano – compreso il significato, vissuto e tangibile, del concetto di Diritto – ci si potrebbe chiedere quale sia il senso di dover ottenere il diploma di maturità per iscriversi alla magistrale. Siamo così convinti che per fare la maestra d’asilo o il maestro di scuola elementare (o, ancora, il prof di scuola media) sia necessario passare attraverso quelle forche caudine della selezione selvaggia che sono gli odierni licei di massa? È proprio vero che, per diventare un insegnante di elevato livello professionale, servano le snervanti trafile dei programmi di chimica, fisica, biologia, matematica, lingua due e tre del liceo, che peraltro generano un danno incalcolabile con il deprezzamento di tante materie umanistiche, italiano storia e filosofia in testa? Forse servirebbe un indirizzo di studi intermedi tra scuola per apprendisti e liceo: non solo per gli insegnanti, ma anche per tante professioni analoghe.

A che ci serve una scuola magistrale griffata?

Non c’è verso di venirne fuori. Puntuale come un orologio svizzero, ecco che si riparla del DFA, vale a dire il Dipartimento Formazione e Apprendimento della SUPSI, che neanche quindici anni fa si chiamava ancora Scuola magistrale – e tale rimane, al di là dei restyling semantici. L’ultima volta è successo in Gran Consiglio a metà marzo, quando si trattava di discutere il resoconto sul suo mandato di prestazione. Naturalmente da più d’uno schieramento politico sono giunte, fuori tempo massimo, nuove recriminazioni sulla decisione di consegnare la Magistrale alla SUPSI, con un mandato in bianco. Ma c’era poco da colorare, tre anni fa. Nel frattempo la SUPSI ha fatto quel che ha potuto, anche grazie alla nomina della direttrice sbagliata, che dopo poco più di un anno è stata gentilmente congedata. Tuttavia è inutile continuare a girare in tondo attorno alla direttrice e alla fretta che contraddistinse il passaggio di questa scuola da mamma DECS a una più disinteressata nutrice, tanto che Manuele Bertoli, direttore del DECS, a un certo punto del dibattito è sbottato: «Sarebbe improvvido ricominciare la discussione sulla scelta fatta nel 2009 di trasferire l’Alta scuola pedagogica sotto la SUPSI. Sostanzialmente, non credo che la collocazione dell’istituto sia il problema centrale. L’idea di fondo è corretta, perché la SUPSI è un istituto che prepara alla professione. Concentriamo quindi le energie sulla soluzione dei problemi»: sante e appropriate parole, che, c’è da sperarlo, metteranno la parola FINE a questo continuo girare attorno ai problemi veri, che sono molti e importanti. E vengono da lontano.
La vecchia Magistrale seminariale, che diplomava i suoi maestri a vent’anni, poteva essere un po’ in difficoltà verso la seconda metà degli anni ’70, dopo aver rifornito le scuole comunali di centinaia e centinaia di insegnanti. Anche grazie alla diffusione dei licei, il Parlamento decise di abbandonare quel modello e di passare a una scuola post-liceale, della durata di due anni: era il debutto della terziarizzazione. Nondimeno la Magistrale che nacque negli anni ’80, fors’anche a causa della grave disoccupazione che aveva colpito le scuole comunali, non ha saputo costruire un modello formativo collaudato e, soprattutto, efficace. Col suo travaso acritico nell’Alta Scuola Pedagogica, avvenuto giusto dieci anni fa, la frittata avrebbe raggiunto il culmine, grazie ai suoi orpelli caduti sull’istituto locarnese chissà da dove: dapprima il cosiddetto «Modello di Bologna», coi suoi diplomi anglofoni e i suoi organigrammi modulari; eppoi, praticamente in contemporanea, i dogmi della famigerata CDPE, ovverosia la Conferenza svizzera dei direttori cantonali della pubblica educazione. Nell’ultimo decennio i diktat della CDPE hanno rappresentato l’alibi di tanti mali della Magistrale. La Conferenza, infatti, è responsabile del riconoscimento dei diplomi a livello nazionale; se si vuole che la patente di maestro di scuola elementare – pardon, il Bachelor of Arts SUPSI in Insegnamento nella scuola elementare – possa essere impiegata, per dire, anche nell’Appenzello interno o nella Vallée de Joux, occorre sottostare alle sue regole. Forse, però, è giunto il momento di rinunciare al marchio CDPE senza troppi rancori, mettendolo nello stesso cassetto in cui è stata riposta la prima direttrice del DFA. Il divorzio potrebbe agevolare la nuova direzione della Magistrale, la cui nomina potrebbe essere imminente. C’è da ricostruire praticamente ex novo una scuola che si è persa nelle nebbie delle tecnocrazie didattiche imperanti e che, alle condizioni di oggi, non sarebbe in grado di fornire al nostro Cantone – figuriamoci agli altri – un numero sufficiente di insegnanti che dovrà sostituire sul breve termine l’esercito dei baby boomer, che si apprestano ad andare in pensione. Al posto di una scuola griffata, ci serve una scuola che sappia formare docenti preparati ed eticamente perfetti, in grado di educare, insegnare e (ritornare a) far cultura.

