Da quando la nostra scuola magistrale è stata assorbita dalla SUPSI, diventando il Dipartimento della Formazione e dell’Apprendimento (DFA), uno degli sport più in voga nel nostro Cantone è parlarne e scriverne male. L’istituto sembra fare il pieno di dissensi: chi per una ragione, chi per l’altra, è tutto un fiorire di sparate. Gridano tutti: politici di destra e di sinistra, studenti, laureati in cerca di abilitazione. Diversi docenti se ne sono andati o se ne stanno andando. Ben tre insegnanti di scienze dell’educazione – un settore tutto da spiegare – son finiti a fare l’ispettore scolastico; altri hanno preso altre vie, qualcuno è stato dissuaso dal rimanere sin dall’inizio. Come ha detto il nuovo direttore del DECS Manuele Bertoli a La Regione, «Bisogna dire che il DFA ha ereditato una situazione non facilissima con il passaggio dell’ASP alla SUPSI. È quindi necessario del tempo per risolvere i problemi. Tuttavia bisogna evitare di far crescere quelli già esistenti»: sante parole, verrebbe da dire. Il disagio, in effetti, non è proprio nuovo, anche se è venuto alla luce solo con la nascita dell’ASP, una decina di anni fa, al momento dell’adesione al famigerato modello di Bologna, col suo carico di norme euro-compatibili e di assiomi più burocratici e teorici che di sostanza.
Nel 1982 il Parlamento aveva varato la nuova «Legge sulle Scuole medie superiori», che, tra le altre cose, prevedeva il passaggio dalla vecchia magistrale seminariale, della durata di quattro anni e alla quale si accedeva a sedici anni, alla nuova magistrale post-liceale, con accesso dalla maturità e della durata di due anni. Già in quell’occasione il dibattito ruotò per lo più attorno ad argomenti di ruoli, di durate, di discipline da inserire nei curricoli, senza porsi domande ben più importanti: che scuola dell’obbligo vogliamo? E, quindi, come devono essere gli insegnanti che vi insegnano? Questa nuova magistrale debuttò concretamente alla fine degli anni ’80, a ranghi assai ridotti, anche perché il mercato del lavoro non chiedeva nuove schiere di maestri. Neanche dieci anni dopo, riecco una nuova discussione, per traghettare la post-liceale nella nuova ASP: naturalmente continuando a non porsi le giuste domande.
Oggi siamo daccapo. Tutti hanno in saccoccia le loro mirabolanti soluzioni, ma nessuno si preoccupa, ormai da più di trent’anni, di verificare sul campo l’esito delle ipotesi di formazione degli insegnanti. Forse sarebbe ora e tempo di riflettere insieme sui bisogni della scuola, per riuscire a tratteggiare il profilo fondamentale del docente al quale lo Stato delega l’istruzione e l’educazione: un lavoro che, come scrisse Jean Piaget, «è arte altrettanto quanto scienza», in un connubio che dev’essere di grande equilibrio e permeato della necessaria adesione etica: che sarebbe poi il consenso senza se e senza ma alle finalità della scuola pubblica, che deve saper portare ognuno al suo massimo grado di sviluppo. Invece si continua a discutere di questioni accademiche, senza accorgersi che, nel frattempo, l’educazione dei nostri bambini e ragazzi è diventata sempre più fiacca e, nel contempo, tecnocratica. La scuola di tutti i giorni ha a che fare con problemi tangibili, a volte generati dalla scuola stessa, altre da fattori esterni, più spesso da tutt’e due. I ricercatori dell’istituto magistrale dovrebbero analizzare le difficoltà concrete e proporre delle soluzioni praticabili, invece che immaginare problemi le cui soluzioni sono altrettanto ipotetiche. Ci si metta attorno a un tavolo, assieme, con umiltà: si invitino bravi insegnanti, ispettori navigati, direttori ed esperti di materia che conoscono la scuola; si misurino e si comparino le acquisizioni e le conoscenze degli allievi, si osservino sul campo le buone pratiche, si veda quali sono più efficaci e perché. Ci si confronti al di là dei titoli e dei ruoli. Ma – per favore! – prima di inventare nuove diavolerie psico-didattiche, si guardi come funziona la scuola di tutti i giorni: quella che, per ora, continua a selezionare a casaccio.
