Qualcosa non quadra, nei requisiti richiesti per insegnare nella nostra scuola media. Per diventare, poniamo, docente di storia è necessario prima di tutto aver conseguito un bachelor in storia (appunto) presso un’università. È un percorso di almeno sei semestri di studio. Una volta acquisito il bachelor, lo studente che intende passare al di là della cattedra è tenuto a frequentare la cosiddetta formazione pedagogica dispensata dall’Alta Scuola Pedagogica (ASP), somministrata sull’arco di due anni, grosso modo a metà tempo. A quel punto – dunque attorno a 25 anni se tutto fila liscio come l’olio, scuola reclute compresa – otterrà l’agognato diploma per l’insegnamento nel livello secondario I, che sarebbe poi la nostra scuola media.
Sul Foglio Ufficiale dello scorso 15 aprile è invece apparsa l’iscrizione al corso di formazione complementare per docenti di matematica per la scuola media, che si rivolge essenzialmente a chi ha la patente di docente di scuola dell’infanzia o di scuola elementare, con un’esperienza di insegnamento di almeno tre anni. Il corso si srotolerà sull’arco di tre anni scolastici: i pretendenti alla cattedra dovranno calcolare di essere occupati “di regola, il giovedì e il venerdì e in parte fuori dall’orario scolastico (vacanze, mercoledì pomeriggio, tardo pomeriggio, sabato)”. Con circa un terzo dell’impegno, dunque, potranno far valere una competenza parificata a quella di chi percorre il naturale itinerario, attraverso l’università e l’ASP: e già questo è un bel mistero, se solo si pensa che i maestri attualmente in carica, giovani o anziani che siano, hanno interrotto la loro formazione in campo matematico al termine della magistrale seminariale – chiusa vent’anni fa – o del liceo. È sicuramente questa la principale contingenza che ha spinto il granconsigliere Francesco Cavalli a interpellare il Consiglio di Stato, chiedendo con una punta di sarcasmo: «Per insegnare la matematica nelle scuole medie è ancora necessario conoscere la matematica?».
Non appartengo a quell’affollata schiera di persone, tra cui – purtroppo – molti docenti del secondario, che snobba la pedagogia e la didattica, sostenendo che la profonda conoscenza della propria disciplina e buone doti di comunicazione e di passione siano più che sufficienti per tratteggiare il buon insegnante. Ma è ovvio che per insegnare la matematica occorre conoscerla; inoltre, anche se sembra una banalità, è necessario padroneggiarla ben oltre gli obiettivi del settore scolastico in cui si insegna. Nel caso del corso in questione, come sottolinea Cavalli nella sua interpellanza, stupisce poi che «… un docente di scuola elementare con alle spalle la formazione pedagogica ricevuta alla scuola magistrale e una buona pratica didattica, dovrebbe rinunciare per tre anni alla metà del già magro stipendio, per affrontare sostanzialmente insegnamenti già ricevuti durante la precedente formazione ».
Intendiamoci: il tentativo di creare all’interno della scuola delle possibilità di carriera, o di mobilità tra un settore e l’altro, è certamente encomiabile. Ma il dubbio è che l’obiettivo che si intende perseguire sia un altro: più che alla soddisfazione dei propri docenti, il Dipartimento sembra correre ai ripari per sopperire alla carenza di insegnanti, in questo caso di matematica. C’è tuttavia da sperare che i maestri ai quali si rivolge la lusinga – che ricorda molto da vicino la più classica delle mele avvelenate – non si spintonino troppo per avere accesso al corso (il F. U. specifica che saranno ammessi solo 20 candidati idonei). Così come lo si può leggere, e sorvolando volutamente sulle peculiarità della formazione pedagogica e didattica proposta, sembrerebbe che gli unici maestri che potrebbero concretamente imboccare il cammino senza tanti patemi economici siano quei giovani precari che devono accontentarsi di qualche effimero incarico a metà tempo: ma quale potrà mai essere la motivazione di un giovane che, non potendo esercitare la professione scelta, dovrà ripiegare sul professore di matematica alle medie?
