Stando alle intenzioni del Consiglio di Stato, che ha licenziato nei giorni scorsi il suo messaggio al parlamento, l’alta scuola pedagogica (ASP) di Locarno sparirà presto dall’organigramma del DECS per trasformarsi in dipartimento della SUPSI: «Con questo ulteriore passo – si legge nel messaggio – si tratta di far beneficiare l’ASP dei vantaggi che verranno conseguiti entrando a far parte di una struttura universitaria di più ampio respiro, approfittando delle risorse di carattere generale, ma anche di carattere specifico dei suoi singoli indirizzi di studio, che la SUPSI può mettere in campo sul piano dell’attività didattica di base, dell’offerta di aggiornamento per i bisogni del Paese, nonché della ricerca applicata e dello sviluppo». Sta di fatto che anche l’ASP perderà parte della sua autonomia, per diventare parte integrante di un istituto universitario di diritto pubblico, con tutto quel che ne può conseguire all’atto pratico.
Naturalmente, e non poteva essere che così, c’è già chi ha messo le mani avanti e si dice preoccupato, facendo capire che questo matrimonio non s’ha da fare, almeno non nei modi previsti dai nostri sensali: perché, anche in questo caso, chi parte sa cosa lascia ma non sa cosa troverà. Eppure quest’ulteriore cambiamento – il secondo in meno di venticinque anni – non modifica sostanzialmente il quadro di partenza: l’ASP resta una scuola magistrale, i cui compiti sono la formazione di base degli insegnanti delle scuole comunali, l’abilitazione pedagogica degli altri, l’aggiornamento e la formazione continua di tutti.
Che poi, a partire dalla seconda metà degli anni ’80, si sia deciso di “terziarizzare” questa formazione è un altro discorso. Si può essere o meno d’accordo sulla necessità di portare la formazione degli insegnanti a livello universitario; si tratta però di un processo inarrestabile, diffuso a livello nazionale e internazionale, che non sarà possibile interrompere e che sarebbe paradossale anche solo pensarlo. A questo punto l’inserimento dell’ASP nella SUPSI è dunque più che sensato, anche perché l’istituto di formazione attuale non è né carne né pesce. La magistrale post-liceale di tre anni dopo la maturità si era riversata pari pari nell’attuale ASP, diventando di livello terziario per durata, ma non possedendo né la mentalità né i mezzi dell’istituto universitario.
Nel frattempo, tuttavia, restano intatti i problemi della scuola di tutti i giorni, quelli dei docenti delle scuole dell’infanzia, elementari, medie e medio-superiori, confrontati con gli allievi del terzo millennio, che sono sempre più diversi dai loro coetanei di tutte le generazioni che li hanno preceduti. A ciò s’aggiunga la maggior complessità delle realtà socio-culturali ed economiche odierne. Ergo: insegnare ed educare diventa un compito vieppiù problematico. La mediazione tra le conoscenze acquisite in molteplici ambiti delle scienze dell’educazione e le esigenze della scuola dell’obbligo e dei suoi insegnanti è la vera scommessa che, se persa, genererà danni irreversibili e gravi. Per certi versi è normale e legittimo che lo specialista universitario, un po’ ricercatore e un po’ docente, si concentri sul suo ambito specifico; ma i docenti hanno bisogno di competenze efficaci per affrontare la classe nella sua quotidianità multiforme, eterogenea e complessa. L’istruzione di massa ha azzerato l’assunto, invero un po’ ipocrita, secondo cui è sufficiente “sapere le cose” e avere un po’ di “vocazione” per essere un bravo insegnante. Oggi non è più sufficiente riempire la testa dei futuri docenti di competenze disciplinari e saperi pedagogici per metterli in condizione di affrontare le classi di oggi e contribuire per davvero a forgiare buoni insegnanti. La proposizione di Edgar Morin secondo cui a teste ben piene sono preferibili teste ben fatte deve valere anche per i docenti. Sennò si rischia di continuare a mandare al fronte dei soldati in braghe corte, armati col retino per farfalle.