«Pestalozzi! Chi era costui?», ruminava tra sé il giovane maestro
Con una certa sorpresa, negli scorsi giorni ho ricevuto diversi messaggi di apprezzamento in seguito all’ultimo articolo comparso in questa rubrica, in cui sostenevo che se la scuola è una cosa seria non può espellere i suoi allievi problematici. Mi riferivo, naturalmente e in primo luogo, alla scuola dell’obbligo, per dire che se un allievo assume comportamenti strafottenti e aggressivi, attraverso l’espulsione gli si suggerisce implicitamente che, in fondo, andare a scuola non è poi così importante. Non mi sembra una proposta di chissà quale originalità, anche se è pur vero che la gestione dei cosiddetti casi difficili tende sempre più all’esclusione piuttosto che all’integrazione. Eppure la storia della pedagogia e della scuola ci dice proprio il contrario. Johann Heinrich Pestalozzi, nel 1799, accoglieva a Stans gli orfani della rivoluzione francese, bambini e ragazzi allo sbando: «Questi ragazzi erano nella condizione alla quale conduce in generale necessariamente l’estrema degenerazione della natura umana. Molti di essi arrivavano affetti da scabbia così inveterata da poter appena camminare, molti con le teste piagate, molti con stracci carichi di insetti, molti magri come scheletri, gialli, ghignanti, con occhi pieni d’angoscia e con fronti cariche di rughe della diffidenza e della preoccupazione, alcuni pieni di audace sfrontatezza, abituati alla mendicità, all’ipocrisia e ad ogni falsità, altri oppressi dalla miseria, pazienti ma sospettosi, incapaci di amore e timorosi. […] Dovunque pigra inazione, insufficiente esercizio delle loro facoltà spirituali e delle loro attitudini fisiche essenziali. Appena uno su dieci conosceva l’abc. Di altre conoscenze scolastiche e di altri mezzi essenziali di educazione non era neppure il caso di parlare». Questa la situazione, da far tremare i polsi a ogni educatore: ma Pestalozzi conduce la sua battaglia per educarli, perché l’educazione è per lui un obiettivo morale.
E così altri personaggi chiave della storia della pedagogia: Jean-Marc Gaspard Itard, medico ed educatore, studiò il caso del ragazzo selvaggio dell’Aveyron, quello del bel film di François Truffaut, studio sul quale baserà gran parte della sua opera; Janusz Korczak, che nel 1942 rifiutò di abbandonare i “suoi” ragazzi nell’orfanotrofio del ghetto di Varsavia e svanì con loro a Treblinka, lasciò fondamentali insegnamenti sui diritti dei bambini e ideò dei formidabili approcci per insegnare a dominare le proprie pulsioni; e ancora, Don Lorenzo Milani, a Barbiana, cercava di istruire ed educare i figli delle classi più popolari in un’epoca in cui erano per lo più destinati all’analfabetismo. Si tratta, assieme a tanti altri, di uomini e donne che costituiscono uno straordinario patrimonio di idee, proposte ed esperienze che ogni insegnante della scuola dell’obbligo dovrebbe conoscere a menadito e conservare in uno speciale scomparto della sua «cassetta degli attrezzi».
Da almeno trent’anni, pur tuttavia, la formazione degli insegnanti ha preso altre vie. Messe in soffitta la pedagogia, la sua storia e la vecchia didattica generale, oggi van di moda le didattiche disciplinari e super specializzate, con quel loro sinistro profilo tecnologico che, in classe, si trasformano in tecnocrazia, anche per l’assenza di un fondamento etico che, semmai, le sappia concertare in un solido progetto educativo. Pestalozzi era molto sensibile alle varie dimensioni dell’educazione, ch’egli divideva in tre gruppi fondamentali: la testa, il cuore e le mani. Per le moderne scienze dell’educazione sembrerebbe che tutto ciò sia un inutile ciarpame, anche se i ragazzi difficili di oggi non sono neanche l’ombra sbiadita degli orfani di Stans. Insomma: studiare da maestro senza conoscere Pestalozzi è come per un fisico ignorare Einstein. Ma pare che nella scuola di oggi ciò sia possibile: con quali risultati, ottimisticamente, staremo a vedere.