Si fa in fretta a dire «educazione alla cittadinanza»

Malgrado tutto, ancor oggi c’è chi mette la scuola sul banco degli imputati per le lacune civiche della popolazione. Nel 2002 il Gran Consiglio modificò il regolamento della scuola media, introducendo un intero articolo dedicato all’insegnamento della civica e dell’educazione alla cittadinanza. Con questa innovazione legislativa si statuì che l’insegnamento dovesse avvenire in III e in IV media e fosse compreso, parzialmente, nel programma di storia e civica; poi l’organizzazione di alcune giornate o mezze giornate riservate a queste tematiche avrebbe fatto il resto. Son passati dieci anni, ma non sembra che la riforma abbia dato i frutti sperati. Se le elezioni comunali sono un buon termometro per palpare il polso al senso di appartenenza dei cittadini alla comunità politica, allora vien da dire che il problema non è stato risolto. È infatti noto che i partiti hanno incontrato difficoltà invalicabili a trovare candidati per le loro liste in vista delle vicine votazioni comunali, tanto che in un comune su quattro non si andrà a votare: elezioni tacite, il che non è un buon segnale e, soprattutto, non significa che l’armonia regni sovrana tra i cittadini.
Quattro anni fa andò a votare poco più della metà di chi ne aveva diritto. L’elezione dei nostri amministratori e legislatori, dunque, è un affare di pochi. Eppure gli eletti ci governeranno per quattro anni, e non è detto che non facciano danni che si allungheranno nel tempo – così come non si può mettere la mano sul fuoco che non si faranno gli affari propri. Ma allora, per tornare al nocciolo del discorso, come si educano e si avvicinano i cittadini alla civica e, così, anche alla politica? Esistesse una risposta sicura e oggettiva il problema non esisterebbe e il parlamento non avrebbe dovuto far finta di affrontarlo cambiando il regolamento della scuola media. I nostalgici evocano sovente «Frassineto», il noto libro dell’avvocato, giornalista e politico Brenno Bertoni, «Letture di educazione civica ad uso delle scuole maggiori e della 3ª ginnasiale», pubblicato la prima volta nel 1933. Quello, però, era un testo che descriveva e spiegava il funzionamento delle istituzioni, che era tutto sommato facile e logico verificare coi propri occhi (e, soprattutto, coi propri pensieri). Iniziava con un motto: «Formare il cittadino, facendo astrazione dell’uomo, è impossibile. Ma non è meno impossibile formare l’uomo senza formare il cittadino». Poi, attraverso esempi concreti, dispiegava la tela della Politica reale, col fondamento profondo che ricoprire una carica politica era un onore, ancor prima più che un onere.
Oggi si dice che l’ideologia è morta, che destra e sinistra sono concetti antiquati o, almeno, passati di moda. Sarà. Coerentemente la politica odierna ha inventato le liste senza intestazione e quelle civiche, come se non esistessero partiti e movimenti a sufficienza per fare una scelta assennata, magari turandosi qualche volta il naso. Così i nostri adolescenti coltivano altri interessi e snobbano la politica, col probabile timore che, vada come vada, non sarà possibile far qualcosa affinché mamma possa stare a casa con noi, al posto di sgobbare come un mulo dalle stelle alle stelle a fare un lavoro del cavolo, così da dare una mano a tirare le fine del mese. E contro l’aumento dei premi della cassa malati c’è poco da fare. E il figlio disoccupato non troverà un lavoro decoroso neanche promettendo al partito o all’amico fugace il tanto agognato voto personale. Nel frattempo il nostro adolescente leggerà magari i giornali e seguirà le nostre TV. Così davanti al teatrino quotidiano dei politici si allontanerà ancor più, nella convinzione che la possibilità di cambiare le cose sia affare dei soliti maneggioni, contro cui non val la pena scaldarsi gli animi. Eh sì, si fa in fretta a dire educazione civica.

