La scuola ha sempre avuto la mania di voler raggruppare i suoi allievi sulla base di un qualche elemento distintivo, nel tentativo, sempre andato a vuoto, di ottimizzare l’insegnamento. Praticamente sin dalla sua nascita c’è sempre stato qualcuno – studioso dei problemi dell’educazione o semplice governante – che ha messo a punto qualche marchingegno organizzativo col velleitario obiettivo di riuscire a insegnare di più e meglio. Così, ad esempio, a fine ’800 c’è stato chi ha ipotizzato di formare le classi a partire dal segno astrologico, nutrendo la speranza che i tori si sarebbero trovati più a loro agio restando tra pari, piuttosto che immischiarsi con i pesci o con le vergini. Chi non ha più trent’anni ricorderà che per lungo tempo le classi – almeno nei centri, dove il giochetto era fattibile – erano formate per sesso e per età, mentre a tutt’oggi l’anno di nascita la fa da padrone un po’ ovunque.
Ma non bisogna credere che il concetto sia assodato. Basti pensare che praticamente ogni anno c’è chi chiede a gran voce la diminuzione del numero di allievi per classe – mantenendo l’omologazione anagrafica, beninteso! – come unica panacea per spuntarla sulla smisurata gamma di attitudini che può convivere in una stessa classe, in barba agli anni di nascita. Con ritmo crescente, poi, c’è chi s’inquieta per i cosiddetti allievi superdotati (oggi li chiamano “plusdotati”, per distinguerli da quegli altri…), ragazzi talmente intelligenti e sagaci che se restassero ammassati con coetanei di ordinario ingegno rischierebbero di rimbecillire in un batter d’occhio, quasi che lo scarso acume fosse una malattia contagiosa e non il prodotto di innumerevoli concause – non ultimo l’ambiente familiare, sociale e culturale in cui si cresce.
L’ultima brillante scoperta per comporre le classi scolastiche in base a qualche targhetta viene dalla Gran Bretagna, dove il governo ha fatto una pensata che non è proprio nuova di zecca, ma che nel generale contesto di confusione in cui versano molti sistemi scolastici potrebbe sembrare il memorabile uovo di Colombo: «Dividiamo gli allievi in base alla loro intelligenza – devono essersi detti i responsabili britannici dell’educazione – e risolveremo in un sol colpo tutti i problemi della scuola: anche quelli più ancestrali». Patapunfete! Coi tempi che corrono ci voleva anche questa, come se non bastassero le mene quanto meno xenofobe che percorrono da cima a fondo un po’ tutti i paesi occidentali. Certo, perché chi crede per davvero che l’estrazione sociale non abbia nulla da spartire con la riuscita scolastica – giacché di questo si tratta: l’intelligenza e la competenza sono purtroppo un’altra cosa – troverà nella proposta anglosassone quanto di meglio sa offrire il supermercato dell’istruzione.
Sia chiaro che scuole siffatte non rendono un favore al Paese, ma si limitano a creare l’agognato Lebensraum alle nuove aristocrazie con la puzza sotto il naso, omettendo che la capacità intellettiva – quella vera, che ha poco da spartire con la riuscita scolastica e coi test d’intelligenza – è come il patrimonio genetico: lo sanno tutti che i matrimoni tra consanguinei aumentano i rischi di grave menomazione, perché il genoma ha bisogno di continue rivoluzioni per rafforzarsi e migliorare. Così funziona l’educazione – e bene farebbero i governi a tendere alla massima eterogeneità nell’organizzazione delle loro scuole, che a differenza di un tempo non ruotano più attorno alla figura del precettore: si cresce con gli altri, attraverso il confronto e la collaborazione, e si imparano pure le regole della civile convivenza.
Separare i primi della classe dai somari è solo un modo losco per creare i nuovi ghetti del XXI secolo.
Scuola media, una riforma e le sue pie intenzioni
La «Riforma 3» della scuola media agonizza ancor prima di nascere. Presentata nel dicembre scorso, essa dovrebbe diventare operativa già col prossimo anno scolastico, anche se – stando ai responsabili del cambiamento – la vera rivoluzione dovrebbe palesarsi solo a partire dal terzo anno, vale a dire dal settembre del 2007. Ma qualche sede scolastica ha già fatto sapere che non ci sta, accodandosi agli esperti di matematica e di italiano, che avevano iniziato a titillare le artiglierie quando il progetto di riforma era ancora racchiuso nelle blindate stanze del Dipartimento.