La scuola sta bene, grazie. È la para-scuola che scricchiola…
E così anche la scuola ticinese ha fatto il check up per verificare il suo stato generale di salute. C’è voluto molto impegno per costringerla a recarsi dal medico e darsi una controllatina: addirittura una mozione parlamentare. Però alla fine, un paio di anni fa, la vecchia signora s’è convinta ed è andata dal dottore. E qualche giorno fa lo staff che l’ha analizzata ha presentato anamnesi, diagnosi e prognosi. Oddio, il paziente sta benino, almeno a sentire chi l’ha visitato. Qualche acciacco qua e là, ma nulla di che allarmarsi – eppoi neanche tutti gli esami convergono. Alla sua età ci si sarebbe potuti aspettare ben altro. Insomma, la scuola sta abbastanza bene, soprattutto se si considera che non ha più vent’anni… È la para-scuola, invece, che scricchiola. In particolare, i medici hanno rilevato importanti insufficienze a livello di mensa e di doposcuola.
Certo che il quadro odierno fa un po’ sorridere: i fondatori della scuola pubblica e obbligatoria erano stati confrontati con l’impellenza di convincere le famiglie a mandare i loro pargoli a scuola – ed è da lì, perlopiù, ch’è nato l’attuale calendario scolastico, attento alle esigenze dell’alpeggio e della transumanza. Non era stato così facile persuadere i genitori dell’epoca, soprattutto quelli delle regioni più periferiche, che imparare a leggere, scrivere e far di conto poteva essere un bell’investimento per il futuro. In qualche caso, per convincerli, s’era dovuto far ricorso alle minacce e alla polizia. Oggi, invece, quelle medesime famiglie – fatte le debite proporzioni – hanno cambiato prospettiva: i figli a casa li vogliono il meno possibile. Eppure, a ben guardare, ci sono dei punti in comune tra quei tempi e l’oggi. Agli albori della scuola pubblica c’era chi strillava perché l’obbligo di frequenza avrebbe tolto braccia importanti al lavoro nei campi, nelle stalle e sugli alpi. Ma lo Stato aveva deciso, pur accettando qualche compromesso. A quasi duecento anni di distanza sono i medesimi gruppi sociali a premere affinché si moltiplichino mense e doposcuola, così che i loro rampolli non siano più d’impedimento al migliore sviluppo economico.
Addirittura, dal rapporto sulla ricerca si deduce che già oltre dieci anni fa non erano «unicamente i genitori appartenenti alla classe sociale inferiore ad auspicare l’estensione dei servizi di mensa e doposcuola, ma che tale richiesta [era] condivisa anche da famiglie di origine medio-superiore». Ci mancherebbe. Sarà anche poco politicamente e sessualmente corretto, ma non sono certamente i genitori delle classi più disagiate – che sono statisticamente tanti – a vagheggiare la doppia occupazione per realizzarsi. Invece molte coppie sono costrette a lavorare come forsennate e, di conseguenza, a trovare una sistemazione per i figli durante gli orari di lavoro, affinché qualcuno possa permettersi l’esatto contrario. Altrimenti detto: provi lei, gentile lettrice ed egregio lettore, a tirare la fine del mese con un’unica occupazione, coi salari che girano e con qualche figlio a carico.
Il bello, tuttavia, deve ancora arrivare. Non ci si scordi che l’anno scolastico dura soltanto 36 settimane e mezza (sic). Ne restano una quindicina da coprire. Per intanto ci si arrabatta tra colonie varie e parenti che, in Spagna, in Portogallo o in Croazia, possano occuparsi dei figli dei camerieri e degli aiuto-cucina durante la lunga estate ticinese. Ma prima o poi la para-scuola dovrà cominciare a preoccuparsi anche di tutte quelle settimane di inoperosità scolastica. Per intanto solo alcuni comuni sono costretti a inventarsi spazi “sociali” durante le chiusure della scuola. Ma verrà il tempo in cui anche i ceti fiscalmente più attrattivi riterranno un loro diritto la settimana sciistica o le ferie estive senza figli tra i piedi. Cosa c’entri poi la scuola con la para-scuola è ancor tutto da stabilire. Per intanto è un diversivo emergente; e mentre là fuori il mondo continua a cambiare, la scuola resta avvinghiata alle sue strutture secolari.
Ma è o non è importante imparare bene l’italiano?