Come sostituire i maestri col computer e spendere meno

Un caro amico, che vive da qualche anno negli USA, dopo aver letto la puntata del 1° febbraio di questa rubrica (Il tablet a scuola al posto dei libri?) mi ha segnalato un ampio servizio del New York Times dedicato proprio al tema dell’uso massiccio dell’informatica per insegnare nella scuola dell’obbligo. E ti pareva che il canto delle sirene non giungesse dalla patria dello zio Sam. Il prestigioso quotidiano della Grande Mela riferisce l’«esempio fulgido» dell’esperienza del distretto scolastico di Mooresville, nella Carolina del Nord (Mooresville’s Shining Example – It’s Not Just About the Laptops, nell’edizione del 12 febbraio). Tre anni fa quel distretto, 4’400 studenti, ha avviato un programma differenziato di insegnamento per gli allievi dal 4° al 12° grado, in pratica quasi tutta la scuola dell’obbligo. Nel 2011 la percentuale di promossi ha raggiunto il 91%, con un incremento in tre anni di quasi 11 punti. Insomma, una specie di miracolo che è stato possibile grazie ad alcune misure accompagnatorie, a cominciare da programmi informatici mirati per le diverse discipline di studio, che gli studenti seguono secondo le loro attitudini e i loro ritmi: il sogno di tutti gli insegnanti che sono tali. Non poteva mancare, nella patria del libero mercato e della concorrenza, una rilevante riduzione del corpo insegnante, con le «classi» passate dai 18 allievi dell’era tradizionale ai 30 dell’uovo di Colombo tecnologico, con il comprensibile taglio di 65 posti di lavoro, tra i quali 37 insegnanti. E poi vuoi mettere? «Chi ha ancora bisogno del mappamondo nell’era di Google Earth?» Ecco lì un altro segno di oculatezza. Sta di fatto che, dopo la cura da cavallo, la scuola di Mooresville è diventata una tra le più a buon mercato di tutti i distretti e, nel contempo, al secondo posto per numero di promossi. Anche da noi c’è chi sta facendo le sue pensate, come ha riferito La Regione del 17 febbraio, annunciando l’istituzione di un gruppo di lavoro sulle nuove tecnologie nell’insegnamento. «Se usati bene», scrive l’articolista, «i nuovi strumenti potrebbero permettere di personalizzare gli obiettivi d’apprendimento. Gli studenti più deboli, o quelli più forti, potrebbero così adattare lo studio al loro ritmo». Invece negli USA, paese pragmatico quant’altri mai, la trovata è già divenuta concretezza, coi risultati riportati dal NYT.
Per quanto mi riguarda, prediligo una scuola che persegua la formazione di teste ben fatte, per usare la felice espressione di Edgar Morin, piuttosto che quella, sempre più alla moda, che antepone le teste ben piene. In altre parole, preferisco di gran lunga la scuola con gli insegnanti in carne e ossa, pancia cuore e cervello, che quando va bene riescono pure a mettere la giusta passione in quel che insegnano e sanno fare educazione civica e cultura, confrontati con un gruppo di persone e non solo con gli sterili contenuti dei programmi scolastici. Credo che le moderne tecnologie possano configurarsi come strumenti didattici estremamente potenti ed efficaci, a condizione che siano subordinate alla pedagogia e non diventino esse stesse «La» pedagogia. Certo che se questa stravaganza pedagogica dovesse riuscire ad attecchire anche da noi – e, coi tempi che corrono, non vi sarebbe nulla di cui stupirsi – lo Stato risparmierebbe un bel po’ di soldoni e risolverebbe pure il problema della penuria di insegnanti di certe discipline, come la matematica, che ogni tanto viene insegnata da persone che conoscono la materia, ma che non hanno la minima idea di cosa significhi far scuola ed educare i futuri cittadini. Detto questo è pur necessario che tutti insieme ci diamo da fare per migliorare in fretta la qualità della nostra scuola, senza tanti se e ma. Sarebbe una sciagura culturale e civile se fossimo sostituiti dalle macchine e dalla cultura made in USA, ma continuare a tirar fuori i soliti alibi, alla ricerca snervante di presunti elementi strutturali inadeguati, non fa altro che gonfiare le mire dei liberisti e dei tecnocrati a oltranza.

