Le scuole comunali ai Comuni: perché no?

Aveva cominciato l’attuale ministro dell’educazione Gabriele Gendotti a chiedersi, già nel 2002, se non fosse giunto il tempo di passare le scuole comunali – vale a dire le scuole dell’infanzia ed elementari – sotto le premurose e calde ali del Cantone, con l’obiettivo principale di annullare le diverse disponibilità finanziarie dei Comuni e garantire a ogni allievo una scuola di uguale livello, a prescindere dallo stato dei forzieri del suo luogo di residenza. A quell’epoca Gendotti non aveva esitato a indicare la cantonalizzazione di queste scuole come uno dei temi della prossima legislatura. Nel frattempo di legislature ne sono passate due e un po’, ma fortunatamente non se n’è fatto nulla, o quasi. È di questi giorni la notizia che un primo passo in questa direzione sarà compiuto dopo il rinnovo dei poteri cantonali. Nel recente messaggio al Parlamento su alcune modifiche nei rapporti tra Cantone e Comuni in materia scolastica, il Consiglio di Stato preannuncia che «il progetto di “cantonalizzazione” del Servizio di sostegno pedagogico delle scuole elementari (…) sarà oggetto di un messaggio separato»: siamo insomma a una di quelle operazioni di maquillage legislativo di cui avevo parlato di recente (CdT del 19.10). Giusto un anno fa l’Associazione dei Comuni Urbani, in una sua lettera alla piattaforma di dialogo Cantone-Comuni sulla modifica di flussi finanziari e competenze, aveva osservato che «nell’ottica della ricerca di una nuova organizzazione dei rapporti tra Cantone e Comuni, si ritiene senz’altro necessario un esame della fattibilità di cambiamenti più radicali quali la cantonalizzazione completa del settore scolastico». La provocazione, in sé, non faceva una grinza, se solo si pensa che allo stato attuale delle cose le scuole comunali sono quasi del tutto cantonali, dal momento che i margini di intervento dei Comuni sono ben poca cosa. Tuttavia, come aveva osservato Fabio Pontiggia su questo giornale (7.1.2010), «mancava solo il coraggio di dire: stop, non se ne fa nulla perché non serve a nulla. Qualcuno l’ha avuto», il coraggio. E aggiungeva: «Se c’è qualcosa che funziona bene in Ticino (…) è proprio il settore delle scuole comunali».
Giunti a questo punto, invece, converrebbe chiedersi se l’effettivo potere dei Comuni sulle proprie scuole non potrebbe rappresentare un incentivo incomparabile per intraprendere un auspicato salto di qualità: cominciando proprio dal sostegno pedagogico, da lasciare lì dov’è. Chi meglio degli operatori delle scuole comunali e dei loro amministratori politici sarebbe in grado di adattare le sue strutture scolastiche alle peculiarità della propria popolazione? Il cantone, casomai, dovrebbe dettare le regole principali del gioco – in particolare quali competenze devono avere gli allievi al termine della quinta elementare, oltre ai paletti già fissati dal concordato sull’armonizzazione della scuola obbligatoria – e mettere in atto un principio di sussidiarietà che tenga conto delle diversità locali e non solo della forza finanziaria. Al resto dovrebbero pensare i Comuni, tenendo conto anzitutto di quelli nuovi che nasceranno dalle aggregazioni. Va da sé che non si tratta di mettere queste scuole in concorrenza tra loro, bensì di garantire per davvero le pari opportunità, indipendentemente dal luogo di residenza (città, periferia o valle), dal ceto sociale, dalla provenienza culturale. Realtà socio-culturali ed economiche diverse hanno esigenze diverse, che non possono essere affrontate con regole paralizzanti quali il numero di allievi per classe o il rapporto tra numero di sezioni e docenti di sostegno pedagogico. Un’effettiva autonomina dei Comuni nella gestione delle proprie scuole aprirebbe oltre al resto altre accattivanti opportunità di miglioramento dell’insegnamento, attraverso scelte pedagogiche, etiche e istituzionali che solo chi conosce a menadito la propria realtà, piccola o grande che sia, è in grado di valutare e rendere operanti. Voglio però essere realista: questo è un dibattito che non inizierà nemmeno, tanto siamo prigionieri delle nostre tradizioni, ormai ancestrali, senza curarci troppo della loro efficacia. In fondo le mense e i doposcuola paiono più importanti.

