Il tablet a scuola al posto dei libri? No, grazie!

Francesco Profumo, ministro dell’Istruzione del nuovo governo italiano di Mario Monti, ha fatto un sogno. Il peggio è che sta pure cercando di coronarlo e ha già dato il via, tra le altre cose, a gare d’appalto riguardanti l’editoria digitale scolastica. Ne hanno riferito i quotidiani italiani a fine dicembre; ad esempio «la Repubblica»: «Al posto dei libri di testo, un’unica tavoletta elettronica per contenere le migliaia di pagine dei volumi che accompagnano gli studenti nell’arco della carriera. E che oltre il contenuto, hanno anche un peso importante, in chilogrammi, sorretto da zaini sempre più rinforzati. Un fardello che dalle scuole raccontate da Collodi e De Amicis è diventato sempre più grande, e che finalmente la tecnologia può contribuire ad alleviare. Aumentando nello stesso tempo la quantità di informazioni disponibili a chi studia». Eccetera. Il linguista Raffaele Simone ha commentato sarcasticamente la novità, sul medesimo quotidiano del 12 gennaio: «Prima di fare una mossa simile è cruciale domandarsi che cosa comporta l’introduzione massiccia della cultura digitale nella scuola: la cultura digitale è uno dei più temibili moventi di interruzione della concentrazione che si siano mai presentati nella storia, e si sa quanto la concentrazione sia cruciale nell’apprendimento». Verità sacrosanta. Be’, Profumo non dirige il nostro DECS, ma forse è opportuno parlarne, prima che qualcuno faccia sogni bizzarri.
Se c’è una patologia che tormenta la scuola di oggi è la sua incapacità, ormai cronica, di rintracciare e di scegliere, nel caos iperbolico delle conoscenze odierne, gli elementi essenziali e fondamentali per educare i cittadini di domani. I risultati, vero specchietto per quelle allodole che credono ancora nel falso mito del sapere di tutto, sono sotto gli occhi di ognuno. Dalla scuola elementare al liceo è una continua rincorsa al falso sapere e all’apparentemente infinito aumento delle nozioni da imparare. Così troviamo già oggi medici ignoranti come buoi e avvocati che non sanno scrivere in un italiano decente, anche se fino a non molti anni fa medici e avvocati erano professionisti notoriamente colti. Chi ha figli alla scuola media o al liceo, e magari si interessa almeno un po’ ai loro percorsi scolastici, sa di cosa parlo: tra test a mitraglia e un nugolo di discipline che selezionano, i nostri figli studiano magari anche molto e con grande impegno, ma passato il momento delle note dimenticano tutto. Raramente sono in grado di trasformare le nozioni in competenze, trovando parallelismi tra una scienza e l’altra e sviluppando argomentazioni attraverso apporti disciplinari differenti. Ancor più di rado riescono ad assaporare il piacere di leggere un libro da cima a fondo: per oggettiva mancanza di tempo. Poi ci sono le «ricerche» personali: si sbatte un termine in Wikipedia, si trova ciò che potrebbe fare al caso proprio e via, copia e incolla, magari senza nemmeno leggere, se non di traverso, ciò che si è deciso di includere in un lavoro «personale». Ho un amico, oggi quasi settantenne, che è una persona colta. Con lui si discute con piacere, passando dalla biologia alla letteratura, dalla matematica alla storia, dalla musica alla filosofia. Non è un barboso professore di letteratura in pensione: per tanti anni è stato uno scienziato di punta nel campo della ricerca endocrinologica. Naturalmente ne conosco altri come lui, più o meno suoi coetanei. Prima dell’università hanno frequentato una scuola che operava delle scelte ed era persuasa che saperi scientifici e saperi letterari potevano convergere verso un unico grande obiettivo: educare persone consapevoli, in grado di essere padrone del proprio futuro con scelte assennate, poggiate su un contesto culturale solido. Insomma: una scuola umanistica. Il giorno in cui i tablet sostituiranno la carta dei libri e dei quaderni, l’incapacità della scuola avrà raggiunto il suo culmine. Una scuola seria è quella che è in grado di scegliere, con gran senso di responsabilità, cosa è importante imparare per davvero.

