Berlino, le scolaresche e la guerra fredda

Ho passato alcuni giorni a Berlino, città affascinante, dinamica, vivibile, fitta di storia e di cultura. Le testimonianze della seconda guerra mondiale – e, in particolare, le distruzioni della battaglia finale – così come le tracce della successiva segregazione all’interno del muro e del blocco comunista sono innumerevoli, tanto da porsi come una delle maggiori caratteristiche della città, accanto ai suoi impressionanti musei, agli edifici storici e a quelli, contemporanei e audaci, dell’attuale ricostruzione. Essendo io nato nei primi anni ’50 è stata quasi logica una sorta di attrazione magnetica verso la Berlino della guerra fredda, della contrapposizione tra Occidente e blocco comunista, della cortina di ferro. Quando iniziò, improvvisa, l’erezione del Muro, nel 1961, avevo otto anni. Erano ancora i tempi della radio e del «Notiziario dell’agenzia telegrafica svizzera», col canto dell’usignolo e l’incancellabile voce di Mario Casanova: era il rito quotidiano delle 12.30 di molte famiglie ticinesi, durante lo svolgimento del quale regnava un religioso silenzio, tutt’al più spezzato sommessamente dal rumore delle posate sui piatti. Nessuno poteva sottrarsi, ma non era un male. Rammento qualche nome di quegli anni – Adenauer, Chruščёv, Kennedy – e qualche briciola di quegli avvenimenti, commentati dagli adulti senza che qualcuno si desse la pena di spiegarmi qualcosa (forse erano fatti che non potevano né dovevano interessare un ragazzino). Quando il Muro crollò di anni ne avevo compiuti ormai quasi quaranta, non ero più un bamboccio. A metà degli anni ’70, poco più che ventenne, ero stato per alcuni giorni nell’Unione Sovietica di Brežnev: credo che alla costruzione della mia identità, politica e culturale, abbiano contribuito innumerevoli avvenimenti intenzionali e accidentali; forse anche il notiziario dell’ATS e quell’incomprensibile viaggio a Mosca e Leningrado hanno generato quella vena di anarchia che sento come intimamente avvinta al principio di libertà. Per me la caduta del Muro di Berlino è legata all’emozione nell’ascoltare Mstislav Rostropovič che, su una seggiola ai piedi del Muro, suonava Bach col suo violoncello («Non fu un atto politico, suonavo per farmi sentire da Dio»). Ma è durante questo soggiorno a Berlino, visitando il museo della DDR, soffermandomi in Alexanderplatz, visitando il Checkpoint Charlie e l’adiacente museo, che ho capito sul serio il discorso di John Kennedy del 26 giugno 1963: civis Romanus sum, Ich bin ein Berliner, non solo uno slogan ad effetto in piena guerra fredda, ma un richiamo forte al valore della libertà.

Berlino - Il Memoriale per gli ebrei assassinati d'Europa
Berlino – Il Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa

A Berlino ho incrociato un sacco di scolaresche provenienti da più parti d’Europa. Le incontravi nei luoghi emblematici, nei musei, per le piazze e sui bus. Non so che preparazione avessero ricevuto prima di quel viaggio, né se ne abbiano tratto qualcosa di importante. A partire dagli anni ’70 l’insegnamento della storia nelle scuole ha subito molte bastonate, non solo nel nostro Cantone. Quei giovani simpatici, educati, per nulla caciaroni, sembravano più interessati alla parte conviviale della gita di studio – e lo dico senza nessuna malignità o sarcasmo. Essi sono nati nell’era della comunicazione sfrenata, massificata e ridondante, in cui è sempre più difficile trovare gli assi logici sui quali forgiare la propria personalità e costruire il proprio pensiero. La scuola di oggi, «così facilitata, estroversa, tecnologica e giocante» (P. Mastrocola) non contribuisce certo a educare i nostri giovani, se per educazione intendiamo un grande progetto politico per la Società intera. Sono fortunati, i giovani d’oggi, di poter visitare con la scuola Parigi e Berlino, Londra e Praga. Ma mi sto chiedendo: chissà se i miei inconsapevoli compagni di viaggio hanno capito qualcosa di quell’enorme scempio della libertà che è stato il blocco comunista, DDR e Berlino comprese? Chissà se parole come glasnost’, Gorbačëv, perestrojka, Wałęsa, Reagan rimandano anche loro agli avvenimenti di quegli anni prima di internet, loro che sono nati con la caduta del Muro? E chissà se i loro insegnanti hanno potuto (o voluto) aiutarli a ricostruire almeno i profili essenziali del mosaico?