HarmoS: come sarà la nuova scuola dell’infanzia ticinese?

Da qualche settimana sono comparsi tra le lettere dei lettori alcuni scritti pervasi di preoccupazione e disappunto per una delle riforme che saranno realtà, anche nel nostro cantone, con l’entrata in vigore del concordato sull’armonizzazione della scuola obbligatoria, più noto con l’acronimo HarmoS. Tra le misure che tenteranno di omologare la scuola obbligatoria nell’intera Elvezia, vi è l’età d’inizio della scuola obbligatoria, che non sarà più fissata a sei o sette anni a dipendenza dei diversi cantoni, bensì a quattro anni per tutti. Sino ad oggi i Cantoni che hanno aderito al concordato sono solo undici. Non bisogna però scordare che nel 2006 il popolo svizzero aveva accettato, forse un po’ troppo a cuor leggero, i nuovi articoli costituzionali sulla formazione, con una forte maggioranza dell’86%. Ciò significa che oggi i Cantoni sono tenuti dalla Costituzione a regolamentare in maniera uniforme certi aspetti fondamentali di questo sistema. Per la cronaca, il Gran Consiglio aveva votato la nostra adesione nel febbraio scorso; in assenza di referendum, l’adesione ticinese ad HarmoS è dunque definitivo. Dal punto di vista formale, perciò, le lamentele di oggi sono a dir poco tardive, così che entro il 2015 si decollerà.
Nella sostanza, invece, le preoccupazioni sono legittime e opportune, anche perché, al momento attuale, l’anticipo di due anni dell’età d’inizio della scuola obbligatoria resta un oggetto misterioso di cui si conosce un unico elemento: la scuola sarà obbligatoria per tutti i bambini che avranno compiuto il quarto anno di età entro il 31 luglio. Tutto il resto è ignoto al di fuori delle segrete stanze dipartimentali. È ovvio che per il Ticino questo cambiamento sarà un po’ meno sconvolgente rispetto a quei cantoni che attendevano l’età di sette anni, una scadenza vissuta quasi in modo dogmatico da tanti genitori confederati, tanto che, quando giungevano nel nostro cantone, non c’era verso di convincerli che la nostra partenza a sei anni non generava chissà quali sconquassi psichiatrici. L’inquietudine odierna contro la nuova età d’inizio, tuttavia, non prende di mira gli scopi fondamentali dell’accordo intercantonale, ma è vissuto da alcuni genitori come un’insopportabile ingerenza dello Stato, che si vuole appropriare di bambini così piccoli togliendoli alla famiglia e impedendone di riflesso un’educazione secondo ritmi e modalità caratteristiche ed esclusive.
Sarebbe opportuno che il nostro DECS cominciasse a svelare le sue carte, descrivendo almeno per sommi capi come sarà la nuova “scuola dell’infanzia” obbligatoria a partire dai quattro anni. Sarà interessante sapere, ad esempio, quali tempi avrà, sia a livello di durata dell’anno scolastico che di orario giornaliero. Eppoi i genitori vorranno conoscere quali saranno i contenuti della nuova scuola e se anche lì vi saranno i “giudizi”, le note scolastiche, i test e le (a quel punto) inevitabili bocciature. E ancora: come saranno formate o aggiornate le maestre e quale grado di armonizzazione – questo sì importantissimo – caratterizzerà il passaggio alla scuola elementare. Se tutti questi aspetti non saranno chiariti, oppure se, peggio ancora, si sarà costretti a mandare i propri figli a scuola a quattro anni nell’identica scuola dell’infanzia odierna, allora avranno avuto ragione gli scettici e i contrari di oggi, perché della riforma resterà solo l’aspetto coatto. È infatti vero, da un lato, che già oggi la scuola dell’infanzia è frequentata da una percentuale altissima di bambini di quattro e cinque anni; ma proprio perché si tratta di una scuola facoltativa, essa è caratterizzata, almeno nella pratica quotidiana, da innumerevoli libertà riguardo alla sua durata e ai suoi programmi. Se HarmoS rappresenta una formidabile opportunità per migliorare tutta la nostra scuola, converrà cominciare proprio dalle novità: che siano straordinarie, concrete, conosciute per tempo e, alla fine, condivise.