Serve una rivoluzione contro l’analfabetismo del pensiero

La nostra scuola si appresta a vivere molti cambiamenti in quest’anno appena iniziato. Per restare alle trasformazioni più appariscenti, sarà l’anno di HarmoS, che entrerà nel vivo a partire da settembre. Poi vi sarà il passaggio al Cantone dei docenti di sostegno pedagogico delle scuole comunali, ciò che dovrebbe pure comportare un potenziamento del servizio. Sul breve termine scadrà il concorso per l’assunzione del nuovo direttore del DFA, al quale spetterà il non facile compito di rasserenare l’ambiente e, soprattutto e finalmente, di dar vita a curricoli di formazione e di abilitazione degli insegnanti coerenti con gli obiettivi della casa madre – la SUPSI – e rispettosi delle attese del Paese. Restano poi nell’aria le tante proposte di riforma nella scuola dell’obbligo, contenute in due distinte iniziative popolari che hanno ottenuto migliaia di consensi: classi meno affollate, più sostegno pedagogico, più mense e doposcuola. L’enorme cantiere, a sentire i progettisti, dovrebbe servire a una migliore formazione dei nostri ragazzi e dei nostri giovani. La prova del nove seguirà tra un paio di decenni. Però non si è ancora entrati nel vivo del significato della «migliore formazione», che continua a essere un coacervo di inespresse visioni tanto o poco soggettive.
Oltre quarant’anni fa, in quell’epoca di confine tra un prima e un dopo, circolava uno slogan, che alcuni attribuivano a Ernesto Guevara: «El niño que no estudia no es buen revolucionario». Oddio, per dirla tutta questo motto non era tra i più gettonati, a favore di altri meno impegnativi. A me, che non sono comunista né lo sono mai stato, quella frase piace sempre più. Innanzitutto credo davvero che una rivoluzione, dentro tante aule scolastiche, sia auspicabile. Urge fornire i cittadini di domani e dopodomani degli strumenti per leggere il mondo: sono strumenti complicati, formati da tante competenze e nozioni che bisogna essere in grado di mettere in relazione tra loro. Si tratta di attitudini difficili da valutare nel loro complesso, ma sicuramente più vantaggiose per gli individui e per la società intera. Perché le famose «teste ben fatte» rappresentano l’ineludibile piedistallo sul quale erigere la libertà individuale, l’unico autentico cane da guardia della democrazia. Dovremmo riuscire al più presto a lasciarci alle spalle quella scuola che si vorrebbe immediatamente spendibile, a favore di un luogo di educazione a tutto campo, in cui la lingua italiana, la riflessione e la cultura tornino a essere al centro dell’azione della scuola, dei suoi istituti e dei suoi insegnanti. Una testa ben fatta, ad esempio, permette di difendersi dall’incretinimento televisivo, aiuta a intuire che non vale la pena indebitarsi per acquistare il SUV in leasing, scoraggia l’abituale sbornia del sabato sera, agevola il progetto della propria vita e consente di educare i figli consapevolmente. Con una testa così si prendono addirittura meno rischi quando si va a votare: perché è più difficile turlupinare il cittadino che, avendo imparato a riflettere sin dal suo accesso a scuola, continuerà a studiare perché c’ha preso gusto. Ho letto in questi giorni un bel libro di Valerio Varesi, «La sentenza». Ne cito un passaggio esemplare: «Dopo Ilio prese la parola Vampa, (…) e già dalle prime frasi apparve chiaro che avrebbe perso il confronto agli occhi della giuria partigiana. Il commissario politico aveva parlato con linguaggio semplice, ma efficace, mentre Vampa s’inceppava, stentava, bisticciava con le frasi e si vedeva che pensava in dialetto tentando di tradurre in italiano. Jim capì che si trattava di un processo squilibrato e che anche lì, tra i comunisti, c’erano le differenze di classe che Ilio a parole avrebbe voluto annullare. Sui venti partigiani quasi analfabeti l’eloquenza del commissario politico l’avrebbe avuta vinta comunque». L’analfabetismo di oggi non è più solo una questione di ignoranza del leggere e dello scrivere: c’è un analfabetismo del pensiero da affrontare in fretta.