Docenti: mala tempora currunt
Prendendo spunto dai recenti episodi accaduti alle scuole di Minusio e Camorino, dove «le autorità comunali e scolastiche si sono trovate a fronteggiare contestazioni massicce da parte di genitori infuriati», Oliver Broggini ha steso un appassionato commento a difesa dei nostri insegnanti – «Eroi a rischio di estinzione» (Corriere del 18 settembre) – sempre più spesso vittime predestinate di genitori che, alla prima contrarietà, non esitano ad alzare la voce, a picchiare i pugni sul tavolo e a lanciare fragorose petizioni, naturalmente con l’inevitabile comunicato stampa. E la stampa, di solito, ci sta.
Oggi gli insegnanti non godono più della stima che avevano ai tempi in cui sedevano sullo stesso scranno accanto al sindaco e al curato – e anche quest’altri non hanno troppi motivi per montarsi la testa. Ripercorrere le cause di questa decadenza sarebbe lungo e non necessariamente utile, soprattutto se si pensa che quella dell’insegnante è una professione che ha stretti legami con la tradizione e una buona dose di consuetudini: basterebbe pensare che la struttura quasi paradigmatica del funzionamento di una classe – un’aula, un docente, un gruppo di allievi – è ancora quella delle origini, che risale, nella forma attuale, a quasi due secoli or sono.
Poi, col tempo, ci si sono messi un po’ tutti. Ad esempio non è più chiaro quali siano le reali finalità della scuola – e penso in primo luogo a quella dell’obbligo. In altre parole, è difficile trovare il consenso attorno a quelle due o tre imprescindibili essenzialità. Un conto è dire che la scuola deve insegnare a leggere, a scrivere e a far di conto, un altro stabilire cosa ciò significhi in realtà e nei diversi gradi, dalla prima elementare alla quarta media. Poi non c’è problema, più o meno emergente, di cui la scuola non debba o non possa occuparsi: negli ultimi decenni il parlamento e l’opinione pubblica hanno gonfiato i programmi a dismisura, impilando lingue su lingue, oltre all’educazione sessuale, stradale, alimentare, alla cittadinanza ed ecologica – con un po’ di fantasia ogni lettore può completare l’elenco a piacere. Non passa giorno senza che le direzioni scolastiche ricevano proposte didattiche dalle fonti più incredibili, da diffondere naturalmente a tutti gli insegnanti: sempre attività dai contenuti edificanti e politicamente corretti. A queste condizioni diventa impossibile far crescere e consolidare delle effettive competenze; la conseguenza è che chi può – chi, cioè, ha la fortuna di essere nato col cucchiaio d’argento in bocca – tali saperi li costruirà soprattutto in ambito familiare, perpetuando così, con la complicità di un sistema formativo sempre più disorientato, una bieca selezione sociale.
Insomma: uno dei perni principali della scuola resta pur sempre l’insegnante, che dovrebbe però agire sulla scorta di direttive chiare e di un profilo formativo adeguato. Sull’ambiguità delle direttive – in sostanza programma e obiettivi ben definiti – ci siamo capiti. Quanto al profilo formativo, sarebbe necessario aprire un altro capitolo. Non si può, però, continuare a far finta di niente. In vent’anni la società si è fatta innegabilmente più complessa, e con lei il lavoro di chi è sul campo a contatto giornaliero con allievi, studenti e genitori annessi – concretamente presenti o evanescenti come l’aria. E pure i percorsi di formazione per accedere alla funzione si sono allungati: liceo e tre anni all’ASP per i docenti delle scuole comunali, bachelor o master e due anni di formazione pedagogica per quelli del settore medio. Sul fatto, poi, che a questi tempi allungati corrispondano maggiori capacità professionali è ancor tutto da dimostrare: i più recenti raffronti internazionali – tanto per fare il primo e più facile esempio – parlano un latino abbastanza semplice. Non è invece da documentare che i salari e le possibilità di carriera sono rimasti al palo. Tra le due constatazioni c’è un abisso strutturale e concettuale che occorrerà colmare un po’ in fretta, evitando di nascondersi dietro le trite leggende della missione e dei tre mesi di vacanza.