Una legge della scuola incartapecorita

Quest’anno la nostra legge della scuola ha compiuto vent’anni: ha infatti visto la luce il 1° febbraio 1990, sotto il segno dell’acquario; a dar retta agli astrologi, sono garantiti un’intelligenza proiettata verso il futuro e uno spirito fortemente innovatore. Ma, si sa, non è sempre vero che l’astrologia ci azzecchi. In ogni modo non vi sono stati i festeggiamenti che solitamente si riservano ai ventenni, forse perché c’è poco da celebrare. O forse perché il concepimento era avvenuto molti anni prima del ’90. È nel dopo sessantotto che si pone mano alla vecchia legge del 1958, che – si diceva – risultava datata e non più in linea con i venti libertari che avevano cominciato a spirare nel decennio precedente, anche se, giunti a quel punto, le vigorose raffiche si stavano rapidamente trasformando in più fragili brezze. Tant’è: la riforma legislativa, almeno sulla carta, si era avviata e già nell’80/81 erano stati messi in consultazione tra tutti gli addetti ai lavori trenta e passa articoli, quelli contenenti i grandi principi della nuova Magna Charta che avrebbe retto le sorti della scuola ticinese di lì a qualche anno. Invece, come sappiamo, si sarebbe dovuto attendere ancora quasi un decennio prima che i giuristi la terminassero e il Gran consiglio l’approvasse, e ancora un anno e passa perché entrasse in vigore, peraltro a singhiozzo e in tempi diversi. Il bello è, poi, che la legge della scuola, una specie di madre di tutte le leggi, aveva già una figlia più vecchia di lei, la legge sulla scuola media del 1974: tanto che la «nuova» legge quadro era stata fortemente influenzata da tutta una serie di modalità organizzative escogitate in quegli anni così colmi di speranze e di sogni. Col risultato che si è finito per confezionare un abito che non poteva essere congeniale a tutti. In effetti se era logico istituire precise regole di funzionamento per quella trentina di sedi di scuola media, tutte sotto lo stesso padrone e tutte di dimensioni simili, un po’ più complicato era farci entrare scuole comunali tanto diverse tra loro, come lo possono essere quella XXL di Lugano rispetto a quella di Dalpe, con tutte le taglie intermedie.
È molto difficile dire, in tutta onestà, se i principi ispiratori della legge del ’90 – visibili soprattutto nell’articolo sulle finalità e nei capitoli che ne definiscono le componenti e le norme di conduzione – siano riusciti a concretizzarsi per davvero. L’impressione è quella di un parlamento che, vent’anni fa, vagheggiava una scuola moderna, partecipativa, rigorosa, una scuola che avrebbe dovuto promuovere «lo sviluppo armonico di persone in grado di assumere ruoli attivi e responsabili nella società e di realizzare sempre più le istanze di giustizia e di libertà». Mentre oggi basta guardarsi attorno, anche distrattamente, per rendersi conto che le cose non sono andate proprio per il verso sperato. In questi vent’anni le modifiche, le aggiunte e gli stralci sono stati numerosi, anche se non hanno mai intaccato lo spirito di base della legge. A quanto pare non è finita, perché altri interventi di chirurgia ricostruttiva sono all’orizzonte. Tuttavia, per dirla tutta, la nostra ventenne fa sempre più tenerezza: non è col silicone, la chioma tinta, e gli abiti giusti che resterà giovane, attraente e sensuale. Di seducente restano le utopie di una generazione che voleva cambiare il mondo, mentre il mondo se n’è andato dove voleva lui, incurante dei nostri proclami. Nel contempo continuano a dettar legge, è proprio il caso di dirlo, certe procedure macchinose e deresponsabilizzanti, che assorbono molte energie, ma portano a poco. Dietro la presunta autonomia degli istituti che caratterizza questa legge, c’è un centralismo omologante che è spesso fonte di frustrazioni e inefficacia. Forse, insomma, è giunto il momento di cambiarla, la nostra legge della scuola: senza rammarico e sperando che non sia troppo tardi.

