Per oltre trent’anni la Magistrale ha continuato a sfornare disoccupati, malgrado la considerevole diminuzione degli iscritti, la chiusura per un paio di anni e un modello formativo pensato per un numero relativamente basso di studenti. A metà degli anni ’70 la scuola ticinese aveva dovuto confrontarsi con una doccia fredda del tutto inaspettata: se fino al 1974/75 si erano costruite nuove scuole per accogliere i figli del baby boom – e l’istituto locarnese diplomava oltre duecento nuovi maestri di scuola elementare all’anno – a partire dall’anno successivo era iniziato il calo inesorabile degli allievi, passati dagli oltre 20 mila di quegli anni ai 13 mila dell’88/89. Nei primi anni di questo millennio, con l’istituzione dell’ASP, si è pure introdotto il «numero controllato», un modo perbene per dire «numero chiuso», con un occhio di riguardo al modello formativo più che ai disoccupati.
Da qualche mese – toh!? – si è però scoperto che c’è scarsità di maestri di scuola elementare, tanto che un gruppo di parlamentari ha presentato l’immancabile iniziativa generica che segnala «una presunta scarsità di docenti» e chiede di «innalzare sensibilmente o abolire il numero chiuso delle ammissioni presso il DFA», con la precisazione di escludere gli studenti residenti fuori Cantone, ovvio. Ma com’è potuto succedere che nessuno s’accorgesse che la demografia era stagnante, mentre il corpo insegnante invecchiava in modo implacabile? A parte che già da almeno due o tre anni le scuole comunali faticano a trovare supplenti, nei primi anni ’90 la Conferenza dei direttori delle scuole comunali si era chinata sul problema dell’invecchiamento del corpo insegnante. In un rapporto del 1995, redatto insieme all’Ufficio studi e ricerche (USR) del Dipartimento, i direttori scrivevano: «Se prendiamo in considerazione i dati forniti dalla Cassa Pensioni, che situano a 62 anni l’età media di pensionamento, ci accorgiamo che un vero e proprio ricambio del corpo insegnante avverrà fra 15-20 anni». Appunto. La problematica era poi stata assunta direttamente dal medesimo USR, che tuttavia non si era occupato del problema, con l’obiettivo di giungere preparati a questa scadenza, sebbene la Magistrale appartenesse ancora allo Stato – il passaggio alla SUPSI risale a quattro anni fa – e benché la demografia proseguisse il suo placido scorrere.
In un articolo del 1996 Graziano Martignoni aveva scritto che l’augurio più bello che si poteva rivolgere a un bambino che affrontava il primo giorno di scuola fosse quello di «incontrare un buon maestro»: credo che possiamo essere tutti d’accordo. Ora, in attesa che il DFA trovi le soluzioni migliori per formare un numero sufficiente di maestri entusiasti e competenti e che lo Stato conceda i crediti necessari per farvi fronte, da più parti si è data la stura alle soluzioni più fantasiose, ognuna delle quali pretende di essere l’uovo di Colombo. Negli anni ’70 il Canton Vallese, confrontato con un’analoga penuria di maestri, aveva diminuito all’istante la durata degli studi magistrali. Cose d’altri tempi, certo. Ma sarebbe il colmo se, per risolvere in fretta un problema conosciuto da anni, si sacrificasse la qualità dei nuovi insegnanti, ammesso che quel che passa oggi l’ex convento locarnese sia all’altezza di un far scuola sempre più complicato e sfibrante. Perché l’importante è che i maestri siano in gamba, a prescindere da ogni soluzione autarchica.
Imprevidenza politica
Il fenomeno è universale e si può prevedere come del resto lo si dice nell’articolo. Ma occorre una politica del personale scolastico che nel Ticino non esiste. Quindi si riproduce l’alternanza di esuberi e penuria. A Ginevra si effettuano proiezioni sul fabbisogno di personale.