Ma cosa proporrà mai ’sta nuova riforma, da suscitare tali reazioni negative ancor prima di venire alla luce? Diciamo subito che la riforma è necessaria per poter adattare la griglia oraria della scuola media alle decisioni governative in materia di politica delle lingue. Com’è ormai arcinoto, è stato deciso di dare nuovi e più aitanti impulsi all’inglese, ciò che ha implicato il declassamento del francese e del latino, oltre a procurare piccole scosse d’assestamento un po’ dappertutto. Nel contempo da più parti vi è stata una levata di scudi in difesa dell’insegnamento dell’italiano, che secondo molti è andato progressivamente a ramengo negli ultimi decenni. Ecco allora i primi ritocchi, con l’italiano che guadagna un’ora sui quattro anni di durata della scuola media, il francese che ne esce assolutamente ridimensionato, la matematica che perde un’ora e l’inglese che – of course! – intasca tre ore obbligatorie in terza e altrettante in quarta.
Nulla di nuovo sotto il sole, parrebbe, dal momento che si tratta poi solo di rendere esecutive decisioni politiche prese a un altro livello. L’Ufficio dell’Insegnamento Medio (UIM) ha però voluto cogliere l’occasione per dare una scossa a tutto l’ambiente, inserendo nella riforma alcuni elementi che potrebbero finalmente proiettare questo importante segmento della scuola obbligatoria alle radici ideologiche che avevano portato alla soppressione di ginnasio e scuola maggiore, confluite negli anni ’70 nella nuova struttura scolastica. Naturalmente il Prof. Francesco Vanetta, direttore dell’UIM, e i suoi collaboratori non sono tanto balordi da non immaginare che l’abolizione dei famosi livelli possa realizzarsi in quattro e quattr’otto; però già con questa riforma hanno proposto un insegnamento a classi intere e a gruppi a effettivi ridotti – ma eterogenei! – fino alla fine della terza media, ciò che evidentemente non è proprio un affondo deciso e risolutivo, ma rappresenterebbe inequivocabilmente un enorme balzo. Il condizionale è d’obbligo, perché gli esperti di matematica hanno già fatto sapere che senza i tanto vituperati livelli (attitudinali per i più bravi, di base per i buzzurri) e – orrore! – con la riduzione di un’ora in seconda media diverrà problematico se non impossibile raggiungere le somme vette di competenza che si raggiungono oggi.
Dal canto loro i docenti – nella fattispecie quelli di Gordola, ma occorre attendersi altre prese di posizione – han già fatto sapere che «Diminuire la dotazione oraria e promuovere una struttura con gruppi eterogenei porterà inevitabilmente in alcune materie ad un abbassamento del livello finale raggiunto dagli allievi (compresi quelli con maggiori capacità) e a tagli nei programmi, ciò che avrà delle conseguenze sulle competenze acquisite e sul futuro curricolo di studi». Che dire, quindi? La «Riforma 3» rischia di restare una pia intenzione, non fosse per quel mercanteggiamento di ore tra materie per far posto a Sua Altezza Reale L’Inglese.
Già oggi un numero impressionante di allievi di scuola media – oltre un terzo – è promosso alla classe successiva con almeno un’insufficienza, così come l’anno scorso solo il 47.4% di loro è arrivato in quarta con tre corsi attitudinali. Sono percentuali che fanno impressione. Ma è noto da tempo che è facile far bere un cavallo che ha sete, mentre l’impresa diventa più difficile se il cavallo non vuol saperne di bere. L’idea dei gruppi eterogenei a effettivi ridotti poteva delinearsi come un’ottima strategia per innalzare gli apprendimenti di un gran numero di allievi: ma servono insegnanti preparati e motivati, mentre non sembra il caso.
Tutte a scuola col saio!
