Classi maschili e femminili nella scuola media?

Classi separate per sesso, almeno nella scuola media. È quanto chiedono alcuni parlamentari della Lega, primo firmatario Bignasca il Giovane; meglio: chiedono di analizzare la possibilità di introdurre questo modello di apartheid scolastica, basato sulla “tesi educativa” – molto semplice, specificano – secondo cui «maschi e femmine sono talmente diversi fisicamente e psicologicamente che sarebbe un errore pretendere che imparino le stesse cose alla stessa età». La parola chiave è “talmente”. L’atto parlamentare evoca il parere di eminenti professori di didattica e pedagogia, butta là un po’ di numeri, qualche scuola del mondo anglosassone, un caso emblematico e l’inevitabile lieto fine: il livello di apprendimento è migliore. Eccola qua, la soluzione di un problema vecchio almeno quanto la scuola. Le classi maschili e femminili sono state una realtà per molti anni, almeno laddove era possibile. Asilo a parte, ho frequentato una classe mista solo a partire dalla terza ginnasio. Non credo che si trattasse di una decisione di natura pedagogica, ma solo della manifestazione concreta di un mondo piuttosto bacchettone; anche alla messa dei ragazzi della domenica alle nove noi dovevamo sederci di qua, le ragazze di là. È vero che la scuola ha spesso avuto il vezzo di escogitare qualche criterio ipoteticamente utile per facilitare l’apprendimento e la gestione delle classi. Il grande pedagogista svizzero Adolphe Ferrière (1879-1960), a un certo punto della sua carriera di studioso, aveva approfondito la possibilità di istituire le classi in base al segno zodiacale. Meno originale, invece, l’idea di dividere gli allievi in base al rendimento scolastico. È un uovo di Colombo (pedagogico) abbastanza ricorrente nelle discussioni tra insegnanti esasperati, che peraltro si avvicina ai famosi «livelli» della nostra scuola media – non mi pare con chissà quale profitto. Qualche anno fa, forse nel 2004, il governo britannico si era addirittura impossessato della brillante idea di raggruppare gli allievi in base al quoziente intellettivo, nell’intento di migliorare le prestazioni scolastiche di ognuno: non so che fine abbia fatto quella pensata, ma non risulta che la scuola inglese sia ultimamente assurta agli onori per il suo sistema scolastico all’avanguardia.

Adolphe Ferrière (1879-1960)
Adolphe Ferrière (1879-1960)

Personalmente, a dire il vero, ritengo che le classi migliori siano quelle più eterogenee. Più differenze ci sono, più ci sono possibilità di arricchirsi e di imparare nuove cose. Fosse per me introdurrei le pluriclassi nella scuola elementare e toglierei i livelli alla scuola media, accompagnando la misura con qualche modifica strutturale. Ma è chiaramente una posizione in controtendenza rispetto a chi è alla perenne ricerca di qualche trucchetto (semplice, per carità; e soprattutto a costo zero) che dovrebbe semplificare un compito che è tutto fuorché facile. Così si continua imperterriti a funzionare sul dogma dell’omologazione dei gruppi: non potendosi accontentare dell’età, si vorrebbero aggiungere, qua e là, altre combinazioni, come quella – appunto – del sesso. Ci si scorda però, o almeno si finge, che gran parte delle classi scolastiche hanno già subito una severa selezione economica e culturale, che sfugge al controllo della nomenklatura governativa e parlamentare. Città, borghi, paesi e quartieri hanno caratteristiche proprie: non si abita casualmente a Origlio o nel quartiere Semine di Bellinzona, tanto per fare un esempio. E allora sarebbero utili delle misure di accompagnamento più mirate e diversificate, per affrontare i veri problemi di ogni sede scolastica, perché non è vero che è la stessa cosa insegnare in una qualsiasi sede del cantone: alcune sono, diciamo così, più facili di altre, anche grazie alle stesse regole che determinano il numero di allievi per classe o l’attribuzione di operatori del sostegno pedagogico. Addirittura sono uguali gli stipendi degli insegnanti. Le regole del gioco, insomma, sono le stesse da Airolo a Chiasso, a tutto vantaggio di chi i vantaggi li ha già nel pedigree. Lasciamo dunque perdere maschi e femmine, e vediamo di occuparci di cose più serie.