L’autorevolezza è una virtù da guadagnarsi

In principio fu il dottor Spock. Il pediatra statunitense divenne famoso in Europa verso la fine degli anni ’60 come il teorico del permissivismo nell’educazione dei bambini sin dalla nascita. Il sessantotto contribuì in modo importante alla diffusione delle sue teorie in materia di educazione, se solo si pensa al ruolo che ebbe la scuola in quegli anni che chiedevano a gran voce ampie riforme; ed è certo che la voglia di «immaginazione al potere» ha accelerato la diffusione delle sue idee libertarie in tema educativo. Ho frequentato la Magistrale a quell’epoca e non posso sicuramente scordare quali fossero i chiodi fissi della formazione professionale, con accostamenti spesso sufficientemente confusi. In ogni modo è in quegli anni che nasce la disputa, invero un po’ strumentale e ambigua, tra autorità e autorevolezza, tra autoritarismo e permissivismo. La natura del dibattito mi è tornata in mente leggendo un articolo del prof. Filippo Ciceri, insegnante di scuola media, apparso sul Corriere del 10 dicembre. Argomentando attorno alla contrapposizione tra autorevolezza e autoritarismo dell’insegnante, che secondo l’autore è poco più di uno slogan, una forzatura o una fregatura, Ciceri scrive che «Ogni insegnante, in quanto tale, non solo merita ma necessita che gli sia riconosciuta, di base, la giusta autorità». Il problema di oggi – e in ciò come non dare ragione al prof. Ciceri? – è che su tali concetti si fonda, spesso in maniera del tutto confusa, la formazione pedagogica dei futuri insegnanti.
L’autorevolezza del docente, in effetti, poggia le basi su due elementi distinti ma altrettanto fondamentali. Il primo è rappresentato dalla padronanza delle conoscenze e delle competenze che si insegnano. Per banale che sia, non si può, poniamo, insegnare la storia senza conoscerla a menadito. Il secondo elemento, non meno importante del primo, è dato dalla professionalità specifica dell’insegnante, che non può limitarsi a essere «uno che sa le cose». Insegnare è sempre stato un mestiere difficile, costantemente in bilico, come diceva Piaget, tra arte e scienza. Sicuramente è necessaria una certa dose di predisposizione (una volta la si chiamava vocazione), che da sola, tuttavia, non basta. Il riconoscimento sociale e politico della «giusta autorità» dell’insegnante non si ottiene per grazia divina o per decreto legislativo. È però ora e tempo che il nostro Stato si liberi di una legge della scuola incartapecorita (di cui ho scritto il 10 ottobre dell’anno scorso) e che si doti di una Magna Charta al passo coi tempi, rispettosa delle necessità odierne e che chiarisca diritti e doveri di ogni componente della scuola. Ma è altrettanto urgente che l’istituto che abilita gli insegnanti contribuisca concretamente a formare docenti con una professionalità ai limiti dell’eccellenza, basata – nell’ordine – su aspetti istituzionali, etici, deontologici, pedagogici e didattici. Più in là sarà pure necessario che lo Stato si doti degli strumenti adeguati per verificare che l’eccellenza dei suoi docenti si rifletta sul paese. Essere insegnante, soprattutto nella scuola dell’obbligo, significa in primo luogo conoscere e condividere il progetto politico dello Stato, che, mica per caso, obbliga tutti i bambini e i ragazzi a frequentare la scuola tra i 4 e i 15 anni di età. Come ha scritto oltre vent’anni fa il sociologo Philippe Perrenoud, c’è una chiara differenza tra un organismo di selezione e una scuola: «A scuola, prima di valutare, certificare, selezionare, si suppone che si debba insegnare». Purtroppo sappiamo che il docente fragile, che non sa insegnare, diventa facilmente autoritario e usa le note e i test come armi improprie. La vera rivendicazione, invece, è quella di poter annoverare un numero vieppiù consistente di insegnanti autorevoli, affinché sia ristabilita la «giusta autorità» della Scuola, e che lo Stato esiga e garantisca la loro formazione continua e il pieno rispetto delle regole. Sennò si genera solo un autoritarismo torvo, di cui nessuno sa che farsene, soprattutto in un mondo in cui il killeraggio è sempre più di moda.

