Chissà se Don Lorenzo Milani e i suoi ragazzi di Barbiana fanno ancora parte del percorso formativo dei nuovi insegnanti? Se solo si pensa che ancora pochi mesi fa un testo importante come «Lettera a una professoressa» era fuori catalogo, c’è da dubitarne. Eppure anche il messaggio di Don Lorenzo è di quelli che lasciano il segno per la carica morale e la chiarezza, simile in ciò alle opere di altri suoi illustri predecessori. Poi è vero che la scuola di Barbiana è figlia di quell’Italia del secondo dopoguerra, che, anche attraverso la sua scuola abborracciata, si curava sopra ogni cosa della sua aristocrazia, a cui servivano contadini e operai. Certo non si può leggere la «Lettera a una professoressa» prendendo tutto per oro colato. Però alcuni pensieri permangono essenziali.
All’esame scritto di pedagogia, in quarta magistrale, avevo dovuto sviluppare un tema sulla selezione scolastica preso da Don Milani: «Bocciare è come sparare in un cespuglio. Forse era un ragazzo, forse una lepre. Si vedrà a comodo». In quegli anni pregni di ideologia – eravamo a metà dei ’70 e le scuole straripavano dei figli del boom demografico – il problema della selezione scolastica era all’apice, anche perché ben si sapeva come la separazione dei bravi dagli sciocchi non era socialmente cieca (anzi: ci vedeva benissimo). La scuola media come oggi la conosciamo sarebbe concretamente giunta solo qualche anno più tardi; per il momento ci si doveva accontentare di ginnasio e di scuola maggiore. Però è in quegli anni che accadono i più importanti mutamenti dei sistemi scolastici europei, anche grazie alle riflessioni e alle proposte dei Pestalozzi, dei John Dewey, delle Maria Montessori, dei Célestin Freinet, dei Don Lorenzo Milani e di tanti altri.
Tant’è: la scuola di oggi ha un tasso di bocciatura assai minore, sicuramente anche grazie a quelle spinte ideologiche e idealistiche, sovente confluite in leggi e regolamenti che hanno tolto molta selettività alla scuola. Si dice, in effetti, che la scuola di oggi è più democratica: basti pensare alla percentuale di studenti che accedono al settore medio-superiore e all’università. Eppure c’è chi sostiene che la tanto sospirata democratizzazione si è trasformata in democratizzazione più che altro dei diplomi – che non è proprio la stessa cosa, dato che la maggiore scolarizzazione non si traduce meccanicamente in maggiore cultura, in un più elevato senso civico e in una rafforzata tensione etica collettiva. Il problema, semmai, è che certe riforme volute negli anni ’70 si sono nel frattempo annacquate. Dopo le scuole elementari i test sono diventati un must che modula le stagioni dell’anno scolastico. Ma anche in questo contesto, vi è un divario sostanziale tra l’insegnare e il valutare. Lo diceva già Don Lorenzo ai suoi tempi: «Attualmente lavorate 210 giorni di cui 30 sciupati negli esami e un’altra trentina nei compiti in classe. Restano 150 giorni di scuola. Metà dell’ora la sciupate a interrogare e fa 75 giorni di scuola contro 135 di processo. […] Durante i compiti in classe lei passava tra i banchi, mi vedeva in difficoltà o sbagliare e non diceva nulla. […] C’è silenzio, una bella luce, un banco tutto per me. E lì, ritta a due passi, c’è lei [la professoressa]. Sa le cose. È pagata per aiutarmi. E invece perde il tempo a sorvegliarmi come un ladro»: dati quantitativi a parte, potrebbe essere divertente riscrivere il paragrafo adattandolo alla nostra attualità, mentre «lei» sarebbe ancor lì a tenerci d’occhio come furfanti.
Eh, sì: il processo. Per Don Lorenzo gli esami, i test, le interrogazioni sono come un processo. Il bello è che, al giorno d’oggi, dopo tanti test propinati a dosi industriali si abbassa la percentuale dei bocciati, ma non si alzano la competenza linguistica, la conoscenza della storia, l’amore per le arti, la coscienza civica e civile, l’arte della convivenza, l’amore per la speculazione intellettuale. Come Don Lorenzo non ho dubbi: prima di valutare bisognerebbe insegnare.