Scolarizzazione precoce tra obbligo e facoltà di scelta
HarmoS sta irritando molti svizzeri. Da qualche mese in diversi cantoni si sono aperte le danze attorno all’Accordo intercantonale sull’armonizzazione della scuola obbligatoria – HarmoS, appunto – approvato un anno fa dalla Conferenza svizzera dei direttori cantonali della pubblica educazione (CDPE). A far discutere, per ora, è l’anticipo dell’età per iniziare la scuola obbligatoria, prescritto a quattro anni. L’iter per far sì che l’accordo vada in porto è ancora lungo e non certo privo d’intoppi. Intanto i diversi parlamenti lo dovranno approvare o respingere. Ma ovviamente dietro ogni voto vi sarà spesso in agguato il referendum. Ad esempio alcuni cantoni dovranno presto recarsi alle urne per assecondare il proprio parlamento, o per sconfessarlo.
Nel nostro cantone sembrava che l’anticipo dell’età obbligatoria per iniziare la scuola non dovesse porre problemi, dato che da noi c’è la possibilità già da decenni di iniziare anche prima, a tre anni. Tant’è vero che pressoché tutti i bimbi di quattro e cinque anni frequentano la scuola dell’infanzia, mentre quelli di tre anni, a volte non accolti per motivi di spazio, raggiungono in ogni caso percentuali di tutto rispetto. Eppure da qualche mese anche in Ticino ha cominciato a circolare qualche perplessità. Ma come – sembrano dire gli scettici – già lo Stato sottrae i figli alle famiglie a sei anni, e ora si vogliono addirittura aggiungere altri due anni di vincolo statale? Sembrerebbe insomma che questo continuo allungare le mani sui bambini per toglierli sempre più presto alle famiglie sia vissuto, almeno da taluni, come una pericolosa ingerenza nelle competenze dei genitori, che si vedrebbero sempre più impotenti nelle scelte educative dei propri figli.
Per certi versi il dissenso, detto così, fila via liscia come l’olio. È pur vero che con sempre maggiore insistenza molti chiedono a gran voce che la cellula primaria della nostra società – la famiglia, appunto – torni a rivestire quel ruolo fondamentale per la costruzione di un sistema di valori ispirato alla migliore tradizione democratica (e per taluni anche cristiana). E non è certo allontanando i figli in tenerissima età dalla famiglia che si responsabilizzano padri e madri. Poi, dall’altra parte, numerosi studi in materia di educazione dicono che l’istruzione sempre più precoce è un importante investimento sul futuro di molti potenziali scienziati e letterati. Mancano comunque, almeno sino ad ora, prove sicure.
Ma non si può nemmeno tralasciare il fatto che negli ultimi decenni l’educazione di piccoli e grandi è passata di mano: dalle scelte consapevoli di genitori in chiaro sul loro ruolo educativo, il testimone si è trasferito alla TV e ai media elettronici in generale. Da quando i bambini sono diventati un soggetto commerciale di enorme rilevanza economica, sono aumentati a dismisura, e in modo assolutamente incontrollato, i canali televisivi, coi loro quiz, i giochini scemi che possono arricchirti in un attimo, i telefilm insulsi. E, naturalmente, i maghi della persuasione occulta si sono moltiplicati come insetti da laboratorio genetico.
Che fare, dunque? Certamente vi saranno famiglie che possono fare a meno della scuola per crescere bene i loro figli e per insegnar loro l’arte di comunicare sin dalla più tenera età. Per loro lo statu quo è il migliore dei mondi possibili: se voglio posso mandare mio figlio all’asilo, ma non devo. Nel contempo – detto di transenna – crescono, anche da quelle stesse famiglie, le richieste di potenziamento delle strutture scolastiche di accoglienza (vedi nidi dell’infanzia, servizi di refezione, doposcuola): e a questo livello pare lampante almeno una buona dose di incoerenza. Eppoi: siamo sicuri che la scuola sia in grado di opporsi allo strapotere dei massmedia, della creazione di bisogni fittizi, del consumo sempre più massiccio dell’utile e dell’inutile? Guardando l’evoluzione degli ultimi trent’anni non si direbbe proprio.