La formazione dei docenti tra politica e missione della scuola

La dottoressa Nicole Rege Colet, direttrice defenestrata consensualmente dal DFA della SUPSI, ha rilasciato una lunga intervista al Giornale del Popolo (29.11.11) in cui spiega i retroscena, dal suo punto di vista, della separazione dall’ex scuola magistrale. Lo slogan di base, che dà il titolo all’intervista, recita: «Mentre preparavo il futuro volevano restare al passato». C’è da sperare che la voglia di futuro fosse il mandato assegnatole dalla SUPSI e non un suo pallino personale. Racconta visioni di un certo interesse, l’ex direttrice, e per certi versi raggiunge Gianni Ghisla, che aveva pubblicato un’articolessa piuttosto intrigante sulla Regione del 18 novembre. Che l’accanimento – evidente – contro di lei affondasse le radici nel suo essere donna è una panzana bella e buona; che molti l’avversassero, dal PS alla Lega saltando tanti di quelli in mezzo, perché veniva da fuori, è probabilmente una realtà, benché per ragioni diverse da uno schieramento all’altro. Rege Colet, tuttavia, piazza anche un paio di argomenti che non possono essere ingoiati come il solito rospo del detto comune. Afferma ad esempio: «… resto convinta che in Ticino si debba fare un salto tremendo in fatto di formazione dei docenti». E aggiunge, poco più in là: «Io vengo da Ginevra, da un mondo accademico di lunga data». Che Ginevra sia un’università con una storia durevole non lo si può mettere in dubbio. Che la facoltà di psicologia e scienze dell’educazione abbia un blasone ragguardevole è altrettanto evidente. Ma i tempi stanno cambiando e i docenti ginevrini, certo non unici in Svizzera, non hanno proprio nessun motivo per metterla giù dura: nei diversi rapporti PISA, Ginevra sgambetta assieme al Ticino sugli ultimi vagoni delle graduatorie nazionali. Questo per dire che anche la gloriosa scuola ginevrina, quella di Édouard Claparède, Adolphe Ferrière e Jean Piaget, sta conoscendo le sue decadenze, forse a causa del tragico modello di Bologna, che ha omologato tutte le scuole terziarie d’Europa, o forse per altre ragioni più imperscrutabili.
Scrive ancora l’ex direttrice: «Certo è che dopo il 10 aprile il vento è cambiato, anche se io inizialmente non ci ho badato molto perché, ripeto, in Svizzera romanda fra Dipartimento dell’educazione e istituzioni universitarie non c’è un legame così stretto». E come no? Per tornare a Ginevra, a metà degli anni ’90 era stata varata un’originale riforma della scuola primaria per la realizzazione di grandi ideali della pedagogia moderna. A parte il fatto che quella riforma è stata spazzata via con un colpo di spugna in tempi assai lesti, è risaputo che sul piano politico essa era decollata grazie a un rapporto privilegiato tra l’allora direttrice del dipartimento dell’educazione, la liberale Martine Brunschwig Graf, e alcuni baroni della facoltà, in un miscuglio di ideali e potere: altro che indipendenza dall’apparato politico! Nel caso del Ticino, inoltre, non si può dimenticare che la SUPSI non è un’università, ma una Scuola Universitaria Professionale, dove l’aggettivo rimanda alla formazione degli insegnanti. E dove insegnerà mai la maggior parte dei diplomati, se non nella Scuola della Repubblica, che attraverso la politica ne regge le sorti e ne traccia le direttive? Proprio per questa ragione il rapporto tra la politica e l’istituto di formazione dei suoi insegnanti dev’essere corretto e basato sul dialogo. Sarebbe una catastrofe se l’ex Magistrale, come ha fatto spesso in passato, sfruttando abilmente un certo disinteresse del DECS, si mettesse a fare e disfare le linee guida della nostra scuola. La terziarizzazione, parola magica e misteriosa già in voga quando si diede (breve) vita all’ASP, potrà anche essere un obiettivo sublime, ma ancor tutto da chiarire. Il «salto tremendo» non risiede, in sé, nel fatto di ottenere il bachelor o il master, al posto delle vecchie patenti e abilitazioni. Invece è fondamentale che i diplomati della SUPSI diano vita a una scuola di qualità. In altre parole: che sappiano insegnare.