Mezzo secolo di femminismo impegnato ha prodotto una diversa percezione dell’universo femminino, ma non ha ancora sconfitto taluni pregiudizi che portano a galla il nostro lato più scimmiesco, al di là del compiacimento nel definirci sapiens. Una riprova la si ha in questi giorni, ascoltando le chiacchiere piazzaiole attorno alla vicenda di don Italo, il parroco di Gordola accusato di molestie e atti sessuali con fanciulli. Le modalità dell’arresto del sacerdote – una scena degna della miglior tradizione cinematografica statunitense – e, soprattutto, il ruolo della minorenne che avrebbe fatto da esca infilzata sull’amo della polizia – stanno dividendo l’opinione pubblica: c’è chi giudica inammissibile il comportamento di don Italo e c’è chi, viceversa, è più propenso a colpevolizzare la ragazzina precoce e ammiccante, rea di aver solleticato oltre misura gli istinti repressi del prete, che è maschio prima che ministro di Dio: il che porta irrimediabilmente a concludere che non è fatto di legno, come suol dirsi.
Lungi da me anche solo il ghiribizzo di prender posizione pro o contro l’accusato, la vittima, la polizia o la magistratura. Però questo filosofeggiare attorno a un plausibile peccato originale della ragazza deve suscitare una seria riflessione, perché non si può ammettere che un qualsiasi adulto si trasformi in uno sporcaccione, solo perché una ragazzina gli fa l’occhiolino più o meno inconsapevolmente. Intanto bisogna precisare che il concetto di “maggior età” è una convenzione e non una massima divina. C’è una maggior età civica e ce n’è un’altra “sessuale”; entrambe sono definite dal legislatore e si modificano nel tempo, adattandosi di volta in volta alle nuove realtà e alle ideologie dominanti. È certo curioso osservare che, mentre molti studiosi sottolineano come l’adolescenza sembri prolungarsi sempre più nel tempo, gli Stati tendono vieppiù a ridurre l’età di transito al rango di adulto.
Ma la relazione tra adulti e fanciulli – come si chiamano i nostri cuccioli in questo genere di faccende – non può limitarsi ai semplici dati anagrafici, che sono tutto sommato solo dei numeri, forse delle medie. Ciò vale soprattutto di fronte a persone che, per l’attività che svolgono, si ritrovano in una posizione gerarchicamente superiore rispetto al pubblico di cui si occupano: sacerdoti, certo, ma anche insegnanti, infermieri, capiufficio e via di seguito. Ciò che don Italo avrebbe fatto è grave di per sé, indipendentemente dalle eventuali provocazioni e dalle insidie consapevolmente celate nel tranello. E resterebbe grave anche se la ragazzina avesse avuto due o tre anni di più. Purtroppo questa vicenda – o, per lo meno, le chiacchiere che le ruotano attorno – ha messo in luce che anche da noi c’è chi è disposto a perdonare il maschio che si lascia trascinare dai suoi istinti primordiali, se solo si può ipotizzare che la vittima – una femmina! – ha usato le armi della tentazione, magari senza nemmeno accorgersene.
Sembra, insomma, di esser tornati ai tempi delle prime minigonne, quando c’era chi lanciava i suoi moralistici anatemi: poi non lamentatevi se vi violentano per la strada. Non ci sono santi che tengano: un atteggiamento del genere deve essere respinto, poiché inaccettabile e irrispettoso. Se, per contro, intendiamo prestar fede all’assioma secondo cui le donne, in primo luogo quelle giovani, carine e seducenti, possono diventare potenzialmente pericolose per i maschi più sensibili e frustrati, allora è meglio correre subito ai ripari: ad esempio introducendo il saio obbligatorio nelle scuole medie e nei licei, negli oratori e negli ospedali, nelle sale da ballo e in tutti i luoghi dove satana potrebbe lasciare il suo segno malefico.
Quando la scuola ha bisogno di più «voci»
Un libro singolare raccoglie opinioni diverse attorno alla missione dell’insegnamento
Di questi tempi dire che destra e sinistra sono schematismi superati è assolutamente politically correct. L’affermazione è certamente giusta se l’applichiamo ai partiti tradizionali, alle prese con la moltitudine di problemi richiesti dalla quotidiana convivenza nell’ambito dello Stato, ma mantiene intatto il suo significato tradizionale quando il dibattito verte su un tema preciso, come è certamente quello della missione della scuola. Una riprova viene proprio da questo «Deux voix pour une école»: il ministro delegato all’insegnamento scolastico francese Xavier Darcos e il noto studioso di scienze dell’educazione Philippe Meirieu, sollecitati dalla giornalista di Le Figaro Marielle Court, si lanciano in un lungo e appassionante dibattito sulla scuola, oggi al centro di molte preoccupazioni.
