A inizio ottobre il DECS ha diramato a sorpresa un comunicato stampa sulla storia delle religioni, disciplina inserita due anni fa in alcune sedi di scuola media a titolo sperimentale: in tre istituti obbligatoriamente, in altri tre come alternativa alle tradizionali lezioni facoltative di religione. La scarna velina dipartimentale si affretta a dire che gli allievi che hanno seguito il corso sperimentale ne sanno di più di chi invece ha frequentato le solite lezioni delle religioni riconosciute. Va da sé – ci mancherebbe altro – che chi è stato del tutto alla larga da ogni corso ottiene punteggi inferiori rispetto alle altre opzioni. Il 6 ottobre i quotidiani locali hanno dato spazio al tema. Il «Corriere» specifica fin dal titolo lo stucchevole risultato dell’esame intermedio: «Test positivo per la storia delle religioni: dalle prove risulta che chi segue il corso ha migliori conoscenze». Analogo il titolo della Regione: «Convince il corso in cui si spiegano i diversi credo». Con piena adesione alle regole del gioco, il Giornale del Popolo dissente: «Perplessità su una comunicazione del DECS: le valutazioni sugli allievi e le cifre sono da rivedere». Alla fine un lettore normale si chiede: qual era lo scopo dell’annuncio dipartimentale? Cosa si voleva dimostrare con questa valutazione? Si scrive che gli allievi-cavia ne sanno di più, senza nessun accenno sostanziale. Sono ragazzi che hanno recuperato una loro religiosità, una maggiore serenità interiore che li mette al riparo dal disordine emotivo di questi anni confusi e globalizzati? La Regione scrive che, ad esempio, «si chiedeva agli allievi di segnare su una cartina dove il cattolicesimo o l’Islam fossero più diffusi». In sostanza una domanda da quiz televisivo per spettatori di bocca buona. Fatto sta che i rapporti di ricerca, che dovrebbero anche rivelare contenuti e finalità del bilancio e della concretezza di ciò che succede nelle classi, non è stato pubblicato, neanche in edizione succinta.
Sono convinto che questa sperimentazione, con le decisioni che ne scaturiranno, non servirà a nulla sul piano dell’educazione e della famosa «scelta consapevole di un proprio ruolo attraverso la trasmissione e la rielaborazione critica e scientificamente corretta degli elementi fondamentali della cultura» eccetera. E sono altrettanto persuaso che l’insegnamento del catechismo debba avvenire nelle parrocchie e non a scuola. Non so quale valore aggiunto attribuire alla conoscenza di nozioni sulla diffusione geografica delle religioni. Anche a livello di integrazione e di tolleranza dell’«altro», sono persuaso che la conoscenza e la comprensione della nostra Cultura rappresenti una condizione irrinunciabile per ogni successivo progetto di vita e di società. Il nostro territorio è disseminato di segni che, al di là delle loro radici palesemente religiose, si configurano come elementi laici del nostro essere qui e oggi: chiese, oratori, cappelle, croci, pitture, sculture, affreschi… La storia dell’Europa e dell’Occidente è anche la storia della democrazia, del Cristianesimo e del processo di secolarizzazione. Dalla civiltà minoica all’UE abbiamo percorso un cammino tortuoso, segnato da scoperte, invenzioni, guerre, riforme e rivoluzioni, monarchie e dittature e tentativi di sovranità popolare, da passioni e idee, spesso descritte ed esaltate dalle arti: un’indispensabile conoscenza, che certo supera le nozioni sull’espansione geografica dell’uno o dell’altro credo. Che ne sanno, tanti giovani e tanti adulti, di Dante e del Manzoni, di Bach e di Liszt, del Caravaggio e di Michelangelo? E quel massone di un Mozart non ha nulla da dirci a questo proposito? Insomma: potremmo eliminare una materia, invece di aggiungerla. Perché con l’italiano, la storia, la matematica, la fisica, la storia dell’arte e la musica potremmo pigliare due piccioni con un’unica fava.