Le scuole comunali si profilano

L’Ufficio delle scuole comunali del DECS ha diffuso in gennaio il «Profilo professionale di riferimento per i docenti delle scuole comunali», una descrizione accurata delle competenze e dei comportamenti attesi dai docenti e riferiti al lavoro in sezione con gli alunni, alla preparazione, alla formazione, alla vita di istituto, alle relazioni con i colleghi, le autorità, i genitori, la comunità locale. Composto da sessanta competenze suddivise in sette aree, che vanno dalle competenze di base alla programmazione, dalla valutazione alla vita d’istituto, il documento è il frutto di un lavoro di riflessione che il Collegio degli ispettori ha riservato alla figura e al mandato dei docenti di scuola dell’infanzia ed elementare, cercando gli elementi che ne caratterizzano la professione, identificandoli, precisandoli, esplicitandoli e organizzandoli in un testo organico. Come detto, il «Profilo» è stato trasmesso ai diretti interessati – insegnanti, uffici dipartimentali, direttori e ispettori – nonché alle autorità comunali, alle associazioni magistrali e alla conferenza cantonale dei genitori. Forte di una risoluzione dipartimentale (del marzo dell’anno scorso) secondo cui esso rappresenta un punto di riferimento centrale per lo sviluppo della politica scolastica comunale e cantonale, l’Ufficio delle scuole comunali ha iniziato a promuovere contatti e incontri con tutti i possibili interessati, affinché entro la fine del prossimo anno scolastico sia possibile la messa a punto della sua versione definitiva, che sarà oggetto di approvazione da parte del Dipartimento e che, dunque, diventerà la Magna carta delle scuole comunali, nell’intento di oltrepassare i grandi enunciati di principio che fondano tutti i sistemi scolastici e, in fin dei conti, per illustrarne la giusta applicazione. In quest’epoca dominata da copiose contraddizioni e da un’abissale confusione, l’intento dei nostri ispettori è ammirevole: mettere un po’ di ordine nei compiti della scuola è un atto dovuto, affinché tutti gli attori coinvolti – dai genitori alle autorità comunali, dai docenti ai direttori agli stessi ispettori – sappiano quali sono le effettive spettanze delle scuole comunali; meglio ancora: che sia chiaro quali impegni non possono toccare alle maestre e ai maestri, come ad esempio surrogare psicoterapeuti, psichiatri, consulenti familiari e assistenti sociali per fronteggiare “patate bollenti” di cui ben altri professionisti si dovrebbero occupare.
Nondimeno bisogna pur dire che, nel suo complesso, la versione attuale del documento non è esente da alcune ridondanze e da qualche specialismo di troppo. Sarà dunque utile lavorare sodo nei prossimi mesi affinché la versione ultima che sarà convalidata dal DECS riesca a tratteggiare un profilo esaustivo che, nel contempo, non lasci adito a equivoco alcuno: una fatica di non poco conto, se solo si considera che l’insegnante ideale non è solo il frutto di un complesso di conoscenze professionali via via arricchite dall’esperienza. Far scuola giorno dopo giorno a una classe di bambini o ragazzi, educandoli e insegnando loro «a scrivere, leggere e far di conto», per riassumerla con uno slogan ancora attuale, significa svolgere un’attività sempre in bilico tra professionismo e artigianato, di solito per alcuni anni a contatto quotidiano con individui che, nella loro irripetibilità, richiedono uno sforzo e un’originalità pedagogica che soverchiano i contenuti di ogni manuale di pedagogia o di scienze dell’educazione. Se – come recitano le prime competenze che s’incontrano nel «Profilo» – l’insegnante deve possedere una buona cultura umanistica e generale e deve padroneggiare una lingua (italiana!) ricca e articolata, allora significa che ci si prefigge un modello umanista, che mette in risalto un insegnante erede della storia della scuola e della pedagogia, un Maestro ben lontano da tante correnti ingegneristiche dei nostri tempi. Sarà dura, ma è questa la strada da percorrere per garantire un futuro di eccellenza a livello educativo e di apprendimenti.