Il libro ha visto la luce in maniera per lo meno bizzarra: il 15 settembre dell’anno scorso era partito un grande dibattito nazionale sull’educazione, voluto dal primo ministro Jean-Pierre Raffarin, per far fronte alle gravi tensioni che caratterizzano la scuola francese ormai da qualche anno. Così il ministro delegato e l’illustre ricercatore, che già in precedenza si erano scontrati pubblicamente su molti dei maggiori media nazionali, si trovano discretamente per alcuni pomeriggi negli uffici della casa editrice e danno vita a questo contraddittorio, la cui uscita nelle librerie era prevista per metà ottobre, con un titolo diverso («Libres propos sur l’école»). Ma il 12 settembre – due giorni prima dell’apertura del dibattito nazionale – Le Monde dà notizia che il libro è stato censurato: «Dominique Ambiel, consigliere per la comunicazione del ministro Raffarin, ha fatto pressioni sul ministro delegato all’insegnamento scolastico affinché la sua conversazione con il pedagogista Philippe Meirieu non appaia». In altre parole: caro Darcos, o blocchi il libro o lasci il ministero. Meirieu, dal canto suo, reagisce pubblicizzando la sua parte del testo, ma non se la prende con Darcos, che giudica leale e coraggioso.
Strano destino quello di un dibattito nazionale voluto dalle più alte cariche dello Stato, che debutta con una censura: ma tant’è, dopo vari tira e molla il volume va finalmente in libreria, con un titolo nuovo ed esemplare: sì, perché i mondi che si incontrano sono davvero diversi, sono sul serio di destra e di sinistra. A destra il ministro, che preconizza la restaurazione dell’Autorità del maestro e della Scuola, anche se “l’ascensore della promozione sociale”, nel mondo globalizzato, non funziona più e genera frustrazione e amarezza negli insegnanti (e non solo). A sinistra lo studioso, che crede nella forza liberatrice della cultura e del sapere, e si impegna per il riscatto degli umili attraverso la scelta di educare (oltre il “semplice” diritto di avere un’educazione). Non mancano, beninteso, i punti di convergenza, in un dialogo tra due profondi conoscitori del sistema scolastico: il libro ha una sua universalità, anche se in tutta evidenza gli esempi e tante riflessioni si basano sulla realtà francese. Ma il dibattito resta franco e civile, al di là delle intense contrapposizioni e dei momenti anche duri e polemici.
La conclusione non può che trovarsi su due sponde diverse, seppure convergenti: per Meirieu “… in una democrazia il ministero dell’educazione nazionale dovrebbe essere il ministero dell’Utopia – l’utopia fondatrice di ogni speranza, quella di una cultura emancipatrice di tutti gli uomini”. Gli fa eco Darcos: “Il sapere, lo zoccolo d’una vita, si fabbrica a Scuola. Solo a Scuola, mentre tutto, attorno ad essa, ne nega il valore, a profitto dell’apparire, della comunicazione, dello spettacolo, dell’estetica del clip, dell’effimero, del litigio”. Resta la grande divisione: cultura per tutti o solo per taluni?
Insomma, un gran bel dibattito, civile nei toni e profondo nei punti di vista: Voltaire contro Rousseau, Darcos contro Meirieu, due voci per una scuola, al di là dei soliti problemi di bilancio, ma al cuore della scuola repubblicana.
Recensione pubblicata sul Corriere del Ticino del 21 gennaio 2004
Xavier Darcos, Philippe Meirieu, Deux voix pour une école, Novembre 2003, Paris : Desclée de Brouwer Éditeur, 203 p.