La violenza giovanile tra il dire e il fare
Come si sa, il passato anno scolastico è stato caratterizzato da un’impennata di atti di bullismo e di violenza d’ogni genere che hanno occupato le cronache praticamente dal primo all’ultimo giorno di scuola: si è trattato, a ben vedere, del logico prolungamento di una serie che cresce a ritmo esponenziale, ciò che ha indotto un susseguirsi di prese di posizione tra le più dissimili, spesso con qualche punto in comune. Uno tra tutti: la corsa frenetica a trovare al più presto qualche rimedio. Dopo l’assurda morte di Damiano Tamagni a Locarno, il Governo ha reagito istituendo il «Gruppo Operativo Giovani-Violenza-Educazione», composto da una dozzina di persone in rappresentanza dei più disparati ambiti che hanno a che fare con l’universo giovanile. Già in giugno il gruppo aveva stilato un suo rapporto, proponendo al pubblico dibattito una trentina di misure, per lo più di tipo repressivo. Posto che occorre in ogni modo escogitare in fretta i giusti rimedi per fermare il fenomeno, stupisce l’assenza di ogni minima misura di tipo educativo, almeno sul medio termine. È chiaro che l’emergenza chiama a gran voce qualche modifica sul grado di responsabilità dei singoli, siano essi genitori, giovani più o meno maggiorenni, magistrati o poliziotti. Ma non credo che sia possibile rinunciare all’insostituibile ruolo dell’educazione e della scuola.
Nell’ultimo decennio molti istituti scolastici hanno dedicato innumerevoli progetti al problema della violenza. Ad esempio, da noi è circolata una mostra interattiva che ha avuto un grande successo: «Conflitti, litigi e altre rotture», rivolta essenzialmente a ragazze e ragazzi dagli 11 ai 16 anni, ma che ha fatto tappa anche in molte scuole elementari. Il suo ideatore, il pedagogista Daniele Novara, ha tenuto conferenze da Airolo a Pedrinate; la sua mostra è stata acquistata dal Cantone e ha fatto tappa in tantissimi istituti, ma non ha inciso sul fenomeno del bullismo, della violenza giovanile, dell’alcolismo precoce (poi ammetto che manca la controprova: magari senza queste attività saremmo alla guerra civile). Eppure il progetto era forte e aveva saputo cogliere con un certo anticipo gli estremi di un fenomeno ancora in embrione. Come mai tante energie e tanti sforzi sono serviti a così poco?
Gli è che nell’ultimo quarantennio anche le scienze dell’educazione – una nebulosa che sarà opportuno ridefinire con una certa urgenza – hanno un po’ perso la bussola. È facile imbattersi in progetti che tendono purtroppo a separare l’educazione dall’istruzione. L’educazione civica – o educazione alla cittadinanza, per usare una definizione più alla moda – non è un insegnamento che può essere trattato come una qualsiasi disciplina scolastica. Più ancora che l’italiano o la matematica (o lo studio del violino), la civile convivenza dev’essere praticata con rigore e, soprattutto, coerenza. Non ci si può limitare a raccontare e declamare tutto ciò che sembra giusto, cristianamente o laicamente: perché fin lì siamo tutti d’accordo con quasi tutti i dieci comandamenti. Però, come in tutte le umane cose, tra il dire e il fare c’è sempre di mezzo qualche intoppo. La tolleranza – per esemplificare – non la si impara «in teoria», ma la si deve vivere sulla propria pelle. E non c’è nulla di peggio che fare i giochini didattici sull’altruismo, l’integrazione e le regole della civile convivenza – ergo: parlarne e magari fare anche i test – per concludere poco e riappacificarsi ipocritamente con la propria coscienza. Meglio sarebbe se le classi costruissero queste attitudini mentre stanno imparando qualche essenzialità: come parlare, scrivere e leggere in buon italiano; come risolvere problemi; come apprezzare il bello della natura, del cosmo e dell’arte. Forse è giunto il tempo di ritrovare la grande valenza della pedagogia del rigore e della serenità, in antitesi a tutte le scorciatoie educative di questo strano tempo, che sovreccita i suoi figli sin dalla più tenera età e poi li cura col Ritanil.