PC e internet non possono colmare le lacune culturali

Il 98% degli allievi ticinesi tra gli 8 e i 15 anni usa il PC e il 92% bazzica anche internet. Ad eccezione di una misera percentuale, la maggior parte si considera almeno un discreto smanettatore del web e naviga da 15 minuti al giorno (11%) a più di 5 ore (5.5%), con un 64% che vi resta quotidianamente da 1 a 3-4 ore, in alcuni momenti topici della giornata, tra mezzogiorno e prima di andare a letto. A parte la ricerca di informazioni, gran parte del tempo è spesa per giocare, cercare immagini e filmati, chattare, entrare nei blog. Quasi tutti i ragazzi delle medie hanno già sentito parlare dei rischi di internet, mentre pressappoco un terzo dei bambini delle elementari ammette di non sapere cosa è meglio evitare. Sono solo alcuni dei dati, neanche così sorprendenti, che scaturiscono da un’interessante ricerca svolta da Michele Mainardi e Lara Zgraggen, docenti alla SUPSI, pubblicata nel dicembre scorso («Minori e internet: indagine sui comportamenti dei minori in Internet e sull’uso del PC nella Svizzera italiana»). Anche se le percentuali citate devono essere prese con le pinze, non credo che il quadro preciso sia in sostanza molto diverso da quello presentato. È interessante notare come una tecnologia nata per lo studio, il lavoro e la ricerca sia diventata un mezzo di intrattenimento praticato in dosi imponenti, tanto che ci si potrebbe chiedere dove trovano il tempo, i nostri ragazzi, per studiare, leggere un libro, guardare un film in santa pace, stare a tavola con la propria famiglia, dormire, praticare dello sport o molto più semplicemente oziare (e pensare e fantasticare, attività utilissime quant’altre mai in questa fase evolutiva).
Quanto alla scuola, confrontata con questo fenomeno, non sta con le mani in mano: da diversi anni si intensificano gli sforzi affinché le cosiddette TIC – Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione – siano conosciute, non fosse che per educare a farne un uso responsabile. Tuttavia permane qualche dubbio, soprattutto nei confronti del rapporto tra l’uso delle nuove tecnologie e i compiti fondamentali della scuola. Ad esempio, è interessante osservare che i nostri ragazzi, in base al sondaggio citato, non usano il PC per scrivere, calcolare o schedare libri. L’attività di ricerca di informazioni, citata da più della metà degli interrogati, non va oltre la dichiarazione generica, ma si può ipotizzare che le domande poste alla rete siano variegate ed eterogenee, con sicure scampagnate fuori dei pur vasti sentieri dello studio; tanto che è diventato usuale trovare, nelle bibliografie che concludono le tesine, affollate liste di indirizzi www, che inducono per lo meno il dubbio che tra il copiare testi da Wikipedia con un clic, leggerli e conoscerli, non ci sia nessuna correlazione. Se così fosse – ma, personalmente, ho la netta sensazione che le cose stiano proprio così – saremmo di fronte a un’enorme fanfaluca, col vestito della festa per nascondere le vergogne. Oltre a ciò ci si potrebbe chiedere se il gran dispendio di energie profuso dalla scuola nell’ambito delle nuove tecnologie non si riduca, per sintetizzare, a una legittimazione del loro uso (indiscriminato), corredato da qualche precetto che consenta di prevenire i rischi e di censurare gli aspetti più biechi del web. Per certi versi quest’attitudine della scuola ricorda quella di quarant’anni fa riguardo alla televisione. Da una parte si rendevano attenti i genitori sui rischi di una fruizione incontrollata nei tempi e nei contenuti; dall’altra si riteneva utile e doverosa l’educazione alla comprensione dei linguaggi audiovisivi. A occhio e croce mi pare di poter dire che nessuno dei due traguardi è stato raggiunto. Vedremo dunque come finirà questa nuova avventura. Si deve pur rammentare che per cercare informazioni in rete bisogna sapere bene cosa si vuole; così come per scrivere con i potentissimi elaboratori di testo a disposizione occorre sapere scrivere: nell’uno come nell’atro caso, PC e internet non possono colmare lacune tecniche e culturali.