HarmoS: accordi, disaccordi e indifferenza

Quasi mezza Svizzera ci applaude. L’altra metà non si sa. Ci voleva la ratifica di dieci cantoni per far decollare HarmoS, l’accordo intercantonale sull’armonizzazione della scuola obbligatoria e il Gran Consiglio ticinese, appunto, ha dato il suo placet il 17 febbraio. La raccolta di firme per sottoporre il voto del parlamento al popolo, lanciata dal «Noce» del sindaco di Bellinzona insieme ai giovani UDC e al sindacato studenti e apprendisti, è stato sepolto da una sonora risata: un migliaio le firme raccolte, contro le settemila richieste, senza che la piazza riuscisse minimamente a scaldarsi. Ora, dunque, in quattro cantoni svizzero-tedeschi, in quattro cantoni romandi, in Vallese e in Ticino l’accordo, che prima o poi dovrà pur diventare nazionale, entrerà nella sua fase operativa, anche se sul lungo termine è difficile ipotizzare come sarà possibile mettere d’accordo tutti i ventisei cantoni e semi-cantoni senza troppo stemperare i contenuti dell’intesa. Al momento attuale già tre cantoni e mezzo l’hanno respinta in votazione popolare; si voterà invece a Berna e a Zugo, mentre a Friborgo il termine per la raccolta delle firme è scaduto nei giorni scorsi. Mancano comunque all’appello in nove, tra cantoni e semi-cantoni: come si vede, per intanto imperversa il disaccordo. Viene poi da sorridere a immaginare cosa farà la Confederazione quando tutti si saranno espressi e sarà chiara la geografia degli integrati e degli autonomisti: perché è giusto ricordare che la Berna federale potrà obbligare i cantoni riottosi ad aderire alle convenzioni intercantonali, anche se occorrerà far sì che la nuova zuppa di Kappel non risulti indigesta e annacquata, rischiando di vanificare l’ambizioso patto.
Fino ad oggi HarmoS non ha infiammato più di tanto noi ticinesi. Già dai blocchi di partenza abbiamo ottenuto qualche favore, come la possibilità di mantenere la nostra scuola elementare di cinque anni e la media di quattro. L’altra Svizzera italiana, quella grigionese, si è già tirata fuori, a rimorchio del suo cantone, che ha bocciato l’accordo in votazione popolare a fine novembre. Per chi ha aderito ad HarmoS ci sono per ora solo due paletti ben chiari: che la scuola dell’obbligo durerà due anni in più e che la data di riferimento per il debutto sarà il 31 luglio per tutti (o, almeno, per chi avrà deciso di far parte dell’Elvezia armonizzata). Si tratterà ora di capire in che misura il nostro cantone, che in pratica è anche regione linguistica a sé stante, sarà in grado di seguire i dettami di HarmoS senza uscirne con le ossa rotte e magari guadagnando in qualità. Dietro l’angolo ci sono la definizione di un piano di studio e gli standard nazionali di formazione. A differenza delle altre regioni linguistiche noi non dovremo andare alla ricerca di nuovi accordi e di altri compromessi in vista del piano di studio: si può immaginare che ci terremo i nostri programmi e amen. Con la trasformazione della scuola dell’infanzia da facoltativa a obbligatoria, sarà tuttavia interessante capire da una parte come il carattere vincolante dell’inizio a quattro anni sarà interpretato e attuato; dall’altra come gli attuali «Orientamenti programmatici per la scuola dell’infanzia» si integreranno a pieno titolo nel piano di studio ticinese, affinché l’obbligatorietà votata dal parlamento sia poi in grado di convincere anche quelle famiglie che storcono il naso nel vedersi i figli sottratti precocemente dallo Stato.
Quanto agli standard nazionali di formazione per la scolarità obbligatoria, che riguardano sia le competenze da acquisire (standard di prestazione), che i contenuti di alcuni settori della formazione, si sa che già ora sono in atto degli scontri accaniti tra le due altre aree linguistiche, ognuna delle quali seriamente intenzionata a promuovere la proprie scelte precedenti. Come si posizionerà il Ticino tra questi due fuochi incrociati è difficile prevederlo, cullando però la speranza che i nuovi modelli nazionali rappresentino degli strumenti per pilotare il miglioramento costante della scuola e non si limitino a legittimare i risultati esistenti, che – PISA insegna – non sempre hanno destato entusiasmo.

Troppa pedagogia!

