È fuor d’ogni dubbio che nella società odierna le ricorrenze che scandiscono il trascorrere del tempo – il Natale, il Carnevale, la Pasqua, … – hanno smarrito il loro senso autentico e si sono per lo più trasformate in occasioni di consumo più o meno smodato. Riesce perciò difficile capire l’atteggiamento della scuola, soprattutto quella dell’obbligo, che contribuisce ingannevolmente al mantenimento, più o meno restaurato, di tradizioni ormai vuotate di ogni senso culturale o antropologico. Non sfugge a questa regola il Carnevale, particolarmente da quando sono state inventate le vacanze omonime.
Così in molte scuole il periodo pre-carnevalesco è una delle poche occasioni in cui gli insegnanti si ritrovano gomito a gomito a collaborare attorno a un progetto comune: trasformare i loro allievi in gruppi mascherati, che parteciperanno alla festa locale e mangeranno fors’anche il risotto con la luganiga sulla piazza principale. Nel contempo, gli inconsapevoli pargoletti camuffati da pagliacci o da farfalle, ricopriranno il ruolo dell’alibi funzionale a quell’altra messinscena, che vedrà scatenarsi adolescenti, giovani e adulti durante veglioni non sempre e non necessariamente caratterizzati dal sano divertimento intergenerazionale e da una trasgressione tutto sommato… rispettosa. Oggi, a occhio e croce, un importante giro d’affari deve aver rimpiazzato la tradizione, se solo si pensa alla fiumana di piccoli e grandi carnevali che caratterizzano questo nostro cantone prima della Quaresima – durante la quale, sia chiaro, non digiuna più nessuno e, tutt’al più, ci si limita a non travestirsi. In effetti accanto ad alcune blasonate feste mascherate che da sempre attirano pubblico da tutto il cantone, ora c’è anche chi sgomita per cercare il suo posticino al sole, sfondando i ristretti confini del paesello: se ci si mettono anche gli organizzatori dei carnevali più improbabili a voler attirare nei propri maleodoranti e rumorosissimi capannoni il pubblico più composito e anonimo, significa che, da qualche parte, oltre alla birra e al vino deve scorrere anche qualcos’altro, di ben più seducente. Ma si sa, il denaro non ha odore.
Chissà se a scuola, durante la frenetica opera di metamorfosi, c’è ancora il tempo per qualche riflessione, per un po’ di storia, per un’ingenua filastrocca: «Siamo vispe mascherine, / Arlecchini e Colombine, / diavolini, follettini, / marinai, bei ciociari, / comarelle, vecchierelle: / noi scherziam senza far male / viva, viva il Carnevale!»? Difficile che sia così, se solo si pensa che durante i veglioni – quei bagordi notturni solo introdotti o proseguiti dai carnevalotti-alibi dei bambini – bisogna mettere sul terreno schiere di forze dell’ordine per contenere gli esagitati. Ho letto su un quotidiano, a commento del fine settimana bellinzonese, di vetrate in frantumi, interventi dei sanitari per abuso di alcol, danni per decine di migliaia di franchi ai convogli delle FFS incaricate di rimpatriare i festaioli, senza parlare dei quintali di immondizia lasciati sul campo di battaglia.
In verità sembrava la cronaca di una normale serata del week-end luganese o locarnese. La grande differenza è che di solito notizie come questa hanno il debito risalto affinché qualche onorevole benpensante possa poi presentare la sua interpellanza, prendendosela con la polizia e coi giovani. Invece in questo caso la notiziola era annegata in mezzo a pagine e pagine di retorica e di foto in quadricromia. Durante gli altri giorni dell’anno, insomma, la musica è un’altra, e dopo una tranquilla cena tra amici si rischiano multa, figuraccia e patente di guida a causa del famoso bicchiere non-uno-di-più. D’altra parte cosa sono mai qualche vetrina infranta e un paio di vagoni sconquassati, oltre a ciò che sarà successo in tutti quei carnevalini che non hanno l’onore della cronaca? Fra un po’, vomito, vetrine rotte, cassonetti in fiamme, risse e immondizia rimpiazzeranno maschere e coriandoli nell’immaginario carnevalesco.
Certo che è ben strana la soglia di tolleranza di questo Paese, che un giorno è rigorosa come un ufficiale prussiano e l’altro sfocia nella confusione più grossolana. Si vede che in assenza del “panem”, che si fa sempre più scarso, convenga affidarsi al “circensem”. E poi il carnevale appartiene alla tradizione, o no?