Perché non si insegna più a cantare?

«Riunire bambini a cantare senza cura alcuna dell’emissione della voce e dell’intonazione non è un’operazione lecita alla Scuola, che ha il compito istituzionale di insegnare la musica, in particolare il canto corale». È quanto ha scritto un lettore a La Regione lo scorso dicembre. Si riferiva a un concerto del coro «Voci Colorate» delle Scuole elementari di Bellinzona, che si era esibito domenica 19 dicembre nella Collegiata della sua città: una trentina di bambini, accompagnati da un’orchestra da camera e da un organo. Non ho assistito a quel concerto, ma non ho difficoltà a immaginare lo sconcerto del lettore. Per passione e per mestiere mi capita spesso di dover ascoltare qualche coro scolastico e pressoché ogni volta c’è di che irritarsi. Non parliamo poi della scuola media: lì non si canta del tutto, a parte le eventuali solite eccezioni, se esistono. Nella scuola elementare la disciplina si chiama «Canto e musica» ed è insegnata da un docente specializzato per 45 minuti alla settimana. I programmi stabiliscono chiaramente – in grassetto – che «Il canto rimane l’elemento centrale del programma e pertanto svolge una funzione insostituibile». Poi, però, in quei 45 minuti ci deve stare di tutto un po’: pratica strumentale, ascolto, ritmo e movimento, – e risparmio altri dettagli, senza però scordare che, in quei pochi minuti, spesso ci stanno altre attività salienti quali incollare la canzoncina sul quaderno, leggerla e decorarla con l’immancabile disegno. Nella scuola media ci si alza di grado: si fa «Educazione musicale», due ore settimanali in prima e seconda e un’ora in terza. Il programma è condensato in otto pagine fitte. Giunti al traguardo della terza media gli allievi saranno in grado di suonare, cantare, leggere semplici partiture, sonorizzare brevi racconti o filmati, e altro ancora. Teoricamente, quindi, di tutto e di più. Sapere è una parola di peso: in realtà si tratta di programmi velleitari, che si riducono nella realtà a qualche spilucco, a seconda delle inclinazioni e dell’interesse di ogni singolo insegnante.
Il Maestro Riccardo Muti, intervistato lo scorso mese di novembre da Fabio Fazio, ha affermato che a scuola, invece che insegnare il piffero che allontana i ragazzi dalla musica, sarebbe più opportuno insegnare la storia e l’ascolto della musica. I nostri figli, purtroppo, crescono nel frastuono massmediatico, fatto in gran parte di banalità. Non si tratta di demonizzare la musica leggera, ma è pur vero che è sempre più difficile rifuggire la musica commerciale, che inonda bar, ristoranti e negozi, studi medici, segreterie telefoniche, radio e TV, telefonini e aggeggi di comunicazione informatica. La conoscenza, almeno per sommi capi, della storia della musica rappresenta un tassello importante per la costruzione di una cultura indispensabile all’educazione dei cittadini, così come dovrebbero esserlo la conoscenza della storia, della letteratura, della filosofia e delle scienze, senza naturalmente scordare il pianeta delle emozioni: perché una sinfonia di Mozart è altra cosa rispetto a un rap di Eminem, a un pezzo dei Led Zeppelin e anche a un brano di Duke Ellington. A ciò aggiungerei, tra i fondamentali insopprimibili, il canto, che non significa semplicemente canterellare una melodia alla bell’e meglio e tentare di ripetere le parole di qualche strofa. Cantare vuole dire imparare a usare l’unico strumento musicale di cui tutti sono in possesso, altro che pifferi e strumentini simili. Cantare è dapprima la capacità di intonarsi (ascoltarsi) e produrre suoni «puri» attraverso precisi meccanismi di respirazione; poi è l’abilità di fare musica insieme ad altri, arricchendo ritmo e melodia con l’armonia: insomma, un gioco di squadra – ne hanno tanto bisogno, i nostri ragazzi, al di là dell’educazione musicale in sé. Insomma: poche cose, ma difficili e da affrontare col necessario rigore, invece di un’ammucchiata di intenti che, in uscita, non può che provocare una sorriso canzonatorio.

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