La scuola pubblica secondo i candidati onorevoli

La scuola è tra i temi assai frequentati dalle centinaia di candidati al Consiglio di Stato e al Gran Consiglio che cercano il loro spazio al sole, sognando una poltrona. Il malcapitato cittadino ed elettore che intende farsi un’idea dei venti che potrebbero spirare sul nostro futuro politico ha le sue belle gatte da pelare. Per riuscire a leggere tutto quel che passa il convento in queste settimane si dovrebbe come minimo prendere un congedo a tempo parziale. Tra quotidiani e settimanali, siti internet, radio e televisioni è tutto un brulicare di proclami, prese di posizione, auspici, proposte a raggio più o meno ampio. Oddio, per quel poco che sono riuscito a leggere – che è tanto in termini di tempo, ma poco rispetto all’inchiostro versato – non c’è molto che possa scatenare salti di gioia: si sa, la quantità è nemica della qualità, e anche in questo caso non si sfugge alla regola. Per lo più si rimasticano argomenti noti. Quasi nessuno afferma che «è tutto sbagliato e tutto da rifare», ma in tanti propongono le loro pozioni per migliorare una situazione che, in fondo, non è poi tanto male, soprattutto se la si paragona con altre realtà scolastiche a noi vicine: quando si dice la fortuna dell’Italia a un tiro di schioppo.
Ci sono naturalmente quelli che puntano sul potenziamento di mense e altri servizi para-scolastici, così come altri insistono sul primato della scuola pubblica, senza peraltro azzardare una spiegazione concreta al significato più alto e politicamente qualificato del concetto. Altri ancora, e sono veramente tanti, battono il chiodo sulla necessità che la scuola sia più attenta alle esigenze del mondo del lavoro. Ha scritto ad esempio il candidato della Lega Lorenzo Quadri: «La scuola non potrà esimersi da un riorientamento nell’ottica di quelle che sono le richieste del mercato del lavoro. È evidente che le professioni “d’ufficio” sono sature. Mancano risorse nell’artigianato, nell’edilizia, nel sociosanitario. Altra misura necessaria: si metta il numero chiuso alle formazioni “letterarie” ed “artistiche” prive di sbocchi professionali». Come detto, Quadri non è il solo a patrocinare un modello di scuola che si chini sui bisogni immediati del mondo del lavoro, argomento che, almeno in parte, è in buona compagnia con il para-scuola, ma senza scordare i tanti che vedrebbero di buon occhio un maggiore coinvolgimento dei genitori nelle scelte della scuola: alla faccia del buon detto dialettale secondo cui sarebbe meglio che il ciambellaio si limitasse a far bene il suo mestiere…
Va da sé che quella non è l’idea di scuola che aveva il Franscini e che il Parlamento del 1990 aveva ancorato alla Legge. Ha scritto di recente Corrado Augias (La Repubblica del 19 marzo): «Edmondo De Amicis è giustamente ricordato per aver scritto Cuore (1886). La grande intuizione [era che] che per rimediare ad un’unificazione nazionale riuscita solo in parte, bisognava puntare sulla scuola. Una classe è un microcosmo dove coesistono i tipi e le situazioni più diverse, un’inesauribile fonte narrativa. La scena in cui il preside presenta alla classe il nuovo alunno arrivato “Dalle Calabrie” è piena di un significato reale per il momento in cui venne scritta; metaforico se si pensa agli immigrati di oggi. Tra le funzioni della scuola pubblica c’è non solo la trasmissione di alcune nozioni ma la costruzione di un’identità. Non si tratta di ‘inculcare’ (com’è stato detto per malizia o per ignoranza della lingua) ma di rendere consapevoli, partecipi». Di questo grande progetto politico, purtroppo, si legge poco in questa campagna elettorale, al di là dei vaghi richiami alla difesa della scuola pubblica. La scuola, però, deve rinunciare alla gestione giustapposta e conflittuale di milioni di interessi privati per ridiventare una questione pubblica: anche perché la cultura non è una banale mercanzia (Meirieu, 1997) e gli Uomini non solo insulsi ingranaggi del mondo economico.