Ma quali competenze servono per dirigere una scuola?

«I direttori di scuola del Canton Zurigo – riportava qualche giorno fa il Corriere – non dovranno più obbligatoriamente essere titolari di un diploma di insegnamento», a seguito di una modifica di legge approvata dal Gran Consiglio. «Secondo l’associazione dei docenti – aggiungeva la nota – si tratta di una decisione “dannosa” per la qualità della scuola pubblica. “È incomprensibile che una scuola sia diretta da una persona che non conosce in alcun modo il lavoro con una classe”, ha scritto l’associazione». C’è da immaginare che se il nostro parlamento dovesse mettersi in testa di istituire una norma del genere scoppierebbe un putiferio. Eppure c’è da credere che la novità nata ai bordi della Limmat non resterà senza seguaci. A ben pensarci non è l’unica contraddizione che lambisce i sistemi scolastici odierni. Vi sono infatti anche incoerenze di segno contrario, che nessuno si sogna di mettere sotto il microscopio. Prendiamo i direttori delle nostre scuole. Tra comunali e cantonali, e restando al solo settore obbligatorio, ce n’è in giro un’ottantina, ai quali si aggiungono vice-direttori e ispettori. Quasi tutti hanno un passato di insegnanti, che è di frequente l’unico requisito specifico richiesto a livello di concorsi. Di solito ci si addormenta una sera maestri o professori e ci si risveglia il giorno appresso direttori. Ora non è che il direttore sia il capo dei maestri o quello che sgrida gli studenti più riottosi. Basta dare un’occhiata anche distratta agli articoli di legge che definiscono le incombenze dei dirigenti scolastici per rendersi conto che i loro compiti sono molteplici e sconfinano in ambiti ben distanti dai loro curricoli formativi. A ciò si aggiunga, di transenna, che la formazione continua degli insegnanti è per lo più una dichiarazione d’intenti, senza che vi siano obblighi specifici, se non di natura etica: un valore, quest’ultimo, piuttosto in disuso. Così può capitare che si diventi direttore (o ispettore) con una formazione fermatasi qualche lustro prima – e senza considerare che dirigere le scuole di Lugano o di Brissago non è proprio la stessa cosa. Ciò nonostante questo non è un aspetto che scandalizza.
Il vero problema, a ben guardare, non sta tanto nel titolo che è richiesto per accedere alla funzione dirigenziale, quanto nel cercare di definire quali competenze devono essere messe in gioco per governare un istituto scolastico o per fare l’insegnante. Prendiamo un esempio. Nel gennaio del 2009 l’Ufficio delle scuole comunali del DECS aveva lanciato la consultazione sul «Profilo professionale di riferimento per i docenti delle scuole comunali», una descrizione accurata delle competenze e dei comportamenti attesi dai docenti: una sessantina di abilità suddivise in sette aree. Per intanto la complessa operazione non è ancora sfociata in un documento formale, che funga da norma di riferimento per la formazione dei docenti, per la loro valutazione e per le decisioni in materia di formazione continua. Un esercizio analogo, però, non è manco stato avviato per descrivere le caratteristiche essenziali degli insegnanti di altri ordini di scuola, dei direttori o degli ispettori. Così si continua a navigare a vista. La scuola magistrale – oggi dipartimento della SUPSI – ha le sue idee in materia, così come le hanno gli uffici dipartimentali, i sindacati, le associazioni di categoria, i politici e quelli che scrivono ai giornali: un bel guazzabuglio, che certo non concorre a circoscrivere con un minimo di precisione e di consenso chi debba fare cosa all’interno di quell’importante e invadente settore della vita di molti cittadini che si chiama Scuola. Non può dunque stupire se sempre più spesso le decisioni che contano hanno il vago profumo dell’estemporaneità, come certe recenti risoluzioni del nostro parlamento in materia di insegnamento speciale o di HarmoS: siamo ormai alla professionalità di chi non arrossisce neanche quando le spara grosse.

Dai margini dell’aula: esperienza, pensiero critico e qualche nota fuori dal coro