Quando la scuola non sa più che pesci pigliare
Il Gran Consiglio zurighese ha recentemente modificato la sua legge scolastica: chiamato ad esprimersi sulle sanzioni da adottare nei confronti degli scolari più indisciplinati, il parlamento ha inasprito le norme sull’espulsione, spostando il periodo massimo da quattro settimane a tre mesi. «L’associazione dei docenti zurighesi, categoria alle prese con un numero crescente di casi difficili, ha accolto la riforma favorevolmente». Fin qui la notizia. Stupisce l’amplificazione della sanzione, che suggerisce come il limite precedente di un mesetto scarso aveva manifestato tutta la sua inefficacia. Durante un’interessante serata proposta recentemente a Locarno dall’Istituto Universitario Federale per la Formazione Professionale, sul tema degli insegnanti in difficoltà, l’illustre pedagogista francese Philippe Meirieu ha osservato, con una certa arguzia, che a scuola non è mai mancata l’occasione per annoiarsi. Solo che una volta ci si annoiava educatamente, mentre oggi è facile che il tedio si manifesti con comportamenti aggressivi contro l’insegnante, i compagni e le cose. È però chiaro che una sanzione, come l’allontanamento, perde tutto il suo potere dissuasivo nel momento in cui il colpevole non riconosce più come importante il fatto di frequentare la scuola, e magari di imparare e riuscire nello studio. Vi sono senz’altro delle cause interne alla scuola stessa; ma è anche abbastanza evidente che al giorno d’oggi il sapere, la cultura, la riuscita negli studi non sono più valori socialmente spendibili e riconosciuti. Per affermarsi come cittadino adulto sono altri i valori veicolati dalla società: la furbizia, la disinvoltura, l’aggressività, la faccia tosta, un bel corpo. Ci sono professioni che rendono ricchi senza bisogno di far capo agli inutili orpelli della conoscenza e della cultura. Come se non bastasse, ci si potrebbe chiedere se la scuola di oggi, così utilitaristica e sempre più votata a rispondere alle esigenze del mondo economico, sia ancora in grado di produrre cultura. Eppure è questo che la scuola dovrebbe fare: produrre cultura, che è una combinazione straordinaria di nozioni e competenze.
La tradizionale punizione, che si manifesta con una gamma che va dal rimbrotto all’espulsione, è utile solo se il «colpevole» riconosce il progetto della scuola e vi aderisce. Paradossalmente il fatto di allontanare un allievo dalla scuola perché la prende a calci finisce col rendergli un favore e magari creargli l’aura di eroe di fronte ai suoi pari. Certo, la classe ritroverà un po’ di tranquillità; nel contempo l’espulso dedurrà che la frequenza non è poi così importante e costruirà egli stesso la sua scuola: quella dell’arte di arrangiarsi che, in condizioni estreme di esclusione sociale (e assai spesso, in questi casi, familiare), può facilmente spianare la strada verso la criminalità. E allora? Ci si potrebbe chiedere, ad esempio, se il rimedio non potrebbe risiedere in un intelligente supplemento di scuola, proprio per evidenziarne l’importanza. Rompi le scatole durante la lezione di scienze, ti dai al turpiloquio e fai lo scemo, insulti l’insegnante e, perché no?, lo aggredisci fisicamente? Va bene. Ti condanno a seguire un corso parallelo di filosofia, di letteratura, di storia, di diritto e di storia dell’arte. Non ti farò esami e non ti darò note, non sarà un corso che avrà ricadute dirette sulla pagella. Però, ragazzo mio, ti obbligherò a stare un po’ di ore sui libri, ti farò scrivere e pensare, discuterò con te, cercherò di capire da dove vengono la tua avversione e il tuo odio. Il tutto potrebbe durare anche più dei tre mesi della sospensione; ma, come minimo, non sarai stato in giro a oziare e a delinquere. Insomma: se la scuola è una cosa seria, tanto vale essere conseguenti e credere fermamente che nessuno possa essere condannato prima del tempo a restare una bestia. La scuola pubblica deve educare e integrare, invece di decretare l’emarginazione di chi, solitamente, emarginato lo è già.