Una scuola dell’obbligo tosta, poi la libertà di non studiare

Dopo «La scuola raccontata al mio cane», che nel 2004 aveva suscitato un certo clamore, Paola Mastrocola, scrittrice torinese e insegnante di lettere in un liceo, è tornata in libreria da qualche settimana con un nuovo libro sulla scuola, ancor più corrosivo e amaro del primo, dal sapore vagamente panflettistico. «Togliamo il disturbo», col sottotitolo «Saggio sulla libertà di non studiare», è un atto d’amore, seppur gonfio di tristezza, per la scuola e la cultura; ma è nel contempo un lucido e inflessibile j’accuse contro la scuola di oggi, nella quale «quella esigua, risibile minoranza di giovani che prova piacere a stare ore sui libri e che quindi – cosa inaudita – studia» viene ignorata o, addirittura, volutamente emarginata. Scrive l’autrice nelle note di copertina: «Questo libro è una battaglia, perché la cultura non abbandoni la nostra vita e prima di ogni altro luogo la nostra scuola, rendendo il futuro di tutti noi un deserto. È anche un atto di accusa alla mia generazione, che ha compiuto alcune scelte disastrose e non manifesta oggi il minimo pentimento. Infine, è la mia personale preghiera ai giovani, perché scelgano loro, in prima persona, la vita che vorranno, ignorando ogni pressione, sociale e soprattutto famigliare. E perché, in un mondo che li vezzeggia, li compatisce, e ne alimenta ogni giorno il vittimismo, essi con un gesto coraggioso e rivoluzionario si riprendano la libertà di scegliere se studiare o no, sovvertendo tutti gli insopportabili luoghi comuni che da almeno quarant’anni ci governano e ci opprimono».
Il punto di partenza è l’osservazione delle capacità dei suoi studenti durante i primi giorni del liceo, dopo otto anni di scuola dell’obbligo, tale è la durata in Italia: meno del 10% conosce la grafia corretta dell’italiano, mette la punteggiatura, riconosce un soggetto, un predicato verbale o nominale, un complemento oggetto, distingue un avverbio da una congiunzione; e in matematica «i ragazzi non sanno calcolare il minimo comune multiplo e il massimo comun divisore». Com’era già stato il caso per il primo libro sulla scuola di oggi, restano pur sempre delle differenze tra la scuola italiana, almeno quella che conosciamo attraverso gli echi che ci arrivano regolarmente, e la nostra. Vi sono tuttavia parecchie analogie che non si devono sottovalutare, ciò che fa di «Togliamo il disturbo» un libro di grande interesse per chi ha a che fare con la scuola, siano essi insegnanti o politici, formatori di formatori o genitori: perché «La forza della democrazia è la somma delle forze individuali, non è l’ammasso delle debolezze collettive». Ce n’è per tutti in questo libro e, malgrado l’inno allo studio e al rigore che trasuda da ogni riga, non è un libro passatista, anche se certamente disturberà molto e molti. Se la scuola odierna è quel che osserva Paola Mastrocola, «così facilitata, estroversa, tecnologica e giocante», le colpe sono collettive. «Se la scuola diventa un centro di socializzazione dove stare insieme e trovare amici e mostrare gadget e vestiario, se quindi i figli vanno volentieri a scuola, i genitori si sentiranno sollevati: la loro spinta edonistica e narcisistica non sarà in contrasto con la vita dei figli: tutti insieme allegramente, il benessere psico-fisico-sociale è condiviso, e i figli possono dunque diventare i re del consesso famigliare, ed essere al meglio coccolati e vezzeggiati».
Che fare, dunque, per evitare che a quindici anni ci si confronti con la propria (pressoché irrimediabile) ignoranza? La proposta della Mastrocola è semplice, lineare, concreta: «ragazzi, noi vi diamo una scuola dell’obbligo che per otto anni vi costruisce le basi solide della conoscenza, vi fa matematica, storia, geografia e letteratura, vi mette in grado anche di leggere un canto di Dante e capirlo (…), e poi liberi tutti! Scegliete pure di continuare così, oppure di fare un triennio di falegnameria o di informatica, e di studiare in stile esperienziale con i video, il teatro, la musica, i social network e le lavagne interattive: non ce ne importa più niente, noi le ruote della bici ve le abbiamo messe robuste, adesso pedalate un po’ dove vi pare, anche dall’altra parte del globo!». Eccola, la libertà di non studiare. È dopo la scuola dell’obbligo (che da noi, fra non molto, inizierà a quattro anni).