La scuola e quella smisurata voglia di misurare tutto

Viviamo un’epoca che chiama a gran voce le misure. Tutto dev’essere misurato, soppesato, monetizzato. Tutto dev’essere utile. Sarà per questo che talune discipline che una volta qualificavano la scuola, come la poesia, la storia o la filosofia, oggi non sono più così di moda: si possono valutare solo in parte, perché è difficile quantificare le conoscenze degli allievi e degli studenti a questo livello. Oltre a ciò sono materie poco spendibili e che non riempiono il borsello, a meno che uno, da grande, non abbia in testa di fare il poeta, il filosofo o il professore di storia. Ma è di per sé frustrante, o per lo meno sospetto, che un ragazzino o un adolescente scelga di fare un lavoro così inutile. A scuola, si sa, per misurare si usano le note. Nella scuola dell’obbligo esse vanno dal 3 al 6 e il 4 rappresenta la sufficienza. Quand’ero un ragazzino, dei libretti pieni di 4 si diceva ch’erano costellati di sedie, forma elegante per dire che valevano poco. Ma quella era una scuola che si limitava a mettere in fila gli allievi dal più al meno bravo. C’erano i maestri larghi di manica e quelli più tirchi. Capitava che se prendevi un 5 in qualche disciplina poco amata, a casa ti chiedevano le note dei tuoi compagni: il tuo 5 valeva 5 solo se i tuoi compagni avevano preso 3½ o 4, neanche il tuo 5 fosse La Gioconda.
Negli anni ’70 si cominciò a riflettere su questi meccanismi iniqui. La scuola media, ad esempio, debuttò senza la nota di condotta e senza i mezzi punti, che furono però reintrodotti già nei primi anni ’80. Dal canto suo la scuola elementare mantenne le note a fine anno e introdusse il «Libretto delle comunicazioni ai genitori», che compariva in dicembre e verso aprile. Questo documento, voluto in prima istanza proprio dagli insegnanti, intendeva mettere in primo piano cosa l’allievo aveva imparato e quali erano stati i suoi progressi. Consci dell’importanza della collaborazione dei genitori, la scelta era stata quella di instaurare un dialogo formale tra i due principali poli educanti: scuola e famiglia, appunto. Quel libretto ha resistito per oltre un trentennio, anche se, nel parlare comune, fu ribattezzato abbastanza in fretta «Libretto dei giudizi»: insomma, sembra che la scuola non riesca ad assolvere il suo mandato, che è quello di istruire e di collaborare a educare, se non può sputar sentenze ed emettere giudizi a volte impietosi, altre servili.
Il mese scorso tutti i genitori degli allievi di scuola elementare sono stati invitati dall’insegnante a un colloquio obbligatorio, durante il quale è pure stato consegnato il nuovo «Libretto delle comunicazioni ai genitori», generalizzato quest’anno dopo tre o quattro anni di atti preparatori, fasi sperimentali, corsi di formazione. Un passo avanti? C’è da dubitarne. Oltre alla denominazione, è rimasta una stringata descrizione del livello raggiunto in ogni disciplina. Di nuovo c’è l’incontro coatto con le famiglie a metà anno, nonché una valutazione, già a partire dalla 2ª elementare, che al posto delle note usa i soliti aggettivi raffermi: buono, discreto, sufficiente… In fin dei conti un passo indietro, anche se l’idea era quella di farne un paio in avanti, magari con l’intenzione di riuscire a instaurare una comunicazione trasparente, di cui il genitore potesse farne qualcosa, oltre che prenderne atto. Però è quel che il collegio degli ispettori e un gran numero di direttori hanno voluto a tutti i costi. Gian Piero Bianchi, ispettore oggi in pensione, si era opposto a questa riformetta; ha detto di recente a laRegione: «Come si può dare una nota all’amore per la lettura?». Domanda tutt’altro che retorica, anche perché si sono reintrodotte a metà anno le tanto criticate note, cha sono la fiera della soggettività, ma non si è ancora avuta l’ingegnosità di definire cosa sa un allievo che intasca un «Molto buono» in italiano, rispetto a quello reputato solo «Buono». In attesa che qualcuno dica cosa è obbligatorio sapere, la valutazione resta insufficiente.

Dai margini dell’aula: esperienza, pensiero critico e qualche nota fuori dal coro