Leggo sempre con molto interesse la rubrica «Sottobanco», che Fabio Pusterla firma sul settimanale «Azione». Sul numero 10 di quest’anno, Pusterla si è nuovamente soffermato sull’importanza di sostenere l’insegnamento dell’italiano. Dal suo osservatorio di docente al liceo, si chiede retoricamente cosa significhi, nella realtà quotidiana, il fatto che «gli studenti, a ogni livello, sembrano oggi possedere un bagaglio linguistico minore di quello dei loro coetanei di venti o trent’anni fa», una situazione «come minimo allarmante», che «è stata discussa, studiata, monitorata». Portando come esempio la proposta di lettura del «Cinque Maggio», ben descrive la grande fatica che è necessario mettere in conto per aiutare gli studenti a sopperire alle loro manifeste lacune linguistiche e culturali. Esagerato, il prof. Pusterla? No, credibilissimo, se appena si considera che vi sono fior di studenti che entrano all’alta scuola pedagogica con l’ortografia che fa ampiamente cilecca. Che italiano insegneranno mai, una volta diventati maestri?
Ricordo che, durante la mia infanzia – diciamo a cavallo tra l’elementare e il ginnasio – mi ero divertito molto con letture indimenticabili. Penso su tutte alle «Avventure di Tom Sawyer» o ai «Ragazzi della Via Pal», senza ovviamente scordare le stupende storie di London, Verne, Stevenson, Malot, … La gran parte dei ragazzi di oggi non sono in grado, a quell’età, di affrontare da soli «Ventimila leghe sotto i mari», «Kim» o «Davide Copperfield»; e quando avranno (forse) raggiunto il livello di competenze linguistiche per percorrere romanzi come questi, cercheranno altre storie, più adatte alla loro età. Ergo: non li leggeranno mai. Nel frattempo si cimenteranno – si fa ovviamente per dire – con libri dal contenuto banale e dalla lingua scialba. Così non potranno crescere né linguisticamente, né culturalmente.
Sembra evidente che tutta la scuola, dall’elementare al liceo, abbia abbassato le sue pretese sul piano dell’insegnamento dell’italiano. I motivi di talune sciagurate scelte del passato più o meno recente sono difficili, ma non impossibili, da capire; oggi, poi, ci si mette anche l’editoria, che sforna titoli come noccioline senza curarsi troppo della loro essenza letteraria e pedagogica. Ho un collega, docente di italiano in un istituto terziario, che coltiva un passatempo stupendo: scrive libri per ragazzi. Mi ha raccontato che assai spesso le case editrici chiedono delle revisioni, poiché i testi sono giudicati troppo difficili. È una corsa al ribasso del tutto incomprensibile, che non permette nemmeno di capire chi, secondo le case editrici, potrebbe non acquistare questi libri perché troppo impegnativi: i maestri o i piccoli lettori?
«Insomma» conclude Pusterla, «il problema è gravissimo, e serve a poco dirsi che interessa l’intero Occidente; il Ticino ha se non altro un vantaggio: è piccolo». Concordo: se per davvero, al di là degli «alti lai», esiste la consapevolezza della drammaticità della situazione, allora non dovrebbe risultare così difficile metterci d’accordo un po’ in fretta e cominciare ad alzare l’asticella, dalla scuola dell’infanzia su su fino al liceo, non certo con l’intento restauratore di selezionare delle élite, ma con la dichiarata intenzione di imprimere un’impennata al livello linguistico medio di tutti i nostri allievi e studenti. Per il momento non serve molto: più che di astruserie didattiche e di complicati piani formativi per gli insegnanti, è necessario decidere che la lingua italiana è l’asse portante dell’educazione e dell’istruzione dei nostri ragazzi e giovani. Già questa dichiarazione, se non limitata al novero delle enunciazioni di facciata, sarebbe un potente strumento nelle mani della scuola. In ogni modo non è più ammissibile mettere l’italiano sul mercato della formazione, in balia d’ogni sorta di contrattazione, come se si trattasse di una materia qualsiasi. Perché è noto che meglio si legge, si scrive e si parla, meglio si pensa. Oppure è proprio questo che darebbe fastidio?