Cosa deve conoscere il prof di matematica?
Qualcosa non quadra, nei requisiti richiesti per insegnare nella nostra scuola media. Per diventare, poniamo, docente di storia è necessario prima di tutto aver conseguito un bachelor in storia (appunto) presso un’università. È un percorso di almeno sei semestri di studio. Una volta acquisito il bachelor, lo studente che intende passare al di là della cattedra è tenuto a frequentare la cosiddetta formazione pedagogica dispensata dall’Alta Scuola Pedagogica (ASP), somministrata sull’arco di due anni, grosso modo a metà tempo. A quel punto – dunque attorno a 25 anni se tutto fila liscio come l’olio, scuola reclute compresa – otterrà l’agognato diploma per l’insegnamento nel livello secondario I, che sarebbe poi la nostra scuola media.
Sul Foglio Ufficiale dello scorso 15 aprile è invece apparsa l’iscrizione al corso di formazione complementare per docenti di matematica per la scuola media, che si rivolge essenzialmente a chi ha la patente di docente di scuola dell’infanzia o di scuola elementare, con un’esperienza di insegnamento di almeno tre anni. Il corso si srotolerà sull’arco di tre anni scolastici: i pretendenti alla cattedra dovranno calcolare di essere occupati “di regola, il giovedì e il venerdì e in parte fuori dall’orario scolastico (vacanze, mercoledì pomeriggio, tardo pomeriggio, sabato)”. Con circa un terzo dell’impegno, dunque, potranno far valere una competenza parificata a quella di chi percorre il naturale itinerario, attraverso l’università e l’ASP: e già questo è un bel mistero, se solo si pensa che i maestri attualmente in carica, giovani o anziani che siano, hanno interrotto la loro formazione in campo matematico al termine della magistrale seminariale – chiusa vent’anni fa – o del liceo. È sicuramente questa la principale contingenza che ha spinto il granconsigliere Francesco Cavalli a interpellare il Consiglio di Stato, chiedendo con una punta di sarcasmo: «Per insegnare la matematica nelle scuole medie è ancora necessario conoscere la matematica?».
Non appartengo a quell’affollata schiera di persone, tra cui – purtroppo – molti docenti del secondario, che snobba la pedagogia e la didattica, sostenendo che la profonda conoscenza della propria disciplina e buone doti di comunicazione e di passione siano più che sufficienti per tratteggiare il buon insegnante. Ma è ovvio che per insegnare la matematica occorre conoscerla; inoltre, anche se sembra una banalità, è necessario padroneggiarla ben oltre gli obiettivi del settore scolastico in cui si insegna. Nel caso del corso in questione, come sottolinea Cavalli nella sua interpellanza, stupisce poi che «… un docente di scuola elementare con alle spalle la formazione pedagogica ricevuta alla scuola magistrale e una buona pratica didattica, dovrebbe rinunciare per tre anni alla metà del già magro stipendio, per affrontare sostanzialmente insegnamenti già ricevuti durante la precedente formazione ».
Intendiamoci: il tentativo di creare all’interno della scuola delle possibilità di carriera, o di mobilità tra un settore e l’altro, è certamente encomiabile. Ma il dubbio è che l’obiettivo che si intende perseguire sia un altro: più che alla soddisfazione dei propri docenti, il Dipartimento sembra correre ai ripari per sopperire alla carenza di insegnanti, in questo caso di matematica. C’è tuttavia da sperare che i maestri ai quali si rivolge la lusinga – che ricorda molto da vicino la più classica delle mele avvelenate – non si spintonino troppo per avere accesso al corso (il F. U. specifica che saranno ammessi solo 20 candidati idonei). Così come lo si può leggere, e sorvolando volutamente sulle peculiarità della formazione pedagogica e didattica proposta, sembrerebbe che gli unici maestri che potrebbero concretamente imboccare il cammino senza tanti patemi economici siano quei giovani precari che devono accontentarsi di qualche effimero incarico a metà tempo: ma quale potrà mai essere la motivazione di un giovane che, non potendo esercitare la professione scelta, dovrà ripiegare sul professore di matematica alle medie?