Sotto l’albero di Natale il Ticino laico ha trovato il nuovo vescovo. Come si sa, erano diversi mesi che, chi più chi meno (e chi niente del tutto), si aspettava questa elezione. La sorte – chiamiamola così, laicamente – ha voluto che il successore di Monsignor Giuseppe Torti fosse proprio quel Don Mino Grampa conosciuto nel mondo della scuola per essere stato per tanti anni rettore del Collegio Papio di Ascona, ma ancor più noto per essersi battuto in prima linea in occasione della votazione del 18 febbraio 2001 a favore del finanziamento delle scuole private.
Si può immaginare che, in ambito scolastico, qualche spirito passionalmente anticlericale o religiosamente apatico abbia platealmente storto la bocca alla notizia di tale nomina, intravedendo nella designazione di Don Mino a Vescovo della diocesi di Lugano chissà quale possibilità di nuovi rigurgiti all’assalto della scuola pubblica. Personalmente non credo che, sui tempi brevi, sarà ancora possibile una battaglia politica come quella di quasi tre anni fa; nel contempo altre grane non da poco stazionano in reconditi cassetti del nostro Governo e della Curia vescovile. È il caso – per citare l’esempio più arroventato – dell’iniziativa parlamentare inoltrata il 2 dicembre 2002 da un gruppo di granconsiglieri, che han fatto proprio un postulato dell’«Associazione per la scuola pubblica del Cantone e dei Comuni in Ticino».
L’atto parlamentare chiede in sostanza che si modifichi la Legge della scuola, là dove sancisce che “L’insegnamento della religione cattolica e della religione evangelica è impartito in tutte le scuole obbligatorie e postobbligatorie”. Al posto dell’ora di catechismo (facoltativa) appaltata alle due Chiese ufficiali, l’iniziativa propone che “In tutte le scuole obbligatorie e post obbligatorie [sia] impartito per tutti gli allievi un corso di cultura religiosa con le seguenti finalità: a) sviluppare progressivamente la conoscenza di quegli elementi del cristianesimo e della sua storia che risultano indispensabili per la comprensione della cultura e della tradizione europee; b) avvicinare i giovani, mediante riferimenti a religioni storiche diverse da quella cristiana, alla comprensione dell’universalità del fenomeno religioso, così da favorire il rispetto di ogni atteggiamento (di adesione ad una fede, agnostico o ateistico)”.
Perché quest’importante atto parlamentare non sia ancora stato evaso è facilmente intuibile. Gli interessi in gioco sono chiaramente molteplici, e non tutti facilmente confessabili. Scegliere tra obbligare tutti a dotarsi di una cultura religiosa o consentire solo a taluni di farsi catechizzare (escludendo tutti gli altri) è e sarà un negoziato sofferto, vuoi per questioni filosofiche e, più in generale, politiche, vuoi per questioni più bassamente di parrocchia. Detto questo, credo che il nuovo Vescovo ci metterà del suo, perché è culturalmente vicino al progetto di un’educazione religiosa obbligatoria per tutti gli allievi. A suo tempo avevo avuto modo di sentirlo affermare – nel suo stile ruvido e impetuoso – che il luogo della catechesi è la parrocchia; e ancora lunedì scorso, intervistato per la Radio svizzera da Salvatore Maria Fares, ha ribadito la sua preoccupazione per l’indifferenza e il menefreghismo imperanti, ma ha pure lanciato un appello (ai cattolici?) contro la criminalizzazione degli atei. Preoccupazioni sacrosante, che sono anche quelle di molti laici.
Di sicuro la proposta di modifica della Legge della scuola, sostenuta invero con un certo distacco anche da ambienti che dovrebbero essere insospettabili, rappresenterebbe un sicuro e decisivo passo verso quel ritorno ad una scuola umanistica che in molti han cominciato a reclamare a gran voce. E d’altra parte chi ha a cuore le sorti del Paese e della sua Scuola non può esimersi dall’inquietarsi, assieme a Monsignor Grampa, per l’ipocrisia e l’indifferenza sempre più diffuse. Sempre che anche lui, come molti altri, non finisca ostaggio di chi vede in ogni cambiamento e in ogni modernizzazione la perdita di qualche misera prerogativa.