La scuola ticinese fra cicli lunari e orbite solari
Neanche il tempo di archiviare le vacanze di carnevale e già le scuole saranno nuovamente chiuse per Pasqua. Beh, che c’è di strano? Da sempre Pasqua cade quaranta giorni dopo il martedì grasso. Ne consegue che tra le due chiusure vi sono sempre poco più di cinque settimane di scuola. Il fatto è che, quest’anno, a fine marzo si saranno già esaurite le quattro vacanze canoniche, tanto che il periodo che ci porterà al 20 giugno – ultimo giorno di scuola – sarà il più lungo dell’anno scolastico, seppur con un mese di maggio costellato di ponti infrasettimanali a distanza ravvicinata. E questo perché le vacanze scolastiche sono intimamente avvinghiate alle festività religiose. Se le prime due – autunnali e di Natale – sembrano coincidere con l’esigenza di creare dei regolari momenti di pausa, le prossime due dipendono invece dagli astri. Quando, come quest’anno, la domenica successiva al primo plenilunio successivo all’equinozio di primavera, che determina il giorno di Pasqua, cade troppo presto, allora avremo le vacanze di carnevale a ridosso di quelle di Natale.
Il meno che si possa dire è che un siffatto calendario scolastico è poco comprensibile e altrettanto inefficace, almeno dal punto di vista di una logica ripartizione tra i tempi del lavoro e quelli del riposo. Sarebbe quantomeno curioso sapere perché mai le vacanze scolastiche debbano dipendere dai cicli lunari e dalle orbite solari; se non fosse che, con ogni probabilità, si tratta unicamente di una scelta di comodo, per non scompaginare la tradizione. Il risultato, rispetto all’anno scolastico, è che al posto di avere cinque periodi di scuola di durata più o meno equivalente – diciamo attorno alle sette o otto settimane l’uno – quest’anno ne avremo uno cortissimo (quattro settimane da Natale a carnevale) e uno lunghissimo (quasi dodici settimane da Pasqua a fine anno: per la gioia di chi, dopo il 20 giugno, dovrà affrontare anche gli esami). Ma non terrebbe nemmeno la motivazione di un presunto rispetto nei confronti della Cristianità e dei suoi eventi religiosi. A questo proposito, anzi, la Chiesa è addirittura più duttile del nostro Dipartimento, se solo si pensa che quest’anno San Giuseppe non sarà festeggiato – come tradizione vuole – il 19 marzo, ma il sabato precedente (che non sarà tuttavia un giorno festivo). E cosa festeggeranno i ticinesi il 1° maggio? L’Ascensione al Cielo di Gesù o la più popolare festa dei Lavoratori? Probabilmente in molti non si cureranno né dell’una, né dell’altra: sarà solo il primo giorno di un lungo ponte. In buona sostanza, il terzo comandamento rischia di essere l’unico a fare il pieno di consensi e obbedienza: basta che sia festa, non importa perché.
Nel XXI secolo sarebbe forse opportuno chinarsi sui tempi della scuola, calendario scolastico compreso. Se in passato vi era un maggiore sincronismo tra mondo della scuola e mondo del lavoro, oggi non è più così. Non occorrono grandi doti divinatorie per ipotizzare che un nuovo calendario scolastico che mettesse addirittura in dubbio le date «sacre» di apertura e di chiusura – inizio settembre e metà giugno – non avrebbe la benché minima possibilità di nascere. Ma ci si potrebbe legittimamente attendere almeno una miglior ripartizione delle pause all’interno di quest’arco temporale, non fosse che per giustificare la necessità di interrompere a scadenze regolari le trentasei settimane e mezza della scuola ticinese, frutto anch’esse della consuetudine. Ciò non risponderebbe alle esigenze di un mondo del lavoro sempre più anarcoide e compulsivo, ma rappresenterebbe un segnale di coerenza verso chi intende piegare sempre più la scuola alle esigenze del marcato, dettandone i contenuti, i tempi e i compiti. Poi si potrebbe ricominciare a parlare seriamente delle finalità fondatrici della scuola, perché più il tempo scorre, più è difficile capire dove si situi il confine tra educare e istruire da una parte, e assumere sempre più compiti di baby sitting dall’altra: tra doposcuola, refezioni, colonie e nidi dell’infanzia il quadro si fa sempre più confuso.
Qual è il segreto della scuola finlandese?