Che ne sarà mai del DECS dopo il 10 aprile?

Si fa un gran parlare, di questi tempi, delle sorti del DECS dopo il 10 aprile. L’Uomo nero è in agguato e spaventa una parte degli elettori ticinesi. Dire DECS significa, per la maggior parte di noi, parlare della scuola pubblica. L’uscente ministro Gendotti passerà ai posteri come il capo dipartimento della storica votazione del 18 febbraio di dieci anni fa, quando l’iniziativa che mirava all’introduzione dell’aiuto finanziario dello Stato alle scuole private era stata bocciata col 74.1% dei voti. Ora in molti temono l’Uomo nero, che a quel tempo cavalcava indomito il cosiddetto nuovo che avanza e che fra poco più di un mese potrebbe diventare capo del dipartimento che dirige la scuola pubblica. Certo, è una circostanza plausibile, al di là delle evidenti contraddizioni, soprattutto se il PLR riuscirà a confermare i due seggi. In caso contrario si aprirebbero altri scenari. Cosa cambierebbe in concreto è difficile dirlo. È sicuramente più facile mutare il nome del dipartimento che trasformare tangibilmente la scuola, che tutto sommato funziona sulla base di alcune strutture organizzative immutate da decenni e decenni: un insegnante, un’aula scolastica, un certo numero di allievi, un calendario soggiogato dalle feste mobili e dai cicli solari, un sistema di promozione dominato da esami e note che tutto sono, fuorché neutri e scientifici.
Non si può ignorare l’importanza delle istanze politiche – Consiglio di Stato, Parlamento, Capo del dipartimento – nel tracciare le linee della politica scolastica. Ma altre istanze concorrono a disegnare la scuola e a caratterizzarla giorno dopo giorno, a sinistra, a destra e, più facilmente di quanto si pensi, come capita capita. La politica, per lo più, coordina, organizza, sancisce, legittima. Ma la vera politica scolastica la fanno i funzionari dipartimentali, gli insegnanti, le famiglie, la scuola magistrale, i sindacati, i partiti, facebook, i media, i centri di ricerca. Innumerevoli contesti influenzano le scelte, a volte senza che nemmeno ce ne accorgiamo: la demografia che tira o che frena, l’economia che cavalca vacche grasse o si fa trainare da quelle magre, le idee che circolano come venticelli e che sembrano sempre politicamente corrette. La scuola, come tutti i sistemi complessi, si riproduce per autopoiesi, vale a dire che ha la capacità di rigenerarsi mantenendosi immutata. Ciononostante negli ultimi quaranta o cinquant’anni la scuola – non solo quella ticinese, ovvio – sembrerebbe aver perso i suoi precipui scopi originari: insegnare a leggere, scrivere e far di conto, trasmettere delle conoscenze, educare così dei cittadini liberi. Senza ben sapere perché, anche la scuola ticinese è diventata quella dell’accordo di Bologna, coi suoi master e i suoi bachelor; anche da noi ha preso piede il primato del saper essere, del saper fare e dell’imparare a imparare, alla faccia del sapere e basta. Senza scordare che è in arrivo HarmoS, il noto accordo intercantonale sull’armonizzazione delle scuole svizzere, che influirà anche sulla politica scolastica del nostro cantone, con la scolarizzazione obbligatoria precoce, il plurilinguismo, gli standard, gli strumenti di pilotaggio. Tutto dev’essere armonizzato, da Ginevra a San Gallo, da Basilea a Lugano. Difficile dire se l’armonizzazione contribuirà a migliorare sul serio il profilo di conoscenze del popolo svizzero oppure se si finirà dalle parti di uno sgradito livellamento culturale (verso il basso). Tutto ciò, beninteso, non è di destra né di sinistra. È e basta. Più che strutture e regolamenti e accordi intercantonali, servono insegnanti preparati, consapevoli del loro ruolo, messi nella condizione di svolgere al meglio la loro professione: che è quella di insegnare. E servirebbe, con tanta urgenza, un po’ di chiarezza su ciò che gli insegnanti debbono insegnare. È in quest’ambito che le istanze politiche hanno un loro preminente dovere da assolvere.

