L’editore locarnese Armando Dadò ha recentemente parlato delle «Malattie della scuola» in un articolo sul Giornale del Popolo. Citando a piene mani uno scritto del politologo Giovanni Sartori, che si era espresso mesi prima sul Corriere della Sera, Dadò si chiede, retoricamente, se anche la scuola ticinese ricalchi i gravi malanni tratteggiati dall’illustre professore italo-americano: il sessantottismo funesto, che «cavalcando la tigre dell’antielitismo, ha distrutto il principio del merito producendo la ‘società del demerito’ che premia i peggiori e gli incapaci a danno dei competenti e dei migliori». Poi «il progressivismo pedagogico, che ha infestato tutta la disciplina». Infine la cosiddetta democratizzazione degli studi, che ha contribuito a creare una società parassitaria dove tutti vorrebbero laurearsi e che «alimenta la insensata corsa universale al ‘pezzo di carta’ del titolo universitario». Dal canto suo Dadò, per completare il quadro, aggiunge i molti allievi che arrivano da altre parti del mondo, lo sfascio di molte famiglie, i disastri televisivi e di altri mezzi elettronici e la diffusione sempre più allargata di droga e alcool.
Un quadretto non proprio bucolico, quello tratteggiato da Sartori e ritoccato da Dadò: è vero che il ’68, in tal senso, rappresenta una sorta di demarcazione tra un prima e un dopo, che tuttavia ha investito la società tutta. Sarebbe ingeneroso, oltre che falso, affermare o – peggio ancora – credere sul serio che il dopo sia stato progettato e realizzato dalla scuola. La benemerita istituzione, lo si voglia o no, è specchio della propria società, tanto che i malanni di cui soffre riflettono pari pari quelli che affliggono il nostro vivere. Il problema, semmai, è che le distanze generazionali – cioè le differenze culturali da una generazione a quella successiva – si sono incredibilmente ampliate in meno di cinquant’anni, grazie in parte a un autoritarsimo che, per buona sorte, è scemato pian piano a partire dagli anni ’70, e in altra parte alla formidabile accelerazione delle forme di comunicazione di massa, dapprima con l’espansione dei tradizionali media elettronici e poi con l’informatica, che si è ormai impadronita di ogni anfratto della nostra quotidianità. Non si scordi, per fare qualche esempio, che ancora nei primi anni ’80 era difficile telefonare dalla Sardegna al Ticino, alla faccia dei telefonini di oggi. E nemmeno ci si dimentichi che il primo Macintosh, vera chiave di volta della diffusione dell’informatica, ha visto la luce solo venticinque anni fa… Se oggi, dunque, siamo al caos sociale e al disorientamento che accomuna un po’ tutti, non si può incolpare la scuola. Chissà, insomma, se il prof. Sartori, e con lui l’editore Dadò, guardano la televisione, leggono i giornali e seguono anche solo distrattamente le cronache politiche? Anche quella è pedagogia. Anche i giornali, la televisione e i politici educano i cittadini.
Quanto al «progressivismo pedagogico» buttato lì da Sartori come un’ingiuria, occorrerebbe capire a cosa ci si riferisce. Rammento che Pestalozzi, che con la sua «Lettera ad un amico sul proprio soggiorno a Stans» impresse, oltre due secoli fa, una svolta radicale al pensiero pedagogico attuale, è più facile trovarlo sui nomi delle strade che non dentro le aule scolastiche. Il capostipite della pedagogia moderna e i tanti discendenti – da Dewey a Freinet, da Korczak a Freire, da Claparède a Don Milani, alla nostra Boschetti-Alberti – non hanno mai attecchito, anche perché quasi sempre invisi ai poteri che si sono succeduti nel tempo. Poi bisogna pur dire che questo fondamentale patrimonio pedagogico sta vieppiù svanendo, vittima di una società contraddistinta dal tutto e subito, dalla compulsione al consumo e dall’edonismo. Eppure Pestalozzi & co. anelavano a educare e istruire anche coloro che più li detestavano, gli anelli più deboli della società, quelli che della scuola proprio se ne fanno un baffo: il che non significa certo progettare la «società del demerito», anzi! Quella, semmai, è una creatura moderna, vittima di scelte politiche sciagurate: le malattie delle scuola, insomma, si nutrono dell’aria pestilenziale che si respira.