La Finlandia ha una scuola da Oscar della pedagogia. Quando, nel 2001, sono stati pubblicati i risultati del primo rilevamento PISA – il controllo periodico delle competenze acquisite dai quindicenni di 57 paesi, rappresentanti il 90% dell’economia mondiale – gli sguardi di mezzo mondo si sono rivolti increduli verso questo paese freddo, poco conosciuto e scarsamente popolato. Come qualcuno forse ricorderà, PISA ha già sfornato le sue classifiche tre volte, nel 2001, 2003 e 2006; in tutte le occasioni la scuola finlandese è risultata la migliore del mondo. Le caratteristiche del successo sono molteplici e non riguardano solo le elevate medie delle competenze assimilate dai quindicenni in lettura, matematica, scienze e risoluzione di problemi: un maggior numero di allievi finlandesi raggiunge buone prestazioni; la disparità delle performance è meno importante che in altri paesi; gli allievi in grandissima difficoltà sono meno numerosi che altrove; la variazione dei risultati da un istituto all’altro è la più bassa di tutti i paesi dell’OCSE; l’influenza delle condizioni socio-economiche è assai più debole che negli altri paesi. Inoltre la spesa per l’educazione risulta in molti casi inferiore a quella di stati, quali la Svizzera, che hanno riportato esiti almeno mediocri.
Eppure ancora agli albori degli anni ’60 la Finlandia era un paese rurale, con una società fortemente gerarchizzata e iniqua, governata da un sistema molto centralizzato. È solo a partire dal 1966 che la coalizione di sinistra andata al potere ha avviato una lunga successione di riforme, sotto lo slogan «Una buona scuola per tutti». A tutt’oggi gli ingredienti di questa scuola da sogno sono presenti in gran quantità. Spiccano alcuni pilastri concettuali. Si ritiene, nei fatti, che le basi essenziali per acquisire dei saperi e favorire una crescita armoniosa degli individui risieda in un ambiente scolastico rassicurante, in docenti premurosi e preoccupati di creare dei legami affettuosi e cordiali coi loro allievi, in modo che questi possano sviluppare una benefica autostima. Si reputa altresì che l’esigenza di un forte richiamo ai valori morali e umanistici non debba ridursi a mera enunciazione legislativa, da sacrificare giorno dopo giorno sull’altare della trasmissione di conoscenze e di competenze mirate all’inserimento nel mondo del lavoro. Conseguentemente «imparare senza stress», nel rispetto totale di ogni allievo, si traduce in una scuola che rispetta i ritmi di apprendimento di ognuno: le note fanno la loro prima apparizione dopo i nove o dieci anni della scuola dell’obbligo (Educazione fondamentale); la ripetizione di classe non esiste; accanto ad alcune discipline obbligatorie, ogni allievo ha un discreto margine di manovra per scegliere altre materie che completano il suo curricolo; le ore settimanali di lezione (di 45 minuti, come da noi) sono una ventina a 7 anni e arrivano a 30 con l’accesso al liceo (anche le ore di studio a casa sono inferiori rispetto alla gran maggioranza degli altri paesi dell’OCSE: 5 alla settimana, contro la media di 8 degli altri).
Queste e ben altre informazioni sono contenute in un’inedita analisi del sistema scolastico finlandese pubblicata quest’anno dalla casa editrice ESF, nella collezione «Pédagogies» diretta da Philippe Meirieu. Si tratta del volume «La Finlande: un modèle éducatif pour la France? – Les secrets de la réussite», di Paul Robert: «una lettura che si impone», scrive Meirieu nella presentazione «per chiunque voglia partecipare alla riflessione sull’avvenire della nostra scuola. Se ne esce informati e più lucidi. Anche rincuorati». Poi, per non farsi troppe illusioni sulla facilità con cui si potrebbe immaginare di importare il modello alle nostre latitudini, conviene riflettere sulla citazione che apre il volume: «È così poco facile nella vita raggiungere la felicità, che uno, quanto più affannosamente la cerca, tanto più se ne allontana, per poco che esca di strada» (Seneca, De vita beata).
Infine – è pur giusto ricordarlo – non si può sorvolare sulle due stragi che hanno sconvolto due scuole finlandesi nel novembre del 2007 e neanche un mese fa. Le notizie avevano colpito l’opinione pubblica, certo di più che se fossero giunte, che so?, dai soliti USA. Come dire che dalle schegge impazzite è difficile difendersi e a volte sono proprio taluni sistemi scolastici, selettivi fino all’esasperazione, a generare i killer. Non è certo questo il caso.
PAUL ROBERT, La Finlande: un modèle éducatif pour la France? – Les secrets de la réussite, 2008, ESF Éditeur, ISBN 978-2-7101-1934-0