La «classe ingestibile» di Zurigo, quella che ha messo al tappeto sei insegnati di fila nel breve volgere di due anni e un po’, ha tenuto banco sui giornali nel periodo pasquale, surclassando i consueti articoli sulle code dell’asse nord-sud, sul bel tempo nella Sonnenstube e sull’omelia del Papa. I crudeli allievi, ovviamente stranieri, hanno fatto da traino ad altri truci fatti scolastici: sul Corriere del sabato Santo un titolaccio strillava: «Sempre più docenti minacciati»; poi, a seguire, un’antologia di “crimini e misfatti”. A Ennentbürgen, nel canton Nidvaldo, un allievo di scuola media (svizzero, precisa il comunicato) «ha proferito minacce nei confronti di un docente», facendo accorrere la polizia (chissà se a sirene spiegate?). A Siebnen è invece stato arrestato un quindicenne (croato, stavolta) che tartassava alcuni coetanei estorcendo piccole somme di denaro. E per concludere: «Da febbraio allo scorso marzo sono almeno tre i casi di minacce di morte di cui sono stati vittima» alcuni insegnanti nella svizzera interna. Sull’inevitabile nazionalità dei minaccianti, neanche un cenno piccolo piccolo. Saranno stati autoctoni.
E allora uno si chiede: ma che sta succedendo? Non era già eccessivo e intollerabile – che so? – l’uso improprio del telefonino a scuola? Parrebbe di no. Come hanno scritto i giornali – e come hanno riferito radio e televisioni in quei giorni di pace – «Nelle ultime settimane ha fatto notizia una classe della scuola elementare di Zurigo-Friesenberg, che in due anni e mezzo ha visto succedersi ben sei insegnanti. La classe in questione è composta di 22 scolari, di cui 17 provenienti dai Balcani». La provenienza è basilare. Potevano mancare le opinioni delle maggiori cariche dello Stato? Certo che no. Il consigliere federale Christoph Blocher, durante una manifestazione dell’UDC, ha criticato la passata politica di immigrazione e il conseguente aumento della violenza giovanile. Par di capire che, secondo Blocher, se i 22 scolari fossero stati svizzeri nulla sarebbe accaduto.
Per fortuna, come si sa, il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. Ed ecco allora un altro consigliere federale a denunciare le oscene nudità del re: Pascal Couchepin, dicendosi scioccato e inorridito, ha puntato senza mezzi termini il dito contro le autorità scolastiche: «Se in una classe vi sono ben 17 allievi su 22 che non parlano tedesco, il problema è imputabile alle autorità, non ai ragazzi». Bravo, signor ministro! Bravo, sì, perché è utile che, almeno ogni tanto, una voce autorevole si levi a spezzare questa spirale xenofoba, che diventa sempre più perniciosa. Non è una novità che a porre problemi di disciplina siano pressoché da sempre i figli dei ceti più umili, quelli che hanno poco da rimetterci e che la scuola tende a perdere facilmente per strada. Che poi le classi più indigenti siano composte in gran parte da stranieri, sembra importare poco.
Ma c’è dell’altro: rispetto a un po’ di anni fa, la riuscita scolastica non è più legata a doppio filo con l’entrata nel mondo del lavoro; analogamente la scuola è sempre meno uno strumento di promozione sociale. Fino a un tempo neanche tanto distante, tra durata della formazione e status della professione c’era un rapporto quasi inscindibile e naturale. Invece oggi il bel dispositivo si è rotto. A quindici anni è difficile, per un giovane, riuscire a capire quale sia la strada migliore per non restare inevitabilmente disoccupato – e ancor più delicato è consigliarlo. Riuscire a scuola è sempre più un fatto pressoché autoreferenziale, quasi un lusso per pochi privilegiati proverbialmente nati con la camicia – e naturalmente dopo loro padre. Forse invece di fare di ogni erba un fascio, continuando a criminalizzare i nostri giovani e a sbatterli in prima pagina, converrebbe capire che essi rappresentano il nostro futuro. Invece si preferisce vezzeggiarli per spingerli sempre più al consumo: che è effimero solo per loro ed è indipendente dalla nazionalità.