Scuola pubblica e obbligatoria al di là degli slogan
Si è parlato molto, in vista del rinnovo dei poteri cantonali, di scuola pubblica e della necessità di continuare a difenderla; da cosa o da chi non è parso molto chiaro. Ora che i giochi sono conclusi, i tanti suoi protettori avranno tirato un bel sospiro di sollievo: la scuola pubblica, quella cioè che fa capo al DECS e, per suo tramite, allo Stato, non è finita in mani maldestre e poco repubblicane. A ben vedere è da un paio di lustri che il tema della scuola pubblica ha ripreso vigore, dopo che per tanti anni era sembrato che il tema non meritasse particolari attenzioni, tanto tutto sembrava procedere liscio come l’olio. A dare il la era certamente stata l’iniziativa che mirava all’introduzione dell’aiuto finanziario dello Stato alle scuole private, poi sonoramente bocciata in votazione popolare. Nondimeno parrebbe che l’oggetto del contendere resti piuttosto generico, con ripetuti richiami a Stefano Franscini e alla sua vasta opera di fondazione della scuola pubblica ticinese che, in quella prima metà dell’800, era ancora saldamente in mani clericali. L’obiettivo politico dello statista leventinese era quello di dar vita a uno Stato laico e democratico, sganciato dalle gerarchie ecclesiastiche e dal potere della Chiesa, capillarmente diffuso. Si trattava insomma di far sì che ogni ticinese dovesse frequentare la scuola a partire da una certa età e per un determinato numero di anni, in un’epoca in cui non era scontato pretendere che tutti imparassero a leggere, scrivere e far di conto, capacità che non servivano per mungere o per dare una mano nei campi e che, per sovrapprezzo, andavano contro il sistema di valori ispirato dal Cielo.
Oggi tutti vanno a scuola obbligatoriamente a partire dai sei anni e nessuno si sognerebbe di mettere in dubbio simile imposizione. Detto questo, però, è un po’ più difficile progettare e gestire una scuola pubblica che sia in grado di mantenere la barra al centro. Non mi piace, come genitore e come cittadino, che la scuola di oggi sia surrettiziamente soggiogata dalle esigenze dell’immediato e dalle smanie dell’economia globalizzata. Quasi quarant’anni fa il nostro Parlamento ebbe il coraggio di istituire la scuola media unica, azzerando scuola maggiore e ginnasio. Oggi, però, circa la metà degli allievi esce dalla scuola media senza i requisiti per una scelta consapevole: studi o apprendistato? D’accordo, si dirà: non siamo mica tutti intellettualmente uguali; è quindi giusto che la scuola dello Stato si faccia carico della selezione, che casca così attorno ai dodici anni. Ma quali sono le armi preminenti della selezione? Le lingue forestiere e le scienze esatte. Poi, a seguire e con particolare riguardo ai ragazzi socialmente più dissestati, le altre discipline. È questa la scuola pubblica che si intende difendere? È questo il progetto politico dello Stato? Forse – forse! – sarebbe più civile preoccuparsi che i nostri giovani crescano nella consapevolezza di vivere e appartenere a una società precisa, che ne conoscano la lingua e la storia, che imparino a sviluppare il loro senso critico: per distinguere le sirene dai fatti concreti ed essere in grado di prendere decisioni e di fare scelte misurate con il minimo dei condizionamenti (massmediatici) possibili. Per restare all’ultimo dopoguerra, il dipartimento dell’educazione è stato guidato dal PLR, da Brenno Galli a Plinio Cioccari, da Bixio Celio a Ugo Sadis, da Carlo Speziali a Giuseppe Buffi a Gabriele Gendotti. Magari non è un male se dal 10 aprile la direzione dell’educazione e dell’istruzione statale abbia cambiato casa. Vedremo se il nuovo direttore del Dipartimento saprà imprimere una svolta all’attuale gestione dell’educazione obbligatoria dei ticinesi, senza restare ostaggio del corporativismo più interessato e recuperando, per difficile che sia, il vero senso della scuola pubblica, tesa a trasmettere il sistema di valori di un paese laico e democratico: giustizia, tolleranza, capacità di pensare e di comunicare, avendo beninteso delle cose da dire.
