Questo articolo è apparso nell’inserto culturale del Corriere del Ticino del 12 gennaio 2004 (Eccolo!).
Sarà l’effetto del Supercampiello 2004, vinto con il romanzo Una barca nel bosco, fatto sta che questo La scuola raccontata al mio cane, della torinese Paola Mastrocola, è diventato in pochi giorni uno dei libri più acquistati in Italia, successo di vendite non così scontato se si pensa che il volume è una sorta di saggio su un «mestiere che non c’è più». «Io insegnavo facendo letteratura» scrive unel prologo. «Tutto qui. Per me, il mio mestiere era semplicemente questo: insegnare letteratura. Adesso, improvvisamente, direi da un giorno all’altro, chi la pensa così è tagliato fuori».
La scuola raccontata al mio cane è un’aspra e circostanziata requisitoria contro il liceo italiano, giocata sui registri dell’ironia e del sarcasmo, della rabbia e dell’amore profondo nei confronti della Scuola e della gioventù: confrontata con i POF – i cosiddetti Progetti d’Offerta Formativa della riforma morattiana – e con il primato della lingua “che comunica”, Paola Mastrocola reagisce con una forza argomentativa inusitata per denunciare senza mezzi termini una Scuola che «Si adegua pari pari al mondo, non gli va contro neanche un po’, combacia perfettamente: lo riflette, lo copia, lo reduplica. Non oppone nulla di alternativo. È una scuola che “connive” con la società. Lo so che il verbo connivere non esiste, ma vorrei usarlo lo stesso; in latino voleva dire: “chiudere gli occhi”, quindi far finta di niente, essere complici». POF e comunicazione: con i POF la scuola si prostituisce, adeguandosi a richieste bottegare, che mettono il corso di chitarra o quello di giardinaggio davanti a Dante e ad Alessandro Manzoni. La lingua “per comunicare” è l’altra perversione, che intacca e avvolge anche l’insegnamento delle lingue straniere. «La nostra prima e forse unica preoccupazione – scrive in uno tra i tanti gustosi capitoli – è di renderli in grado [gli studenti] di… andarsi a comprare la baguette a Parigi! E va anche bene così, ma… forse ci sarebbe un altro modo, più “alto”: il modo indiretto e alto della letteratura. Potrei far leggere loro i romanzi di Gide e Stendhal, le poesie di Rimbaud e Apollinaire. Lì non sta scritto come si chiede una baguette in panetteria, è vero: c’è scritto molto di più! E davvero noi crediamo che un ragazzo che sappia leggere Rimbaud non sia poi in grado di andarsi a comprare una stupida baguette? Crediamo questo veramente? Diamo così poca fiducia alla letteratura? Sì. Non la riteniamo in grado di “fornire gli strumenti adeguati”. Diamo invece un’enorme fiducia… agli strumenti adeguati in sé: insegniamo per cinque anni a chiedere una baguette! Non pensiamo che, se è facilissimo scendere da Rimbaud alla baguette, non è invece affatto facile, anzi, forse è impossibile, salire dalla baguette a Rimbaud: questo vuol dire che noi priviamo per sempre i nostri ragazzi dell’“altezza” di Rimbaud, e li releghiamo per sempre alla “bassezza” quotidiana e concreta della baguette».
Certo, il liceo italiano non è il liceo ticinese, così come l’attuale Ministero Italiano dell’Istruzione ha apparentemente poco a che vedere col più nostrano e metamorfico DECS, che in fondo – come nell’intera Europa occidentale – null’altro ha fatto se non adeguarsi alle tendenze più pacchiane e diffuse. In fondo, come annota argutamente Paola Mastrocola, il ’68 è la matrice primigenia dell’attuale stato delle cose: «… era giusto volere una scuola meno autoritaria, nozionistica, severa, elitaria, separata, astratta, non socialmente attenta. Giusto. Ma era giusto trent’anni fa! La Battaglia è stata fatta, e ha ottenuto esiti direi molto positivi. Bene. Quello che oggi mi sconcerta è il constatare che si continua imperterriti quella stessa Battaglia, una Battaglia cioè che non solo è già stata vinta, ma che oggi non ha più alcun senso combattere, dal momento che il nemico è cambiato, anzi… è esattamente il nemico opposto a quello che avevamo allora». Che fare dunque? Come tentare di avviare una nuova Rivoluzione affinché la scuola – e il liceo in particolare – riesca a uscire in fretta e con prepotenza dallo strapiombo strumentale in cui si è ficcata, in parte per comodità e in parte per cecità? Come rimediare alla realtà, che ha disinvoltamente trasformato l’utopica democratizzazione degli studi nella democratizzazione dei diplomi e dei titoli di studio?
A Paola Mastrocola piace vestire i panni dell’«avvertitore di verità». Nella fiaba I vestiti nuovi dell’imperatore «…c’è un bambinetto da nulla che, in mezzo al corteo osannante, avverte: l’imperatore è nudo!». Ed è nudo proprio in virtù di una formazione annientata dai bisogni immediati, mercantili, utilitaristici e – soprattutto – facili. Chiaro: per imboccare un nuovo corso consacrato all’educazione inutile – la letteratura italiana, secondo Paola Mastrocola; ma si potrebbero ricordare per analogia la storia e la filosofia, le lingue ‘morte’ e tutto quanto rende grande la tradizione umanistica – ci vogliono Maestri in gamba, la cui definizione non è davvero facile: «Diciamo che noi, quando uscivamo dalla lezione di un maestro, camminavamo per un bel po’ a un metro da terra. Diciamo che quel metro da terra fa la differenza. […] Diciamo che forse questo contraddistingue un maestro: ti contagia». Il problema è come misurarlo, quel metro in più, considerato che «… un insegnante che non insegna procura un danno davvero incalcolabile al singolo allievo, e quindi anche all’intera società: condanna all’ignoranza, […] quindi al vagolamento professionale infinito».
La scuola raccontata al mio cane non è e non pretende di essere un libro di pedagogia, scritto da addetti ai lavori per addetti ai lavori, e nemmeno contempla un catalogo di soluzioni. Paola Mastrocola si diverte a raccontare la sua storia di insegnante di lettere del liceo italiano, confrontata oggi con una miriade di interferenze e di pedagogismi che hanno finito per stravolgere il senso stesso della Scuola: da luogo di trasmissione e di formazione, a parco giochi e centro sociale, dove il pensiero si sfrittella invece di strutturarsi. L’autrice, che rivendica dalla prima all’ultima pagina il suo diritto di essere solo e semplicemente un’insegnante di lettere, mette in luce con grande intelligenza le derive che scaturiscono dal primato della pedagogia e della didattica sulle competenze disciplinari. Essere bravi insegnanti, oggi più di ieri, significa riuscire a destreggiarsi in perfetto equilibrio tra la profonda conoscenza di ciò che s’insegna e la cultura pedagogica per saperlo insegnare. Dal ’68 in poi si è fatto un gran parlare dell’importanza del “saper essere” e del “saper fare” rispetto al “sapere-e-basta”: ogni pedagogista accorto sa però che non è possibile costruire tali attitudini sul vuoto pneumatico. In tutta evidenza il discorso non tocca solo il liceo, né quello italiano in particolare.