Ticino terra di poliziotti
In quel moccichino di terra elvetica a sud delle Alpi che chiamiamo Ticino c’è una presenza assolutamente sbilanciata di forze di polizia. Il fenomeno è quantitativo e qualitativo. L’informazione la si desume dalle cronache dei quotidiani, che nelle ultime settimane hanno ampiamente riferito di fatti, fattacci e fatterelli che hanno coinvolto l’universo giovani. Prendiamo l’opulento borgo di Mendrisio. Anche Mendrisio ha il suo bravo liceo e anche i liceali della cittadina mò-mò decidono di ritrovarsi in allegria per festeggiare il Natale e le imminenti vacanze. Il liceo, laggiù nel meridione estremo e levantino, dispone addirittura di una “Commissione feste”, che predispone l’atteso avvenimento in un noto ritrovo.
E qui, all’acme del divertimento, arrivano i nostri, che con camionette e un gran numero di piedipiatti irrompono fulmineamente all’interno del Panda: festa finita, perquisizioni, controlli alcolimetrici, sirene e fari lampeggianti, fulminei trasbordi in centrale, sequestri di innocui spinelli: sembra di essere in un film. E, soprattutto, genitori sgomenti, che nei giorni seguenti non perdono l’occasione di far giungere le immancabili lettere ai giornali. Al comando della Polcantonale spiegano che il massiccio intervento era mirato a colpire quei gestori un po’ disinvolti nell’applicazione delle leggi che regolano gli esercizi pubblici. Ma genitori e pargoletti non sentono ragioni: l’intervento delle truppe del comandante Piazzini sono giudicate sproporzionate e fuori luogo. Naturalmente i toni vanno sopra le righe, con paragoni improbabili: la polizia rompe le scatole ai nostri imprudenti ragazzetti, mentre i bordelli straripano di clienti e i ladri penetrano indisturbati nell’isolato villino delle vecchietta di turno. Un genitore raggiunte il top dell’esternazione mediatica: povero figliolo, chissà che trauma a farsi trasportare su un cellulare della polizia in un’età emotivamente così fragile…
Tutt’altra musica a Locarno. Sulle piazze della ridente cittadina sulle rive del Verbano (si fa ovviamente per dire, perché c’è poco da ridere) imperversa da tempo un’orda di giovinastri che spacca tutto, imbratta, provoca, taglia pneumatici e crea vistosi e minacciosi assembramenti. Sotto Natale il branco se l’è presa perfino con il mega-albero posato nella mega-rotonda di Piazza Castello. A Locarno tutto è mega: mega l’albero, mega la rotonda, mega il debito pubblico, mega le beghe tra maggiorenti locali. E la polizia? Cosa fa quella stessa polizia che vezzeggia affettuosamente i ricchi liceali del Mendrisiotto, perdendoci pure la faccia davanti agli apprensivi genitori? Va lì come una strampalata armata un po’ picaresca, non riesce ad acciuffare neanche uno straccio di sprayer e in più qualche agente finisce all’ospedale, malmenato da giovani costretti sulla pubblica via in assenza di un qualsiasi gradevole Panda.
Ma, ormai, son due mondi diversi e distanti. Pensate: un papà di Ligornetto che aveva il fragile figlio al Panda quel fatidico 19 dicembre si è rivolto ai giornali per denunciare e segnalare alla pubblica opinione i sistemi della nostrana polizia, sempre meno «educativa» e sempre più vessatoria. A Locarno, invece, nessun genitore si è sognato di scrivere ai giornali. Meglio mandare la polizia a quel paese e accusarla di non riuscire ad acciuffare i ladri. Intanto il solito scialbo qualunquista ha lanciato l’ennesima petizione, per chiedere il coprifuoco dei minorenni dopo una certa ora e per creare squadre di vigilantes volontari che tengano l’assediata città sotto controllo.
C’è, insomma, una voglia accresciuta e impellente di dare consigli e di sostituirsi all’autorità. Però vien da chiedersi: cosa sarebbe capitato se nel Panda strapieno e un po’ brillo fosse scoppiato un incendio? Si sarebbe accusata la polizia di dedicare troppo tempo ai bordelli? E se la polizia fosse intervenuta in forze a Locarno? Probabilmente il papà del liceale di turno avrebbe scritto ai giornali, per accusare le forze dell’ordine di usare metodi sproporzionati. Insomma: siamo di fronte a un Ticino squilibrato e contraddittorio. Vediamo di metterci d’accordo, perché i nostri figli hanno bisogno di messaggi chiari, più che di coccole e difese a oltranza.