Berlino, le scolaresche e la guerra fredda
Ho passato alcuni giorni a Berlino, città affascinante, dinamica, vivibile, fitta di storia e di cultura. Le testimonianze della seconda guerra mondiale – e, in particolare, le distruzioni della battaglia finale – così come le tracce della successiva segregazione all’interno del muro e del blocco comunista sono innumerevoli, tanto da porsi come una delle maggiori caratteristiche della città, accanto ai suoi impressionanti musei, agli edifici storici e a quelli, contemporanei e audaci, dell’attuale ricostruzione. Essendo io nato nei primi anni ’50 è stata quasi logica una sorta di attrazione magnetica verso la Berlino della guerra fredda, della contrapposizione tra Occidente e blocco comunista, della cortina di ferro. Quando iniziò, improvvisa, l’erezione del Muro, nel 1961, avevo otto anni. Erano ancora i tempi della radio e del «Notiziario dell’agenzia telegrafica svizzera», col canto dell’usignolo e l’incancellabile voce di Mario Casanova: era il rito quotidiano delle 12.30 di molte famiglie ticinesi, durante lo svolgimento del quale regnava un religioso silenzio, tutt’al più spezzato sommessamente dal rumore delle posate sui piatti. Nessuno poteva sottrarsi, ma non era un male. Rammento qualche nome di quegli anni – Adenauer, Chruščёv, Kennedy – e qualche briciola di quegli avvenimenti, commentati dagli adulti senza che qualcuno si desse la pena di spiegarmi qualcosa (forse erano fatti che non potevano né dovevano interessare un ragazzino). Quando il Muro crollò di anni ne avevo compiuti ormai quasi quaranta, non ero più un bamboccio. A metà degli anni ’70, poco più che ventenne, ero stato per alcuni giorni nell’Unione Sovietica di Brežnev: credo che alla costruzione della mia identità, politica e culturale, abbiano contribuito innumerevoli avvenimenti intenzionali e accidentali; forse anche il notiziario dell’ATS e quell’incomprensibile viaggio a Mosca e Leningrado hanno generato quella vena di anarchia che sento come intimamente avvinta al principio di libertà. Per me la caduta del Muro di Berlino è legata all’emozione nell’ascoltare Mstislav Rostropovič che, su una seggiola ai piedi del Muro, suonava Bach col suo violoncello («Non fu un atto politico, suonavo per farmi sentire da Dio»). Ma è durante questo soggiorno a Berlino, visitando il museo della DDR, soffermandomi in Alexanderplatz, visitando il Checkpoint Charlie e l’adiacente museo, che ho capito sul serio il discorso di John Kennedy del 26 giugno 1963: civis Romanus sum, Ich bin ein Berliner, non solo uno slogan ad effetto in piena guerra fredda, ma un richiamo forte al valore della libertà.

A Berlino ho incrociato un sacco di scolaresche provenienti da più parti d’Europa. Le incontravi nei luoghi emblematici, nei musei, per le piazze e sui bus. Non so che preparazione avessero ricevuto prima di quel viaggio, né se ne abbiano tratto qualcosa di importante. A partire dagli anni ’70 l’insegnamento della storia nelle scuole ha subito molte bastonate, non solo nel nostro Cantone. Quei giovani simpatici, educati, per nulla caciaroni, sembravano più interessati alla parte conviviale della gita di studio – e lo dico senza nessuna malignità o sarcasmo. Essi sono nati nell’era della comunicazione sfrenata, massificata e ridondante, in cui è sempre più difficile trovare gli assi logici sui quali forgiare la propria personalità e costruire il proprio pensiero. La scuola di oggi, «così facilitata, estroversa, tecnologica e giocante» (P. Mastrocola) non contribuisce certo a educare i nostri giovani, se per educazione intendiamo un grande progetto politico per la Società intera. Sono fortunati, i giovani d’oggi, di poter visitare con la scuola Parigi e Berlino, Londra e Praga. Ma mi sto chiedendo: chissà se i miei inconsapevoli compagni di viaggio hanno capito qualcosa di quell’enorme scempio della libertà che è stato il blocco comunista, DDR e Berlino comprese? Chissà se parole come glasnost’, Gorbačëv, perestrojka, Wałęsa, Reagan rimandano anche loro agli avvenimenti di quegli anni prima di internet, loro che sono nati con la caduta del Muro? E chissà se i loro insegnanti hanno potuto (o voluto) aiutarli a ricostruire almeno i profili essenziali del mosaico?