È in arrivo HarmoS: calma e gesso!

Attorno al 2015/16 HarmoS, l’accordo intercantonale sull’armonizzazione della scuola obbligatoria, dovrebbe entrare nel vivo dei cambiamenti previsti. Lo scorso 22 settembre il DECS ha organizzato la seduta costitutiva dei quattro gruppi di lavoro che si occuperanno di adattare il nostro sistema scolastico alle indicazioni contenute nel Concordato. Bene. Volendo si potevano anticipare un po’ i tempi, ma – come ha spiegato Diego Erba illustrando il mandato dei gruppi – se non si fosse pronti per quella scadenza è difficile che Berna ci invii l’esercito a bombardarci. Non bisogna però enfatizzare gli effetti di HarmoS, che in realtà non sarà una rivoluzione copernicana del sistema scolastico ticinese. È certamente un merito del ministro Gendotti e dei suoi collaboratori se per il Ticino i cambiamenti intimamente legati al Concordato saranno tutto sommato contenuti, dal momento che si è riusciti a patteggiare diverse eccezioni, la più importante delle quali è certamente il mantenimento della scuola elementare di cinque anni e della media di quattro. In fondo sono solo due i cambiamenti sostanziali che toccheranno direttamente le famiglie i cui figli nasceranno a ridosso del 2015 o giù di lì. Il primo riguarda l’età di riferimento per essere ammesso (o costretto) a iniziare la scuola, che oggi è il 31 dicembre, mentre sarà abbassata di un mese per volta a partire dal 2012, fino ad arrivare alla nuova data del 31 luglio. Il secondo, più importante, riguarderà invece l’inizio della scuola dell’obbligo, portato dagli attuali sei ai futuri quattro anni; in altre parole, per intenderci, i nati entro il 31 luglio dell’anno prossimo non potranno più decidere se e quando iniziare la scuola dell’infanzia, ma saranno costretti a presentarsi il 3 settembre 2015.
Gran parte degli altri contenuti dell’accordo – gli standard nazionali di formazione, i portfoli, il monitoraggio del sistema educativo – non avranno per contro una visibile e tangibile ricaduta diretta sugli allievi e sulle loro famiglie. HarmoS, dunque, rappresenta una buona opportunità per tentare di risolvere qualche problema, che sarebbe però esistito anche senza questo accordo. È il caso dell’inclusione dei bambini di tre anni nella scuola dell’infanzia: già oggi è un problema più sociale che scolastico in senso stretto. L’anticipo dell’obbligatorietà scolastica a quattro anni avrebbe potuto essere l’occasione giusta per garantire comunque la possibilità di mandare i bimbi di tre anni all’asilo, ma in strutture con altri scopi e differenti strutture organizzative, più vicine alle competenze del DSS che non del DECS; ma il Parlamento, denotando una visione per lo meno conservatrice, ha deciso che non cambierà nulla: i treenni di domani potranno frequentare la scuola assieme a quelli di quattro e cinque anni, non si sa bene con quali vantaggi rispetto a una soluzione meno scolastica e più sociale. Un’altra necessità, già oggi presente ma che sarà affrontata grazie ad HarmoS, è quella dell’armonizzazione dei programmi dalla scuola dell’infanzia – tutti da inventare, perché oggi vi sono solo degli «orientamenti programmatici» – alla media, passando dall’elementare. Non è un problema nuovo, come detto. In particolare, tra la 5ª elementare e la 1ª media c’è attualmente uno strapiombo: sarà quindi indispensabile costruire i ponti più idonei, secondo modalità che gli esperti della Divisione della scuola dovranno progettare ed erigere. In mezzo – o accanto, o sopra, … – c’è un’esigenza fondamentale di formazione dei docenti, anche pensando all’enorme ricambio generazionale che avverrà più o meno in concomitanza con l’entrata in vigore di HarmoS. Ma questo è un problema che dovrà essere affrontato e risolto dal nuovo dipartimento della formazione e dell’aggiornamento della SUPSI, che ha sostituito in un botto la vecchia Magistrale; un dipartimento, però, che è come l’araba fenice: che vi sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa.

Dai margini dell’aula: esperienza, pensiero critico e qualche nota fuori dal coro