La scuola è un argomento che tira. Lo dimostrano l’appena conclusa consultazione sulla riforma dell’insegnamento delle lingue proposta dal DIC, così come la votazione di un anno fa. Era praticamente dal ’68 che non ci si scaldava più tanto: forse siamo di fronte ad una svolta epocale, il che può essere di conforto, anche se il livello del dibattito, alle nostre latitudini, non è tra i più elevati in Europa e desta qualche seppure impercettibile apprensione.
Esattamente un anno fa il Ticino era andato alle urne sul finanziamento alle scuole private, respingendo seccamente l’iniziativa popolare. Anche in quel frangente il dibattito tra fautori e detrattori era stato ampio e agguerrito. Allora come oggi, però, non si era capito bene quale fosse il modello di scuola auspicato dai pro e dai contro, tanto che il fronte dei partigiani della privatizzazione aveva utilizzato l’icona di Stefano Franscini per la propria propaganda, sollevando le ire del fronte opposto, che si reputava l’unico depositario dell’idea repubblicana sostenuta nell’800 dallo statista leventinese. Ora, con la vertenza sulle lingue da insegnare, siamo daccapo, anche se i fronti sembrano essersi rimescolati.
È sempre difficile, in effetti, capire quale scuola si voglia, quali progetti si celino dietro le singole prese di posizione sul finanziamento, sulle mense, sull’inglese e via di questo passo. Prendiamo i collegi dei docenti delle scuole cantonali, le cui dichiarazioni sono diventate un must: evidenziano il loro essere al servizio dell’intero Paese, frignano se c’è qualche franco che rischia di prendere destinazioni diverse, si oppongono ad ogni minimo cambiamento e – alla faccia della scuola di tutti – continuano imperterriti ad esercitare il ruolo di braccio selettivo della finanza e dell’economia. Come non leggere tra le righe un’indegna difesa corporativistica?
Ha ragione, quindi, l’attuale presidente della commissione scolastica del Gran Consiglio, che dichiara ad un foglio domenicale: “Io credo che a decidere quali lingue si devono studiare a scuola non dovrebbe essere lo Stato né il DIC, bensì la società, il mercato”. Patapumm! Questo vuol dire parlar chiaro: il signor Claudio Bordogna dev’essere uno che ha orecchio e che, conseguentemente, ha inteso cos’è lo Stato, e non confonde una stecca con una geniale armonia. Intendiamoci, non si capisce se per Bordogna società e mercato siano la stessa cosa, oppure se l’una è complementare all’altro; ma ciò che conta è il significato generale del Bordogna-pensiero – che è poi il pensiero di molti, soprattutto dopo che il Dipartimento dell’istruzione e della Cultura si è adeguato, negli ultimi anni, all’idea di una scuola di servizio.
A questa stregua si potrebbe immaginare, in un futuro prossimo, di differenziare maggiormente l’offerta sin dalla scuola dell’infanzia, in modo da esaudire i sogni educativi dei genitori, specie da quando il mitico doposcuola – che sta proliferando un po’ in tutto il Cantone – ha sempre più connotazioni scolastiche (Non c’è l’inglese nei programmi scolastici? E allora la scuola organizzi il doposcuola!). Oltre agli indubbi risparmi (ottenibili con l’eliminazione di certo vecchiume dai programmi), non vi sarebbero più genitori insoddisfatti e rompiscatole, non dovremmo più preoccuparci del numero di allievi per classe e l’assunzione dei docenti avverrebbe a scadenze periodiche, in base alle richieste del mercato. Insomma: dopo la tassa sul sacco (chi consuma paga), si potrebbe cominciare a progettare la tassa sul banco, il che permetterebbe nuovi inevitabili sgravi fiscali, qualche licenziamento e, soprattutto, grane al ribasso. Con le leggi del mercato portate a questo livello, perché non architettare, dopo un doveroso periodo di prova, la tassa sul fucile d’assalto o quella sul decreto d’accusa? Perché, insomma, non studiare la possibilità di sottomettere anche l’esercito e la giustizia alle leggi del mercato?
Erano anni che il dibattito sulla scuola – anzi: sulla Scuola – non si spingeva più a simili altezze, ed è legittimo chiedere al presidente della commissione scolastica e ai suoi accoliti cosa aspettino a chiedere l’irrimediabile modifica delle finalità della Legge della scuola, scuola che – secondo il Parlamento cantonale – deve promuovere “…lo sviluppo armonico di persone [Tutte?] in grado di assumere ruoli attivi e responsabili nella società e di realizzare sempre più le istanze di giustizia e di libertà”. Con l’applicazione delle leggi del mercato anche alla scuola, all’esercito e alla giustizia, plasmeremmo senz’altro una nuova aristocrazia, con il piccolo pregiudizio di quei concittadini che resterebbero sempre off. Ma il mercato non avrebbe problemi a smaltirli: in fin dei conti c’è sempre un gran bisogno di braccia.