«A mio modo di vedere nella scuola ticinese c’è un eccesso di pedagogia. I docenti si sono trasformati in assistenti sociali, attenti solo alle dinamiche relazionali. L’istruzione strettamente detta viene sempre meno». Questo è il concetto di pedagogia secondo il professor Danilo Boggini, presidente di quel collegio dei docenti del liceo di Bellinzona che nei giorni scorsi ha lanciato il suo «Appello per la scuola», affinché i genitori di questo cantone possano «… essere compiutamente informati in merito alla scuola che frequentano i nostri figli». Ohibò! Che la scienza di Socrate e Quintiliano, di Rousseau e Pestalozzi, di Freinet e don Milani diventi uno strumento per trasformare gli insegnanti in assistenti sociali, non è solo una bufala, ma una sparata che deve far riflettere. È ovvio che il pulpito dal quale scende la predica ha la sua importanza. E il pulpito, in questo caso, è quello del liceo, una scuola post-obbligatoria che, giustamente o meno, ha tassi di selezione particolarmente elevati, soprattutto durante il primo biennio. Il che, di per sé, non deve scandalizzare. Si potrebbero dire tante cose sull’impostazione di fondo dell’appello bellinzonese, ed altri lo stanno facendo meglio di me. Ma non si possono nemmeno sottacere talune contraddizioni.
Ad esempio non sta in piedi affermare da una parte che, per colpa dei tagli ai bilanci, «non ci sono più risorse sufficienti per un’offerta adeguata di corsi di sostegno e di recupero» e, dall’altra, dire che sarebbe necessario diminuire drasticamente il numero degli studenti liceali. Nessuno pretende che il liceo, scuola che avvia a studi terziari, debba dotarsi del sostegno pedagogico o di altri approcci tipici della scuola dell’obbligo. È forse utile ricordare che c’è una sostanziale differenza tra sostegno pedagogico e recupero: il primo è materia da specialisti dell’apprendimento ed è una tipica struttura della scuola dell’obbligo. Il secondo, più semplicemente, è un modo per dare una mano a chi, di tanto in tanto, fa fatica a seguire qualche insegnamento specifico: e nella scuola elementare fa parte dei normali compiti dell’insegnante, senza bisogno di monte-ore. Tuttavia anche il liceo ha bisogno della sua specifica pedagogia: per insegnare non è sufficiente “sapere le cose”. Insegnare, per contro, significa fornire nozioni teoriche o elementi pratici affinché l’allievo impari, costruisca nuove competenze, le arricchisca, diventi un cittadino curioso, consapevole, partecipativo. E ancora, la pedagogia ci soccorre nel momento della valutazione: le note – purtroppo – sono spesso un cocktail di soggettività e convinzioni del tutto personali e raramente esplicitate. Dimostrare delle competenze o delle conoscenze non significa limitarsi a restituire nozioni a memoria, col bel risultato che, ogni tanto, non sono i migliori a proseguire, bensì i più furbi o fortunati.
Se però volessimo fare a meno della pedagogia, potremmo muoverci come quel liceo svizzero-tedesco che, nel 2004, aveva lanciato un progetto pilota: lezioni senza docente per promuovere l’apprendimento individuale; gli allievi ricevono una lista di “cose da sapere” e devono sbrogliarsela da soli. Gli insegnanti saranno presenti per assisterli solo per un’ora settimanale (invece delle odierne tre o quattro), salvo ovviamente essere raggiungibili tramite posta elettronica. A quel punto sarebbe sufficiente organizzare due o tre sessioni d’esame, prendendo due piccioni con una sola fava: da una parte si risparmierebbero un bel po’ di milioni, dall’altra si omologherebbero le valutazioni, senza più perverse differenze da un metro di giudizio all’altro. A ben pensarci è ben più affascinante vagheggiare un liceo rispettoso, serio, rigoroso, dove il maggior numero possibile di studenti acquisisce il maggior numero possibile di conoscenze e di competenze. Anche perché, come ha scritto don Lorenzo Milani, «Bocciare è come sparare in un cespuglio. Forse era un ragazzo, forse una lepre. Si vedrà a comodo». E aggiungeva: «La scuola ha un problema solo. I ragazzi che perde». Anche questa è pedagogia.

