Ben vengano le occasioni di incontro come la “festa dei popoli”, ma imparare davvero a condividere il mondo con chi ci sta accanto richiede ben altro impegno
Da qualche anno, a fine estate, la città di Locarno organizza la Festa dei popoli. L’obiettivo è far conoscere e promuovere le diverse culture – straniere e locali – presenti sul nostro territorio. Lo fa attraverso la gastronomia, le tradizioni e l’arte, ma anche stimolando la riflessione sul vivere insieme grazie a momenti di discussione e approfondimento. Qualche domenica fa mi sono intrufolato, a cavallo del mezzodì, tra le tavolate, le «cucine» e il palco di Piazza Grande, ho assaporato i profumi e gli aromi, i colori, lo sfoggio delle diversità.
Mi sono un poco immalinconito, pensando ai tanti momenti di incontro che avevo organizzato nei quasi trent’anni di direzione delle scuole comunali locarnesi. Fino agli anni ’80 gli immigrati arrivavano dall’Italia. La scuola ticinese non se ne curava più di tanto: parlavano italiano, non era necessario condividere i tanti approcci messi in atto nel resto della Svizzera.
Una quarantina di anni fa arrivarono alcune famiglie turche, seguite, negli anni successivi, vuoi alla ricerca di un lavoro, vuoi perché in fuga da guerre e discriminazioni, da spagnoli e portoghesi, poi dall’ex Jugoslavia; a seguire, dominicani, brasiliani, colombiani. Nacque in quel periodo, proprio a Locarno, il primo tentativo per facilitare l’inserimento di quelle bambine e di quei bambini nelle classi ordinarie, pensando, almeno fin lì, di insegnare loro quel minimo di italiano che chiamerei di sopravvivenza.
I profughi usufruivano del permesso N, destinato ai richiedenti asilo, uno statuto precario e tutt’altro che favorevole. Ben diverso dal più recente permesso S, concesso in modo rapido alle famiglie ucraine dopo l’attacco russo del 24 febbraio 2022. Questo confronto mette in luce un’accoglienza molto diseguale: non ho l’impressione che oggi lo stesso slancio sarebbe concesso ai palestinesi di Gaza e della Cisgiordania, né che le misure punitive contro la Russia siano state replicate nei confronti di Israele, almeno fin qua. Si percepiva, allora come oggi, un certo clima di xenofobia, a tratti persino di razzismo. Nulla di nuovo, se si pensa al trattamento riservato in passato ai Gastarbeiter. Celebre resta la frase di Max Frisch: «Volevamo braccia, sono arrivati uomini».
È da riflessioni simili che, quasi due decenni più tardi, cominciai a proporre dei momenti d’incontro, spesso assai simili alle tante feste dei popoli dei nostri anni: perché c’erano la gastronomia e il clima rilassato dello stare insieme. La scuola, tutto sommato, riusciva, benché a singhiozzo, a proporre dei momenti di incontro – poi quel che succedeva dentro le aule a contatto con gli obiettivi dei programmi scolastici è tutt’altra questione. Se tutto ciò sia servito a qualcosa non lo so dire. Mi sono chiesto tante volte – e continuo a chiedermelo – dove terminasse l’aspetto un po’ pittoresco delle nostre feste e dove iniziasse, invece, la strage [scolastica] degli innocenti: bambini e ragazzi spesso penalizzati dalle armi tipiche della scuola, in primis la valutazione. Una dinamica che, del resto, si ritrova anche in altri ambiti della società.
Cito, traducendo e sintetizzando, l’incipit di un prezioso manuale pubblicato circa un anno fa: Negli ultimi decenni l’uso di termini come multiculturale, transculturale, interculturale e simili è aumentato in politica, nelle istituzioni, nelle ONG, così come nei campi dell’educazione, del sociale, della cultura e della ricerca. Questa proliferazione rende i concetti meno chiari, con definizioni che oscillano tra descrizione oggettiva e giudizio normativo. E allora? ci si potrebbe chiedere.
Allora basterebbe pensare al Piano di studio della scuola dell’obbligo ticinese, in cui l’aggettivo multiculturale appare tre volte e interculturale una ventina: ma paiono parole usate alla carlona, con diverse sfumature piuttosto soggettive e senza troppe spiegazioni.
Il manuale citato è stato pubblicato dalle Éditions Aphil – Presses universitaires suisse. È esaustivo, ed è volto a capire una problematica di tale smisurata complessità in molteplici contesti sensibili alle relazioni interculturali, e ad agire di conseguenza. Relations interculturelles, di Edo Poglia, professore emerito dell’Università della Svizzera Italiana, e Francesca Poglia Mileti, professoressa di sociologia all’Università di Friburgo, percorre diversi ambiti sensibili alle relazioni interculturali: le migrazioni e la loro gestione; l’educazione e la formazione; la sanità e il lavoro sociale; i conflitti armati e la sicurezza; la giustizia e la polizia; i dibattiti politici/elettorali; le relazioni internazionali; la cooperazione e l’aiuto allo sviluppo; la promozione dei diritti umani nelle situazioni di multiculturalità; le pratiche e le organizzazioni religiose; i media; le imprese globalizzate/mondializzate; i servizi e le attività commerciali; la diversità culturale nella vita quotidiana.
Volendo riassumere, forse maldestramente, il contenuto del manuale – due volumi e circa mille pagine per analizzare la realtà sociale e passare dai problemi alle competenze di comunicazione interculturale – si potrebbe azzardare un’estrema sintesi della sintesi editoriale: la diversità culturale arricchisce le nostre società, ma può anche generare incomprensioni, tensioni e perfino conflitti. Questo libro offre strumenti chiari e pratici per capire le dinamiche delle relazioni interculturali e imparare a gestirle al meglio. Con un approccio multidisciplinare e numerosi casi reali, si rivolge a professionisti, studenti e a chiunque sia interessato a vivere, in modo più consapevole ed equilibrato, in un mondo sempre più multiculturale.
Decenni di terminologia fumosa hanno spesso illuso più che aiutato. Relations interculturelles, per contro, offre strumenti concreti per passare dalla teoria alla pratica, rivolgendosi a chi forma e governa la società. Così che magari anche le feste dei popoli smetteranno di essere solo un’esposizione di diversità, per diventare un laboratorio vivo, in cui imparare davvero a condividere il mondo con chi ci sta accanto.