Ma chi gliel’ha detto, a certa gente, di fare il professore?

Fortebraccio, corsivista dell’Unità di un tempo, scrisse che Mario Tanassi, il socialdemocratico italiano più volte ministro della vicina repubblica a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, aveva la fronte inutilmente spaziosa e che a causa della mancanza dell’oggetto non aveva mai avuto un mal di testa. La battutaccia mi è venuta in mente guardando su YouTube alcuni video un po’ citrulli che imperversano da qualche mese a questa parte, con la regia di qualcuno che, col motto «Goliardia imperat!», sigla delle sparate qualunquiste contro il Dipartimento della Formazione e dell’Apprendimento (DFA) della SUPSI. Questi candidati all’insegnamento, mi son detto, non possono certo soffrire di emicrania. Già lo pseudonimo che hanno scelto per curare la regia delle loro scemenze è tutto un programma: «Mongol & Battona», che la dice lunga sull’entità dei loro collegamenti cerebrali. Naturalmente si preoccupano di mettere le mani avanti, specificando che «Questo prodotto videoludico non vuole offendere nessuno, lungi da noi». Però, scemenza dopo scemenza, sparano a zero contro il DFA, contro la scelta del Cantone di pretendere due anni di abilitazione dopo il bachelor o dopo il master per insegnare nelle scuole cantonali, contro la direttrice del DFA e, in definitiva, contro la necessità di una formazione pedagogica per diventare insegnanti. Si intuisce che per loro le scienze dell’educazione sono materia facile facile per chi vuol fare il maestro dell’asilo o della scuola elementare, non certo per gente che ha frequentato nientepopodimeno che l’università. Loro “sanno le cose” e ciò è quanto basta.
L’insofferenza di taluni accademici nei confronti della formazione pedagogica è ormai una storia vecchia, anche se non può essere ricondotta al DFA. Nel 1974 il nostro Parlamento, dopo una battaglia lunga e, in parte, estenuante, votò le Legge sulla scuola media, che cancellava le scuole precedenti, vale a dire la scuola maggiore e il ginnasio. La prima era una buona scuola, nella quale i maestri insegnavano; la seconda era una scuola selettiva, il cui obiettivo dichiarato era quello di selezionare i migliori (o i figli dei notabili) per mandarli alla scuola superiore e, poi, all’università. Nella prima c’erano i Maestri, preoccupati di insegnare; nella seconda i professori, che venivano dritti dritti dall’università – fatta eccezione per gli ultimi anni del boom demografico, dove si reclutava il personale come viene viene. In quell’ormai lontano 1974 il parlamento fu costretto ad accettare un pesante compromesso affinché la rivoluzionaria legge passasse: la scuola media unificata, che sarebbe diventata una realtà qualche anno dopo, prevedeva, dopo un primo biennio identico per tutti, i famigerati livelli A e B, poi confluiti in forme di selezione meno appariscenti, quali i corsi di base o quelli attitudinali in alcune discipline. Il guaio fu che, dopo aver ingoiato il compromesso, la nuova scuola fu presidiata da una moltitudine insegnanti e direttori provenienti dal vecchio ginnasio: così che si finì per riconvertire i maestri della scuola maggiore in professori, invece che fare il contrario – e poco poté fare Franco Lepori, all’epoca capo dell’ufficio cantonale della neonata scuola, per fronteggiare i guasti dei politici, perpetrati con le loro nomine disinvolte. Sul nuovo DFA, che subentra in linea temporale alla magistrale seminariale, a quella post-liceale e all’ASP, ho le mie riserve e le mie preoccupazioni; credo che la tendenza tecnocratica sempre più dilagante non sta portando nulla di buono, anche se conviene, per il momento, attendere come saranno i nuovi diplomati. Per il bene dei futuri allievi e del paese, però, c’è da augurarsi che «Mongol & Battona» siano sonoramente bocciati, come si addice agli asini, prima che entrino nella scuola e comincino a fare danni. In caso contrario ne soffrirebbe anche la credibilità della nuova scuola magistrale: il DFA, appunto.

Dai margini dell’aula: esperienza, pensiero critico e qualche nota fuori dal coro