Questa scuola malata, specchio della società

L’editore locarnese Armando Dadò ha recentemente parlato delle «Malattie della scuola» in un articolo sul Giornale del Popolo. Citando a piene mani uno scritto del politologo Giovanni Sartori, che si era espresso mesi prima sul Corriere della Sera, Dadò si chiede, retoricamente, se anche la scuola ticinese ricalchi i gravi malanni tratteggiati dall’illustre professore italo-americano: il sessantottismo funesto, che «cavalcando la tigre dell’antielitismo, ha distrutto il principio del merito producendo la ‘società del demerito’ che premia i peggiori e gli incapaci a danno dei competenti e dei migliori». Poi «il progressivismo pedagogico, che ha infestato tutta la disciplina». Infine la cosiddetta democratizzazione degli studi, che ha contribuito a creare una società parassitaria dove tutti vorrebbero laurearsi e che «alimenta la insensata corsa universale al ‘pezzo di carta’ del titolo universitario». Dal canto suo Dadò, per completare il quadro, aggiunge i molti allievi che arrivano da altre parti del mondo, lo sfascio di molte famiglie, i disastri televisivi e di altri mezzi elettronici e la diffusione sempre più allargata di droga e alcool.
Un quadretto non proprio bucolico, quello tratteggiato da Sartori e ritoccato da Dadò: è vero che il ’68, in tal senso, rappresenta una sorta di demarcazione tra un prima e un dopo, che tuttavia ha investito la società tutta. Sarebbe ingeneroso, oltre che falso, affermare o – peggio ancora – credere sul serio che il dopo sia stato progettato e realizzato dalla scuola. La benemerita istituzione, lo si voglia o no, è specchio della propria società, tanto che i malanni di cui soffre riflettono pari pari quelli che affliggono il nostro vivere. Il problema, semmai, è che le distanze generazionali – cioè le differenze culturali da una generazione a quella successiva – si sono incredibilmente ampliate in meno di cinquant’anni, grazie in parte a un autoritarsimo che, per buona sorte, è scemato pian piano a partire dagli anni ’70, e in altra parte alla formidabile accelerazione delle forme di comunicazione di massa, dapprima con l’espansione dei tradizionali media elettronici e poi con l’informatica, che si è ormai impadronita di ogni anfratto della nostra quotidianità. Non si scordi, per fare qualche esempio, che ancora nei primi anni ’80 era difficile telefonare dalla Sardegna al Ticino, alla faccia dei telefonini di oggi. E nemmeno ci si dimentichi che il primo Macintosh, vera chiave di volta della diffusione dell’informatica, ha visto la luce solo venticinque anni fa… Se oggi, dunque, siamo al caos sociale e al disorientamento che accomuna un po’ tutti, non si può incolpare la scuola. Chissà, insomma, se il prof. Sartori, e con lui l’editore Dadò, guardano la televisione, leggono i giornali e seguono anche solo distrattamente le cronache politiche? Anche quella è pedagogia. Anche i giornali, la televisione e i politici educano i cittadini.
Quanto al «progressivismo pedagogico» buttato lì da Sartori come un’ingiuria, occorrerebbe capire a cosa ci si riferisce. Rammento che Pestalozzi, che con la sua «Lettera ad un amico sul proprio soggiorno a Stans» impresse, oltre due secoli fa, una svolta radicale al pensiero pedagogico attuale, è più facile trovarlo sui nomi delle strade che non dentro le aule scolastiche. Il capostipite della pedagogia moderna e i tanti discendenti – da Dewey a Freinet, da Korczak a Freire, da Claparède a Don Milani, alla nostra Boschetti-Alberti – non hanno mai attecchito, anche perché quasi sempre invisi ai poteri che si sono succeduti nel tempo. Poi bisogna pur dire che questo fondamentale patrimonio pedagogico sta vieppiù svanendo, vittima di una società contraddistinta dal tutto e subito, dalla compulsione al consumo e dall’edonismo. Eppure Pestalozzi & co. anelavano a educare e istruire anche coloro che più li detestavano, gli anelli più deboli della società, quelli che della scuola proprio se ne fanno un baffo: il che non significa certo progettare la «società del demerito», anzi! Quella, semmai, è una creatura moderna, vittima di scelte politiche sciagurate: le malattie delle scuola, insomma, si nutrono dell’aria pestilenziale che si respira.

Dai margini dell’aula: esperienza, pensiero critico e qualche nota fuori dal coro